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Azione, scopo e valore definiscono il senso della nostra vita

di Francesco Lamendola - 10/01/2009


 

Che la vita umana abbia bisogno di essere giustificata sotto il profilo etico e ontologico; che sia giusto e logico porre la domanda circa il suo significato; che lo spettro della mancanza di senso possa incombere su di essa, svuotandola dall'interno - per così dire - delle sue ragioni ultime: ebbene, tutte queste cose sono relativamente recenti nella storia del pensiero umano, compresa quella sua variante costituita dal pensiero occidentale.
Gli uomini dell'epoca pre-moderna non si ponevano tali domande; o, se pure se le ponevano, non lo facevano in astratto, isolandole da quel più complessivo orizzonte di senso che esprimeva la loro visione religiosa della vita stessa. In altri termini, l'uomo pre-moderno non si chiedeva quale fosse la ragione del proprio esistere, come se una tale domanda avesse un senso indipendente, fuori dal contesto della domanda circa le ragioni dell'esistenza del tutto, di cui ogni singola esistenza individuale non era che un caso particolare.
Pertanto, invece di lacerarsi con il dubbio se la propria esistenza non fosse, per caso, del tutto priva di senso e quindi, in ultima analisi, ingiustificata ed assurda, l'uomo pre-moderno si sforzava di porla concretamente nel solco della tradizione, ossia di metterla in accordo con le ragioni complessive dell'esistenza del mondo. E questo era tutto ciò che importava, tutto ciò che al singolo individuo era lecito domandare: spiegare il senso della propria esistenza eccedeva non solo dalle sue responsabilità, ma anche dalle sue possibilità logiche.
«Sensata» è l'esistenza che realizza lo scopo per il quale essa è stata posta; e non esistevano dubbi - da Aristotele e San Tommaso in poi - che l'esistenza dell'uomo ha uno scopo intrinseco, che consiste nel realizzare a fondo la sua essenza di creatura libera, ragionevole, aspirante al compimento della virtù.
Ora, virtù viene da "vir": dunque, virtuosa è l'esistenza che pone con forza, virilmente, l'esigenza di riconciliare l'intenzione con l'atto, realizzando sino in fondo le proprie potenzialità. Virtuoso, in realtà, non significa, etimologicamente, null'altro che «secondo la propria qualità»: le virtù di una cosa non sono altro che le sue qualità. Da tale concetto risulta escluso ogni giudizio di valore estrinseco; tanto è vero che si può parlare delle virtù di un farmaco come di quelle di un veleno: non volendo significare altro che le sue qualità, ossia ciò che ne costituisce l'essenza.
È chiaro che da questa prospettiva emerge una fortissima carica di finalismo: ciascuna cosa non esiste per altra ragione che quella di realizzare a fondo la  propria essenza. Il mondo è l'immenso scenario di una sacra rappresentazione in cui l'uomo è chiamato a svolgere la sua parte, con umiltà e coraggio; con questa differenza rispetto alle altre creature: che, essendo dotato di ragione e volontà, a lui spetta la libera scelta se mettersi in sintonia, oppure no, con il generale movimento del tutto, che è un movimento secondo virtù, cioè secondo l'essenza di ciascuna cosa e di ciascuna cosa secondo l'essenza dell'universo, che è di origine divina.
Dio, pertanto, è sia la causa efficiente, sia la causa finale di tutto ciò che esiste: egli attira a sé tutte le cose, nel momento stesso in cui le chiama ad esistere. L'uomo, creatura libera e ragionevole per eccellenza, può assecondare questa legge universale, oppure può contrastarla; ma, qualunque cosa egli scelga di fare, né la sua fedeltà né la sua infedeltà ad essa potranno mai modificare o revocare in dubbio la sensatezza del suo esistere, che è fuori di lui e che si fonda ben prima che egli apra i suoi occhi sul mondo.
Profondamente radicato nel progetto divino del mondo, anzi posto al centro di esso, l'uomo - a differenza degli altri esseri viventi - agisce secondo ragione e secondo libertà; per cui, a somiglianza del divino Principio da cui trae origine, in un certo senso è chiamato a collaborare all'armonia cosmica in base ad un principio di responsabilità.
La sua intelligenza e la sua libertà fanno sì che la sua esistenza sia caratterizzata da un agire che non mira soltanto alla sopravvivenza, ma alla realizzazione del suo fine specifico, ossia della sua specifica virtù; cosa che non è richiesta, poniamo, a un cane o a un cavallo, poiché nell'animale non vi è libero assenso della volontà intelligente al progetto cosmico, ma solo il puro istinto della sopravvivenza. L'animale cerca il nutrimento quando ha fame; l'uomo è capace di imporsi l'attesa, in vista di un fine superiore, o anche la rinuncia - in questo caso, il digiuno - per coltivare altre dimensioni della propria natura, nelle quali risiede la sua essenza specifica (ragione, volontà e senso della trascendenza).
La domanda, pertanto, nell'ambito delle società pre-moderne, non è «perché si vive», ma, semmai, «che cosa si può fare per realizzare pienamente il fine che ci è stato assegnato fin dall'inizio». All'uomo non si chiede  di giustificare la propria esistenza, ma solo di giustificare i suoi atti.

