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Una parola di speranza per chi vive la malattia e l'angoscia della morte

di Francesco Lamendola - 12/01/2009


 

La prima volta che mi accadde, fu molti anni fa.
Ero giovane, ma tutt'altro che spensierato; avevo appena terminato il servizio militare e, restituito ai problemi veri della vita di ogni giorno, sentivo il bisogno imperioso di un momento di pace e tranquillità. Così me ne andai in montagna, per pochi giorni; ciliegina sulla torta, nel sorpassare un camion ebbi un incidente che poteva costarmi la pelle e, di fatto, mi costò una bella sommetta dei miei sudati risparmi.
Lassù non avevo amici, non conoscevo nessuno; passavo il tempo a leggere e a fare lunghe camminate per i boschi. La notte, mi visitavano in sogno i fantasmi delle cose spiacevoli da cui ero perseguitato.
Una sera, nell'alberghetto in cui alloggiavo, mi avvicinò un'altra pensionante, abbastanza giovane e dall'aspetto fine, per quel che posso ricordare. Dopo alcune frasi generiche, ella portò la conversazione su un tema che non mi sarei aspettato. Non fu esplicita; tuttavia, anche se parlava in modo velato, compresi che alludeva a una malattia grave e, forse, alla prospettiva di una vita non molto lunga che aveva davanti a sé.
Non saprei dire se furono il disagio e l'imbarazzo, o l'assoluta mancanza di argomenti adatti, ciò che mi indusse a riportare deliberatamente il discorso su temi di carattere generale; forse - non ricordo più - con qualche evasiva frase di incoraggiamento e di solidarietà per la condizione di chi deve affrontare una difficile malattia.
Lei annuì e sorrise, ma non insistette; un sorriso malinconico che, se ho dimenticato tutto il resto, compresi i tratti del suo volto, mi è tuttavia rimasto impresso per tutto questo tempo. Era la malinconia di chi non vuole scaricare un peso troppo grande sul prossimo e si ritira in buon ordine, sapendo che la propria angoscia è incomunicabile.
Ci augurammo la buona notte e ci lasciammo; il tutto non era durato che pochi minuti e mi lasciò una strana impressione, quasi di un'esperienza onirica, e una vaga scontentezza - verso di me o verso qualche cosa - che indugiò ancora per un certo tempo. Non rividi più quella giovane donna o, se la rividi, non riprendemmo la conversazione; del resto, mi trattenni in quel paesino solo per pochissimi giorni, quindi me ne tornai in città; e, ben presto, il ricordo dello strano episodio si attenuò e scomparve dalla coscienza.
È passato tantissimo tempo da quell'episodio, e solo una volta o due mi è accaduto di ritornarvi col pensiero.
Ora comprendo quello che, se non fosse stato per la mia giovinezza e inesperienza, avrebbe dovuto apparirmi più che evidente: quella persona era angosciata da un peso terribile, quello di una grave malattia e, forse, dalla prospettiva di una fine non lontana; e aveva avuto l'impressione che in me, uno sconosciuto, avrebbe potuto trovare un orecchio amico per accogliere il suo grido di sgomento e, magari, ricevere qualche parola di conforto.
Io non avevo saputo dargliela, non per cattiveria, ma per ritrosia al pensiero di entrare così, da un momento all'altro, nel mondo più intimo di un altro essere umano, di cui non sapevo nulla di nulla; non avevo capito che già il fatto di avermi «scelto» era stato un dono, da parte sua: un dono di fiducia, di stima, di umana simpatia.
Il pudore dei sentimenti, propri ed altrui, è una caratteristica tipica dell'animo friulano; evidentemente la mia parte friulana aveva avuto il sopravvento nella breve lotta che si era svolta in me, mentre quella infelice sconosciuta, che certo doveva essere divisa tra la vergogna e il bisogno d'aiuto, mi faceva quelle vaghe e pur chiare allusioni.

