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Nelle sale il film di George Clooney mette a nudo il grande gioco

di Christian Elia - 21/02/2006

Syriana
Alla fine si potrebbe dire: “ma tutto questo lo sapevo già”. Il futuro della più grande potenza mondiale, gli Stati Uniti d’America, è legato al controllo delle risorse petrolifere che, come noto, non sono rinnovabili. Alla scarsità della materia prima si aggiunge la concorrenza spietata di un miliardo e 300 milioni di cinesi, che vogliono lo stesso forsennato sviluppo degli Usa, e il petrolio non basta per tutti. Le compagnie petrolifere sono pronte a tutto per accaparrarsi le riserve più ricche del mondo, quelle mediorientali, e i servizi segreti statunitensi non lesinano il loro aiuto all’economia nazionale utilizzando tutti i mezzi.

Riflessione dovuta. Ma fa un certo effetto se a interpretare l’agente Cia è un idolo del pubblico cinematografico Usa e mondiale come George Clooney e  la storia del film è tratta dal libro di un ex agente della Cia. Il libro si chiama "La disfatta della Cia" e l’autore è Robert Bear, agente dei servizi segreti statunitensi dal 1979 al 1997. Uno che sa quel che dice insomma. Il film racconta in modo parallelo, e a tratti un po’ disarticolato, 4 storie: quella di Bob Barnes (interpretato da Clooney), un agente Cia esperto di Medio Oriente; quella di Bennet Holiday, un avvocato in carriera che difende gli interessi delle compagnie petrolifere americane; Bryan Woodman (interpretato da un Matt Damon un po’ rigido), analista economico specializzato nel mercato energetico e quella di Wasim, giovane operaio pakistano sfruttato nelle raffinerie di un ricco emirato del Golfo Persico.
Le loro vite ruotano attorno al dio petrolio, vero demiurgo dell’era moderna. Il controllo delle risorse energetiche del pianeta sono una priorità assoluta degli Stati Uniti e il film racconta, attraverso due filoni principali, le modalità d’intervento che l’amministrazione di Washington mette in atto per controllare il mercato: da un lato una fusione tra due compagnie petrolifere che, in barba al libero mercato, deve andare in porto a tutti i costi e sulla quale grava un’inchiesta del Dipartimento di Stato Usa, e dall’altro la successione al trono di un ricco emirato petrolifero del Golfo Persico, da sempre solido alleato Usa.

la locandina del film Il fine giustifica i mezzi.
Entrambi i problemi vengono affrontati con mezzi non proprio ortodossi, ma Bear è un esperto in materia e avrà vissuto in prima persona quello che racconta. Nel caso dell’inchiesta giudiziaria, nata dalla fusione di due compagnie petrolifere Usa per sfruttare le licenze di trivellazione in Kazakhstan, il governo vuole assolutamente che l’accordo si realizzi. L’economia Usa ha troppa sete perché il gioco sia trasparente, ma un’apparenza di libero mercato va sempre tutelata e allora si decide di far ricadere la responsabilità di tutta la faccenda su due capri espiatori, e di questo si occupa Bennet. Il problema dell’emirato è più complesso. Il vecchio emiro sta morendo e il suo trono è conteso dai due figli: uno illuminato e progressista, l’altro debole e manipolabile. Il figlio riformista (consigliato da Bryan) punta tutte le possibilità di sviluppo del suo emirato sulla Cina che è pronta a pagare di più degli Stati Uniti, ma questi ultimi non possono correre il rischio di un aggravio di costi e, contando sul lavoro sporco di Barnes, decidono di eliminare l’erede al trono più scomodo. Sullo sfondo del grande gioco del potere politico ed economico e dei continui cortocircuiti tra i due si muove Wasim. Un giovane operaio che rappresenta il vero e proprio esercito di sfruttati che, nel Golfo Persico, sostiene sulle spalle lo sviluppo grottesco delle sfavillanti economie del petrolio. La disperazione lo spingerà nelle braccia dei fondamentalisti, pronti a usarlo contro il simbolo del male: gli Usa e i corrotti emiri che fanno affari con loro.  Il cinema Usa, in generale, non si distingue per la profondità dei personaggi e Syriana non fa differenza. Tutto è trattato con estrema semplificazione. Si farebbe però un torto all’autore e regista Stephen Gaghan se non si riconoscesse la capacità del film, grazie al libro di Bear,di toccare tutti i temi chiave del grande gioco. Le ricche famiglie regnanti del Golfo Persico che vivono dei proventi del petrolio a scapito d’intere nazioni alle quali, per lo sfarzo di pochi, viene sottratta l’unica risorsa nazionale. Il terrorismo internazionale che diventa sempre più l’estremo rifugio degli sfruttati. La collusione tra potere politico e lobby petrolifera negli Usa. I riformisti del mondo arabo accantonati, con ogni mezzo, a favore di sovrani controllabili e ottusi.
La sensazione finale che lasciano i titoli di coda di Syriana, al di là del film stesso e delle scelte narrative e cinematografiche, è che per quanto si possa semplificarla, la situazione attuale è questa. E va dato atto ad attori e autori coraggiosi che, seppur statunitensi, denunciano determinate cose.
Una partita al grande gioco insomma, che finisce solo per ricominciare con giocatori differenti.