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Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente

di Clara Mandolini - 08/01/2009

Il volumetto, di agile lettura, contiene la traduzione della “conferenza sull’efficacia” in cui François Jullien riassume il risultato dei propri studi sulla differenza tra il pensiero occidentale e quello cinese a proposito della teoria dell’agire. Il discorso si snoda in quattro tappe principali, individuabili (1) nella giustificazione del valore euristico di uno studio del pensiero cinese, (2) nella focalizzazione dello sguardo sulla teoria dell’efficacia, (3) nella delineazione puntuale delle differenze concettuali sulla strategia dell’azione efficace, (4) nella rapida rilettura di alcuni cruciali passaggi storici della Cina alla luce di questa concezione della strategia di azione.

Jullien sintetizza il proprio intento, agli antipodi di uno sterile esotismo intellettuale, nella duplice immagine della deviazione e del ritorno che il “passaggio per la Cina” consente di effettuare: ci si allontana dalla storia della filosofia solo per riposizionarcisi e interrogarla su quanto in essa rimane indiscusso. La prospettiva cinese è così utilizzata come “operatore teorico” di un’interrogazione più profonda della stessa filosofia, di un esame della pretesa di validità delle sue categorie più frequentate. Il radicale “potere di obiezione” della cultura cinese deriva dall'essere la Cina la «sola grande civiltà che si è sviluppata al di fuori del pensiero europeo» (p. 3), dalla sua eterotopia, dal suo costituire un mondo altro eppure “pieno”.

Messo in prospettiva grazie a questo “altrove distante”, il pensiero occidentale può così essere interrogato nelle sue evidenze, indiscusse perché assimilate a un fondo di intesa la cui “ovvietà” rimane impensata. La presa in esame della logica interna al pensiero cinese aiuta cioè ad assumere un punto di vista eccentrico che permetta una presa di distanza critica utile a far apparire l’impensato stesso del nostro ragionare. L’autore affronta questa distanza sconcertante studiando in particolare la teoria dell’efficacia e della strategia, rispettivamente nell'ottica europea e cinese.

La concezione greca dell’azione, alla base del pensiero classico europeo, è riassunta globalmente nel concetto di modellizzazione: dapprima nell’intenzione si costruisce un modello ideale, una forma paradigmatica che configuri un obiettivo; poi si passa all’azione, come applicazione al mondo di quel modello formale, come realizzazione dello scopo assunto. Ma così intesa l’azione coinvolge estrinsecamente le due facoltà della volontà e dell’intelletto, e l’applicazione esige un livello variabile di “forzatura” del soggetto stesso e delle cose. La teoria della modellizzazione, tanto feconda sul piano della tecnica, aggrava in realtà lo scarto tra teoria e prassi e non sa rendere ragione della “dispersione” dell'intenzione nel passaggio intermedio al fatto.

Giustamente Jullien nota la posteriorità di questa visione alla nascita della filosofia, rilevando come nel pensiero greco arcaico si desse un altro tipo di comprensione dell’efficacia, rilevabile nell’uso del termine metis (“fiuto”) come capacità di trarre vantaggio dalle circostanze, di «scoprire i fattori “portanti” in seno alla situazione per lasciarsi trasportare da essi» (p. 15). In questa idea che, pur “perdente” nell’evoluzione successiva del pensiero, si avvicina di più alla prospettiva cinese, è meno accentuato il ruolo dell’iniziativa soggettiva dell’autore dell’azione rispetto al contenuto sfruttabile della situazione; con l’avvento della filosofia e del pensiero greco classico, però, eidos sconfigge metis consentendo il sopravvento del pensiero della modellizzazione, sul cui inusitato potenziale l’Europa investe pesantemente fino all’identificazione galileiana della matematica con il modello “linguistico” dell'intera natura.

È vero che proprio da questo passaggio prende avvio lo sfasamento dei ritmi di sviluppo della civiltà europea rispetto a tutte le altre. E tuttavia, a fronte dell’indubbia applicabilità del paradigma teorico della modellizzazione all’ambito dell’agire produttivo (della póiesis), ci si deve interrogare sulla fecondità della sua estensione a ogni campo dell'agire. È anzi evidente l’inadeguatezza, la non applicabilità, di questo modello alla strategia militare: tramite un confronto tra il testo del primo grande pensatore europeo della guerra, Carl von Clausewitz (XIX secolo), e i trattati cinesi classici sull’arte della guerra, principalmente quelli di Sun Tzu e Sun Bin (secoli V-IV a.C.), Jullien procede così a rilevare gli elementi di distanza della concezione cinese della strategia efficace rispetto a quella europea.

