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"L'oro sporco ci ucciderà"

di Lorenzo Mondo - 08/01/2009

 


 

Una volta Fort McMurray era un angolo di quello che gli antichi capi indiani chiamavano Athabasca, «dove cresce una pianta dopo l’altra»: un’immensa distesa di alberi, terra, luce e acqua. Solo dieci anni fa queste valli erano uno dei luoghi più selvaggi del pianeta e il territorio di caccia dei Chipewyan, che con il sangue delle prede innaffiavano quelle terre per compiacere gli spiriti e anche Nostro Signore. Poi arrivò l’uomo bianco, attirato dall’odore fetido di una poltiglia nera nascosta a più di 400 metri di profondità. Per i Chipewyan era solo una sabbia argillosa che usavano per rivestire le canoe. Per i petrolieri è «sabbia bituminosa», da trasformare in oro nero. Sono le Tar Sands: una miscela di petrolio, catrame, sabbia e creta impregnata di idrocarburi, più facile da trasformare in asfalto che in greggio.

Finché, con il prezzo del barile salito oltre i 100 dollari al barile, la provincia canadese dell’Alberta dichiarò ufficialmente aperta la nuova corsa all’«oro sporco» Prima arrivarono le trivelle della British Petroleum. Qualche anno dopo dall’Aia giunsero le ruspe della Shell, da Dallas i camion dell’Exxon, da Parigi i bulldozer della Total. E poi ancora dalla California gli escavatori della Chevron, dalla Cina le pale cingolate della Cnooc e Sinopec. Un totale di 17 miniere a cielo aperto e più di 30 miliardi di dollari di investimenti. Fort McMurray venne ribattezzato Fort McMoney: un deserto di crateri velenosi, circondato da fast food, stazioni di servizio, motel e un cartello che annuncia «We have the Energy». Adam Allan, capo dei Chipewyan, veniva qui a caccia con il padre. «Questo posto era una meraviglia - racconta Allan -: selvaggio, verde, pulito. Una delle più belle foreste boreali del pianeta».

Quando Fort McMurray era ancora Athabasca, si potevano ammirare le grandi alci, con corna ampie due metri, bagnarsi nelle acque dei fiumi. Gli antichi capi dicevano che sono le prede più difficili da cacciare. Più forte di uno stallone e più veloce di qualsiasi indiano, l’enorme cervide è un simbolo sacro per le Prime Nazioni. I Chipewyan le danno la caccia muovendosi in gruppo come un branco di lupi, saggiando l’aria, seguendo pazientemente le sue tracce. Per i Nativi la caccia non è solo una questione di fucili e pallottole. È meditazione: liberare la mente, svuotarla dai pensieri, se non vuoi che il tuo avversario scopra i tuoi piani. Oggi, racconta Allan, puoi a mala pena vedere degli strani topi muschiati galleggiare a pancia in su nelle acque gelide del fiume Athabasca.

«Le alci sono scomparse - dice - alcune sono morte e altre sono migrate verso sud. La loro carne non era più commestibile. È carne all’arsenico». Il petrolio di Fort McMurray non sgorga dal sottosuolo e per estrarlo non si usano né pompe né tubature. Bisogna scavare il terreno, raccogliere il bitume e impastarlo con apposite sostanze chimiche per favorirne la fluidità. I sottoprodotti della lavorazione delle Tar Sands sono quanto di più inquinante esista nel pianeta. Per riempire un singolo barile di petrolio (159 litri) occorrono più di mille litri di acqua mischiata a acido solfidrico, ossido di azoto, piombo e nichel, che viene poi scaricata in enormi buche di sabbia, formando così laghi tossici. Una volta ricco di lucci e trote arcobaleno, oggi il fiume Athabasca sembra una strada appena asfaltata popolata da strani pesci mutanti.

«Ci sono dei lucci con delle grosse protuberanze sul dorso - racconta Allan -. È chiaro che in quel fiume non si può più pescare. Ma prima di capirlo, molti di noi c'hanno lasciato la pelle». Anche i Chipewyan stanno scomparendo. Muoiono lentamente, giorno dopo giorno, annientati da una rarissima forma di cancro che attacca il fegato e i vasi sanguigni. «Abbiamo chiesto al governo di indagare sulla situazione, ma non ci hanno mai risposto». Secondo i numeri di Greenpeace le emissioni di CO2 prodotte dall’estrazione del petrolio dalle Tar Sands in un anno si aggirano attorno ai 140 milioni di tonnellate: due volte i gas emessi da camion e macchine in tutto il Canada. Il primo ministro Stephen Harper non sembra preoccuparsene troppo. «Il Canada intende divenire una superpotenza dell’energia, ma anche una superpotenza pulita», aveva assicurato la scorsa estate durante un incontro a Londra con le Camere di Commercio inglesi, ribadendo che il suo governo imporrà dei limiti alle emissioni prodotte dalla lavorazione delle Tar Sands. Ma qui, in questa remota provincia canadese, grande due volte l’Italia, dove il termometro in inverno tocca meno 40 gradi, il business dell’oro nero non si ferma davanti a nulla.

Secondo i dati delle associazioni ambientaliste saranno 150 i miliardi investiti nelle Tar Sands nel prossimo decennio. Nasceranno nuove strade, oleodotti, raffinerie. I trattati stipulati con gli indiani sono vecchi di 140 anni, quando i coloni facevano sbronzare gli aborigeni che firmavano con una croce la cessione di migliaia di acri di terra, per due casse di rum. I Chipewayn lo scorso anno hanno intrapreso un'azione legale contro il governo dell’Alberta. Così una bella mattina, senza alcun preavviso, si sono ritrovati i bulldozer dei petrolieri nelle loro terre. «Rubano i nostri territori - dice Allan -. Un giorno sono nostri e il giorno dopo appartengono a loro». Lo scorso 12 dicembre la corte federale ha rigettato la loro istanza. Ma Adam Allan non si dà per vinto: «Continueremo a lottare - dice -, non abbiamo molta scelta. O noi o loro».

Solo la crisi finanziaria potrebbe rallentare il disastro. Ne è convinto Eric Schaeffer, direttore dell’Enviromental Integrity Project, associazione ambientalista che da anni si batte contro lo sfruttamento dell’Athabasca. Schaeffer spiega che prima dell’11 settembre le Tar Sands erano solo dei potenziali serbatoi di energia. Allora i costi per la raffinazione del catrame erano ancora proibitivi. Poi il prezzo del greggio cominciò a salire fino ai 147 dollari al barile del luglio scorso. Fino a quando il prezzo del greggio oscillava tra i 100 e i 120 dollari «tutto andava a gonfie vele» e l’Athabasca si era guadagnata l’appellativo di «Emirato del XXI secolo». Oggi il greggio oscilla tra i 40 e i 50 dollari: un incubo per le trivelle dell’Athabasca. «Sotto i 40 dollari - spiega Schaeffe - le Tar Sands rischiano di trasformarsi in un investimento fallimentare per le compagnie petrolifere». I giornali canadesi parlano già di un falò di 150 miliardi e migliaia di licenziamenti. Ma a pagare il prezzo più alto di questo disastro è la natura. La mitica terra dei Chipeweyan, inquinata e stravolta, è ormai solo una leggenda.