Ora mi capita di nuovo.
Se c'è una tela misteriosa che tesse la trama della nostra vita e la ricama di fatti altamente significativi, che solo la nostra superficialità liquida come mere coincidenze, ebbene la posso riconoscere anche nel fatto che essa mi ha ricondotto, per la seconda volta, in presenza di una situazione analoga.
È come se volesse offrirmi una seconda possibilità, una seconda occasione per dire quelle parole che allora non ho saputo esprimere.
Che cosa avrei dovuto dire, dunque, a quella giovane donna, in quella sera di tanti anni fa, in quel piccolo albergo di montagna?
Che cosa si può dire a chi vive la condizione di una malattia grave e deve fare i conti con il pensiero di un possibile congedo dalle cose amate?
In verità, i filosofi antichi - Seneca, per esempio - si erano specializzati in un preciso genere letterario, la «consolatio», rivolto appunto a questo tipo di situazioni. Ma il retroterra materiale, culturale e spirituale dell'uomo moderno - per non dire dell'uomo post-moderno - è talmente cambiato in questi duemila anni, che la nostra anima difficilmente si potrebbe appagare di forbiti ragionamenti e di eleganti considerazioni filosofiche.
A dispetto di tutto il positivismo e lo scientismo, che costituiscono il quadro «ufficiale» della cultura odierna, oggi, quando è sola e angosciata all'idea della malattia e della morte, l'anima umana non si contenta del Logos raziocinante: ha bisogno di un altro cibo, più immediato e sostanzioso, più aderente alla vita di ogni giorno.
Ecco, forse avrei dovuto prendere la mano di quella persona tormentata e trasmetterle un sorriso di profonda comprensione umana.
Forse non sarebbe stato importante che cosa le avrei detto, ma come glielo avrei detto; o forse sarebbe bastato che facessi silenzio e la incoraggiassi, tacitamente, a parlare, a sfogare la piena della sua angoscia e della sua solitudine.
Vi sono vari generi di silenzio: vi è quello dell'indifferenza e quello della empatia. Quest'ultimo, probabilmente, è il più adatto a porsi accanto a una persona angosciata e spaventata; a compatirla, nel senso etimologico di «cum patire», soffrire con lei.
Per chi si sente in fondo al nero pozzo della malattia e della solitudine che ne deriva, non esistono parole che siano, di per se stesse, consolatorie: le parole, in quanto tali, non consolano nessuno. Ma esiste un modo di pronunciarle che può gettare un fascio di luce e di speranze in quel buio pozzo simile ad un carcere.
Socrate, per consolare i suoi amici in vista del distacco imminente, parlava loro dell'immortalità dell'anima; e anche i sacerdoti fanno lo stesso, parlando di Dio e della sua infinita amorevolezza, della sua misericordia verso ogni singolo essere umano.
Certo, sono discorsi nobilissimi e importanti; ma, in genere, si dimostrano efficaci finché si parla in astratto, quando si vuole edificare il prossimo stando un po' sulle generali.
L'anima in preda all'angoscia, nel vivo dramma della lotta per sopravvivere, non vuole, però, essere edificata, ma semplicemente vuole essere amata. Vuole sapere che è importante per le altre anime, che altri esseri soffrono con lei e per lei; che la loro compassione la prende per mano e l'accompagna nel tratto più difficoltoso del cammino, sui sassi e sulle spine.
I filosofi, di solito, non amano togliersi le scarpe e camminare scalzi sui sassi e sulle spine, per accompagnare il cammino di una singola anima sofferente; loro parlano all'umanità, non ai singoli, concreti esseri umani (con qualche eccezione, per fortuna; come quella di Kierkegaard, uno dei pochi veri maestri del XIX secolo).
Certo, non li si può biasimare troppo per questo; in fondo, non è il loro mestiere. Il loro mestiere è quello di mostrare le vie che conducono verso la verità; ciò che l'uomo comune fa o non fa delle loro indicazion,i è cosa che non li riguarda.
E tuttavia, non è un argomento terribile contro la filosofia, il dire che essa pretende di spiegare le ragioni ultime delle cose, ma non sa prendere per mano il singolo essere umano, compatirlo nella sua sofferenza, accompagnarlo a piedi scalzi sui sassi e sulle spine, nel tratto più difficile del suo  cammino esistenziale?

Perciò, cara amica, che i sentieri misteriosi della vita hanno condotto fino a bussare alla mia porta, non ho speciali parole da dirti in quest'ora di solitudine e di angoscia, oltre a quelle che ho già detto e scritto tante volte, in decine e centinaia di scritti.
Posso solo farti sentire che tua anima è amata; posso solo togliermi idealmente le scarpe e accompagnarti sui sassi e sulle spine di questo tuo difficile cammino.
Non hai bisogno di parole di conforto, ma di conforto; e il conforto non si può esprimere a parole, in casi come questo, ma solo col silenzio.
È un silenzio che parla.
La tua anima non è sola; qualcuno ti tiene per mano.
Io prego che la pace sia con te.