Clausewitz è cosciente dell’inevitabile scarto tra “guerra ideale” pianificata e “guerra reale”, ma non ne trae le dovute conseguenze sul piano della teorizzazione della strategia, ribadendo il fallimentare pensiero della modellizzazione; lo stratega prefetto è “geometra” ma anche, contraddittoriamente, “genio” capace di stravolgere il piano prestabilito e sfidare la sorte. È evidente per Jullien, in questa dicotomia costante nel pensiero occidentale della guerra, l’inadeguatezza della strategia della modellizzazione, incapace di “consonare” con le circostanze e di proiettarsi senza attrito nella situazione. Lo stratega cinese, di contro, pensa l’efficacia nella guerra come assenza o massima limitazione dell’attrito, della resistenza dell'azione proiettata nel mondo: la perfezione dell’efficacia si esplica non nel colpo clamoroso ma nella facilità – silenziosamente e pazientemente costruita – della vittoria stessa, non nella machiavellica “violenza” nei confronti della sorte, ma nella trasformazione della situazione a proprio vantaggio, dalla quale la vittoria non può che riuscire “senza sforzo”.

Si delineano così i vari caratteri che concorrono alla definizione cinese dell’efficacia. Le nozioni cardine in questo senso sono situazione, configurazione, terreno, dai quali lo stratega vero deve sempre partire: egli deve mirare a formare sotto di sé la pendenza favorevole, valutando e poi orientando vantaggiosamente il “potenziale della situazione” (shi), cioè l’insieme delle condizioni che “stanno intorno” (le circostanze) alle azioni sostenendole. Tale idea di efficacia strategica tende a favorire il momento della valutazione del potenziale della situazione per calcolare e «determinare la variabile in funzione del vantaggio» (p. 28). Lungi dall’affidarsi all’aleatorietà, lo stratega opera un’analisi rigorosa e in continuo mutamento, ricerca le condizioni della risultante vantaggiosa, configura la propria azione come “destino” inevitabile, perfettamente radicato nella situazione. Non ci deve perciò essere «frattura nella coerenza del processo» (p. 29), come non sono ammesse la divinazione né la speranza in un intervento esterno all’ordine delle circostanze date.

A partire dall’esame della teoria strategica Jullien tenta così di tracciare il profilo dell’intera concezione cinese della prassi umana, per mostrarne l'estraneità alle categorie di finalità e progresso. Mentre in Europa il pensiero della modellizzazione porta a pensare l’efficacia in termini di adeguazione tra mezzi e fini, quello cinese si basa piuttosto sull'idea di sfruttamento della propensione, in analogia al contadino che agevola senza forzare il processo della trasformazione naturale. Anziché sul telos e sul compimento, come fine che attrarrebbe a sé il divenire, il pensiero cinese si concentra sull’interesse o vantaggio (li), sulla disposizione che se favorevole va appoggiata e sfruttata, se sfavorevole modificata. Insieme all’accento sulla propensione, si definisce anche il diverso statuto dell’effetto: questo, come il frutto della pianta, va lasciato maturare, va cioè rispettato nel suo processo spontaneo di crescita, non forzato dall’attivismo finalizzato del soggetto ma neanche trascurato.

In definitiva risulta che «l’efficacia cinese è discreta» (p. 44) e non presenta lo “strappo” fondamentale della Libertà, per la stessa ragione per cui la storia della letteratura cinese non conosce epopee. Jullien sottolinea il contrasto tra “l’accanimento” europeo dell’azione nei confronti della materia recalcitrante e l’ideale cinese del “non-agire” (wu wei), da intendere non certo come passività o rinuncia all’azione, ma come trasformazione a tutto campo e per questo “invisibile”, secondo la formula: «Non fare nulla ma che niente non sia fatto» (p. 47). Jullien può allora sintetizzare le differenze tra la visione occidentale dell’azione e quella cinese di trasformazione efficiente: mentre l’azione è momentanea, locale, soggettiva (e ciò vale anche quando si protrae temporalmente ed è attuata da un soggetto collettivo), la trasformazione è per sua natura globale, estesa nella durata, progressiva e continua, rinvia non tanto a un attore ma procede attraverso l’influsso diffuso. In questa visione l’azione, «al massimo, può rappresentare una focalizzazione-coagulo-contrazione nel corso continuo delle cose» (p. 50), rimanendo effimera, priva dello slancio eroico tipico invece dell’epica europea.