Poi è arrivato Petrarca, il malinconico cantore della modernità; e ha cominciato a diffondersi, come una malattia epidemica, lo sport di tormentarsi con il dubbio incessante - ma non senza ricavarne una discreta sorgente di piacere masochistico - circa il senso dell'umano esistere (cfr. il nostro precedente lavoro «Francesco Petrarca e lo spirito della modernità», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
A partire da quel momento, nel generale scricchiolare di tutte le certezze che avevano sorretto l'avventura umana per migliaia e migliaia di anni, si assiste allo spettacolo sconcertante di un nuovo tipo umano, che varca orizzonti, abbatte frontiere; che non accetta più limiti alla ricerca del potere economico e di quel suo sostituto che è il potere politico; che costruisce immensi imperi finanziari, commerciali e coloniali nello spazio, quasi, d'un mattino; ma che, al tempo stesso, è sempre più minacciato, dall'interno, da oscure forze autodistruttive, che lo spingono verso le desolate regioni della disperazione, minano la sua fiducia in se stesso e pongono in forse i fondamenti ultimi del suo esistere.
Il suicidio, che presso gli antichi sembra essere stato un evento rarissimo e riservato agli intellettuali che non ritenevano di poter tutelare altrimenti il bene del vivere (come nel caso degli stoici), e che nel Medioevo cristiano era stato scoraggiato come una forma di opposizione alla volontà divina, rientra ora in forme massicce nella società occidentale, invade tutte le classi sociali e viene persino celebrato in numerose opere letterarie, dal «Werther» di Goethe, all'«Ortis» di Foscolo, su su fino a «Una vita» di Svevo, a «Martin Eden» di Jack London, si sucida perfino uno dei bambini di «Sei personaggi in cerca d'autore» di Pirandello. Non è più il suicidio «eroico» di Saul, come nella omonima tragedia di Alfieri; ma un suicidio individualistico,  che segna il momento della massima distonia fra la singola persona e l'universo di valori in cui essa è inscritta.
Accanto al suicidio fisico, poi, fa la sua comparsa quell'altra forma di suicidio, meno clamorosa e più diffusa, che è il suicidio spirituale, anch'esso bene esemplificato da tutta una serie di personaggi letterari, che vanno dallo sveviano Emilio Brentani di «Senilità» fino a Meursault, lo stralunato protagonista de «Lo straniero» di Camus (cfr. il nostro saggio: «Albert Camus: l'uomo in rivolta», originariamente il testo di una conferenza tenuta presso l'Alliance Française di Treviso; e consultabile anche sul sito di Arianna Editrice).
Quante sono, oggi, le persone che, isolandosi dalle ragioni del proprio esistere all'interno di un universo che ha il proprio significato in un piano divino provvidenziale, hanno optato per questa forma, lenta e relativamente indolore, di suicidio dell'anima, lasciando sopravvivere il proprio corpo per forza d'inerzia, ormai prive di ogni luce di speranza?
Molte, senza dubbio; anche se nessuna statistica le riporta, dato che, all'anagrafe, esse risultano perfettamente vive, tanto è vero che pagano al fisco le tasse dovute.

Dicevamo che l'essere umano non può nemmeno concepire la propria esistenza senza l'azione; perché l'agire è il suo naturale modo di essere al mondo.
La modernità occidentale ha esasperato questo dato ontologico e ne ha fatto una bandiera e un programma, spacciandolo dietro le fallaci filosofie del vitalismo, dell'efficientismo, dell'utilitarismo, trasformando l'azione in una modalità compulsiva e frenetica, sovente fine a se stessa (cfr. il nostro precedente lavoro «Il possibile e il probabile nella filosofia di Rodolfo Quadrelli», sempre sul sito di Arianna).
Questo, però, non deve farci dimenticare che l'azione è connaturata all'essere umano; e che un essere umano puramente e unicamente contemplante non solo è impensabile, ma non contraddice neppure la precedente definizione: dato che anche la contemplazione è una scelta e, quindi, una forma di azione, dovendosi intendere l'azione non in senso grossolanamente materiale, ma in senso ontologico e, quindi, anteriore all'agire concreto sul piano fisico (come si può ben capire con l'esempio di colui che sceglie di agire attraverso il lasciarsi morire di fame).
Dunque, vivere significa agire; dunque, vivere significa porsi continuamente la domanda circa lo scopo, perché ogni azione è finalizzata a uno scopo, volontario o, magari, involontario; né si può immaginare un'azione che non sortisca un risultato e, quindi, che non realizzi uno scopo (altra questione, evidentemente, è vedere, caso per caso, se una determinata azione ha sortito esattamente lo scopo che essa si era prefissata, o non qualcosa di molto diverso).
Ma allora, se vivere è agire e se agire è porsi degli scopi, ne consegue inevitabilmente che vivere significa aprirsi al mondo dei valori, perché gli scopi non sono la meta ultima dell'agire umano, bensì l'obiettivo che esso si pone per conseguire determinati valori. Ad esempio: si gioca in borsa per realizzare la ricchezza; ma la ricchezza, che è lo scopo dell'azione, non è fine a se stessa, bensì risponde a un criterio di valore: mediante la ricchezza, infatti, si pensa di poter conseguire il piacere, il benessere, la felicità e così via. Pertanto, chi gioca in borsa pensa che la ricchezza sia un valore più grande della laboriosità, dell'onestà, della giustizia, mediante i quali si potrebbe, forse, conseguire un certo grado di ricchezza, ma in via accessoria e in misura limitata rispetto alle possibilità offerte dalla speculazione finanziaria.
Ecco, allora, che dalla definizione dei valori, mediante i quali ci poniamo degli scopi e in vista dei quali dispieghiamo il nostro agire, si definisce anche, automaticamente, la mappa ideale della nostra vita, ossia il suo significato complessivo.
Abbiamo visto che l'uomo della modernità (e, a maggior ragione, l'uomo della post-modernità) non si accontenta più di considerare il proprio esistere come parte dell'esistere, necessario e provvidenziale, del mondo intero; ma che, avendo reciso, o allentato di molto, la sua relazione con gli altri enti e con l'Essere medesimo da cui proviene, ha bisogno di razionalizzare le ragioni del suo esistere, non solo a livello pratico, ma anche a livello teorico, come se ciascun singolo essere umano portasse sulle proprie spalle, tutta intera, la responsabilità di essere al mondo.
Ebbene, anche a quest'uomo-molecola (disarmonicamente livellato in una società di massa che lo omologa, ma non gli conferisce il senso delle radici né quello del significato ultimo) è dato di ritrovare il senso del proprio esistere e del proprio vivere nella riscoperta del vasto mosaico di valori in vista dei quali egli incessantemente pone le tessere degli scopi e incessantemente dispiega il proprio agire nel mondo.
Se il problema, per l'uomo contemporaneo, è - fondamentalmente - quello di riappropriarsi dell'orizzonte di senso del proprio esistere, allora sembra che la via maestra per giungere a una tale riappropriazione passi esattamente attraverso un ripensamento dei valori in vista dei quali egli agisce, ponendosi degli scopi. La difficoltà deriva appunto dal fatto che la modernità ha esaltato l'azione per l'azione, come un atto fine a se stesso; e che non ha saputo vedere con chiarezza il legame stretto e necessario che congiunge gli scopi ai valori.
L'argomento è vastissimo e noi, qui, non pretendiamo di aver fatto nulla più che socchiudere l'uscio ad una ulteriore riflessione.
Per ora, diremo soltanto questo: i valori non devono essere intesi solo  come sussistenze proiettate in un irraggiungibile Iperuranio (per quanto, sul piano speculativo, nulla vieti di pensare che possano essere anche tali, nel senso platonico); ma, innanzitutto, come altrettante modalità di esistenza, alla luce delle quali orientiamo le nostre scelte e indirizziamo le nostre azioni.
Nei valori, infatti, si concreta la virtù, ossia - come dicevamo all'inizio - si realizza un qualcosa di forte, di virile, che corrisponde alla essenza (o qualità) in essi contenuta.
A noi la scelta fra i valori effimeri o, addirittura, malvagi, nei quali la natura umana non si realizza, perché non realizza pienamente e degnamente la propria essenza, fatta di ragione e di libero volere;  e i valori permanenti e benefici, mediante i quali essa si esplica, si attua e si realizza, unendosi - al tempo stesso - al progetto armonioso di cui sono parte tutti gli altri enti, e all'Essere dal quale tale progetto si origina e si dispiega.
A noi, di conseguenza, la scelta fra una vita autentica e una vita inautentica; fra una vita realizzata e una vita sprecata; fra una vita armoniosa e una vita disordinata e infelice.