Di qui è facile vedere, persino nell’attuale “improvvisa” emergenza della Cina a livello economico, una conferma del suo paradigma processuale (e non progressivo). Si può allora misurare tutta la distanza tra la retorica occidentale dell’evento (l’apparizione improvvisa che cambia la storia), della parola (anche quella rivelata) o dell’occasione, e la dissoluzione cinese dell’istante a favore del flusso della mutazione e dell’attenzione al momento «in cui si abbozza la tendenza favorevole» (p. 67), «la circostanza dalla quale far emergere l’opportunità» (p. 69). In senso negativo appare anche la conseguente accentuazione da parte cinese dell’ideale della destrutturazione del nemico realizzata attraverso l’erosione del suo potenziale della situazione, opposto a quello occidentale di distruzione del nemico stesso.

Jullien rilegge infine, nonostante il radicale stravolgimento operato dalla Rivoluzione culturale, la strana “epopea” della Lunga marcia, fatta di «strategia indiretta, che opera per svolte e controsvolte, di sbieco, sviluppandosi nella durata» (p. 75), cerca «un margine per sopravvivere, anziché sacrificarsi» (p. 76) e «farsi tollerare dalla storia» (Ibid.), non diversamente da quanto ha fatto Deng Xiaoping trasformando la Cina senza rotture destabilizzanti.

Ma proprio sul piano politico, secondo Jullien, sarebbe destinato ad arenarsi il modello cinese di efficienza, incapace di organizzare il dibattito democratico e di mettere in rapporto prospettive di valore e posizioni critiche, il che invece sarebbe possibile col procedimento tramite modellizzazione di tipo europeo, più capace di coagulare consenso e iniziative grazie al valore regolativo di un modello ideale. Paradossalmente allora, secondo l’autore, proprio sul piano dell’azione non produttiva, in tutto ciò che non fa capo alla semplice efficienza, l’Europa potrà rivitalizzare un primato politico.

Ci si può chiedere se i riferimenti fatti ai testi non siano che parziali esemplari di una più ampia varietà di concezioni dell’azione, dal lato europeo come da quello cinese, e se per questo non si debbano rilevare oltre alle differenze anche eventuali punti di contatto tra le due visioni, per esempio in merito ai criteri di valutazione morale dell'azione efficace. Un altro punto di domanda può essere posto sulla differenza, non affrontata nel testo, tra il paradigma cinese del vantaggio e quello di matrice economico-politica dell’utilità.

Nel complesso il tentativo intrapreso da Jullien appare comunque molto interessante per coloro che sulla scia dello stupore per la crescita d'influenza della Cina si interrogano sulla forma dei futuri rapporti con un Paese tacitamente portatore di una profonda sfida culturale. Il testo è certamente molto utile non solo a chi per ragioni politiche o economiche si confronta con partner cinesi, ma anche a tutti coloro che si occupano, da filosofi, di sondare la validità delle proprie categorie di comprensione del reale.

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Un’alternativa nella cultura
Lo sconvolgimento del pensiero
Riaprire altri possibili nel proprio spirito
Per essere efficaci: modellizzare
O appoggiarsi sui fattori “portanti”: “surfare”
Domanda: quali sono i limiti di fecondità del modello?
La conduzione della guerra, non essendo modellizzabile, è forse per questo incoerente?
Nelle “Arti della guerra” cinesi: la nozione di potenziale della situazione
Sul coraggio: qualità intrinseca o frutto della situazione?
Valutazione-determinazione
Mezzo-fine
O condizione-conseguenza
Elogio della facilità
Processo: meditare sulla crescita delle piante
Modalità strategiche: l’indiretto e il discreto
Sul versante europeo: azione, eroismo, epopea
Sul versante cinese: il non agire
Azione/trasformazione
Mitologia dell’evento
Si tratta di empirismo?
Anche un contratto è in trasformazione (ma anche l’amicizia è un processo)
Progresso/processo
Come pensare l’occasione?
Traslazione: efficacia/efficienza
Obiezioni
La Lunga marcia è un’epopea?
Cercare un margine per sopravvivere (anziché sacrificarsi)
Deng ha “trasformato” la Cina
Che cos’è un grande politico?


L'autore

Svolti studi in Francia e a Pechino, già presidente del Collège International de Philosophie, François Jullien insegna ora all’Università Paris-VII e dirige l’Institut de la Pensée contemporaine. Si occupa dello studio del pensiero cinese in una prospettiva filosofica, in particolare sui temi dell'alterità, dell’arte, della morale, della strategia, del rapporto maestro-allievo. Tra le sue opere ricordiamo: La proprension des choses. Pour une histoire de l'efficacité en Chine (1992), Le Détour et l'accès. Stratégies du sens en Chine, en Grèce (1995).

Jullien, François, Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente.
Roma-Bari, Laterza, (Economica Laterza, 474), 2008, pp. 90, €. 6,90, ISBN 978-88-420-8750-2.
Edizione originale: Conférence sur l'efficacité, Paris, Presses Universitaires de France, 2005.