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Una politica ancora nana

di Gianfranco La Grassa - 12/01/2009

 
La destra sta mostrando tutta la sua carica ultrareazionaria e razzista nella vicenda Israele-Gaza. Non pronunziamo più per favore il termine fascista, giacché viene usato troppo spesso da vecchi mastini dell’antifascismo (falso, un insulto alla Resistenza!), altrettanto filoisraeliani e filoamericani. Gente che ha preso netta posizione antirussa in occasione dell’aggressione georgiana all’Abkhazia e Ossetia, ponendosi in retroguardia rispetto a Berlusconi (che tace sulla crisi mediorientale, mandando avanti Frattini con tesi nefande) e a qualche altro ministro (anche Tremonti tace sul Medioriente e si slancia in elucubrazioni sull’“etica” negli affari).

L’opposizione non sa produrre altro che giustizialismo, che è la fine della politica, sostituita da un moralismo plebeo e decerebrato affidato a magistrati, di cui si deve pensare tutto il peggio possibile. Il Pd è in convulsioni, in lotta tra caste con i loro “capicosca”. La proposta che si sente maggiormente formulare è: imitiamo il centro-destra dove c’è un leader indiscusso e carismatico. A parte il fatto che non è tanto indiscusso, poiché c’è un Fini che “sbava” – addirittura accreditandosi presso le lobbies sioniste e attaccando la Chiesa per scarsa opposizione alla persecuzione antiebraica di 70 anni fa – onde mettersi in pole position nella speranza di un crollo di salute di Berlusconi. Il problema di fondo non è però questo. A destra come a sinistra, ormai, il bipolarismo – che illustri quanto ideologici politologi, che si fingono “esperti”, sostengono essere la vera democrazia “matura” – è inteso quale confronto tra i capi di due schieramenti; i quali, per ciò stesso, non si confrontano e scontrano su opzioni politiche differenti, ma solo su insulti e accuse reciproche, sul dire bianco quando l’altro dice nero e viceversa, sullo sfidarsi in base a chi le racconta più grosse ma in modo più convincente per l’“opinione pubblica”.

Tutto questo non c’entra nulla con la democrazia. Intendiamoci però: quest’ultima non esisteva nemmeno quando si contrapponevano i partiti, poiché tali organismi erano poco più che complessi di bande (legate a gruppi dirigenti manipolatori). La conflittualità era senza dubbio più netta, non basata solo su personalismi, con indicazione di alcuni progetti politici – relativi a dati blocchi sociali – senz’altro differenziati. Solo che i vari progetti rappresentavano gli interessi di gruppi dominanti fra loro in conflitto per la supremazia nella società, per realizzare la quale erano comunque costretti a cercare il consenso di coloro che non decidono nulla in proprio, poiché – come diceva giustamente Lenin – sono solo chiamati, ogni tot anni, a eleggere quelli che decidono al loro posto ed in base ai propri specifici interessi; solo di riflesso e in via subordinata minimamente vantaggiosi per i non decisori (e non sempre, sia chiaro!).

Quando alla falsa democrazia dei partiti si sostituisce addirittura quella dei “capicosca”, è evidente che non siamo alla dittatura – non si va comunque a votare diverse liste? – ma siamo a quel tipo di scelte che equivalgono ai quiz per l’assunzione in azienda a posti nettamente dipendenti e privi di responsabilità. Chi ricorda ancora i vecchi comizi, o anche qualche “Tribuna elettorale” degli anni ’50 e ’60, sa ben valutare la “palta” che deborda dagli schermi in occasione dei dibattiti politici nella TV odierna. Quanto ai giornali, non assolvono più alcuna funzione se non quella di rispondere direttamente alle richieste – ben pagate – dei suddetti “capicosca”. E anche quando qualche paludato uomo di cultura si finge critico, o perfino ipercritico, si può essere sicuri che risponde a precisi interessi che, in quel momento storico, esigono pure la finta critica (“radicalissima”) capace di confondere i cervelli dei malcontenti, dirigendoli verso soluzioni tanto “rivoluzionarie” e inconsistenti da lasciare in campo le più “lucide soluzioni” dei dominanti, che dimostrano così ai sottoposti come sia meglio seguire loro piuttosto che “quegli sconsiderati”. 


La sinistra è stata nell’ottocento una delle due correnti della borghesia. Essa si è mantenuta tale anche nel passaggio dal capitalismo borghese a quello dei funzionari del capitale. In questo passaggio ha perfino accresciuto il suo trasformismo e opportunismo mistificatore, che l’ha caratterizzata fin dall’inizio. Nella presente fase storica – che è ancora per larghi versi monocentrica, in particolare in quell’area di capitalismo avanzato passato appunto alla struttura sociale appena sopra indicata – la “sinistra”, nei paesi “periferici” di tale area, si schiera in genere con i (sub)dominanti più reazionari e succubi nei confronti del centro (oggi gli Usa, con il loro scherano principale: Israele), in ciò però confondendosi con larghi segmenti della cosiddetta “destra”. D’altra parte, l’ala più “radicale” della “sinistra” non ha più orientamento, si dedica – abbandonando i più oppressi – a battaglie di costume, identificando la trasformazione sociale con i meri diritti dei “diversi” (che essa continua a considerare tali per poterli meglio utilizzare quale bacino di voti) o con politiche dette sociali che imitano la carità (in realtà l’elemosina) della Chiesa. Si pensi ad un mediocre come il segretario di Rifondazione, che vuol fare la campagna di distribuzione di pane a basso prezzo: scelta squallida e stupida insieme, poiché non si può competere con le istituzioni religiose che, assieme al “pane quotidiano”, garantiscono anche l’assoluzione dai peccati e la vita eterna in Paradiso.

Sia la sinistra moderata che quella “estrema” trovano il radicamento in alcuni settori popolari, del lavoro dipendente e salariato ai livelli medio-bassi, tramite organismi sclerotizzati, puramente burocratici, quali i sindacati, i cui dirigenti – anche nell’ala più radicale (Fiom ad esempio) – sono ormai politici “consumati”, nel senso letterale del logoramento e consunzione e dell’adesione alla lotta per difendere i propri privilegi; essi, dopo le loro carriere in tali organismi, assurgono ad alte cariche generalmente in enti pubblici, con godimento di varie sinecure.

Basta con la sinistra, che ormai nemmeno è più una seria corrente “borghese” (del resto, il nuovo capitalismo dei funzionari del capitale è più scadente, incolto, degradato, rispetto a quello precedente). Bisogna “tornare” a “qualcosa” che ricordi il vecchio comunismo di molti decenni fa. Ho messo però i termini tra virgolette poiché non si tratta di ripetere soluzioni, che non sarebbero adatte ad una situazione storico-sociale completamente mutata. Il ritorno implica la ripresa di un certo spirito, di una connotazione di lotta, ma anche di valutazione attenta dei rapporti di forza venutisi a creare dopo la sconfitta del tentativo di imprimere un’autentica svolta rivoluzionaria alla storia del capitalismo. Pur declinando quest’ultimo al plurale, come sarebbe più giusto fare, si tratta pur sempre di una formazione sociale ancora basata sulle forme generali dell’impresa e del mercato, con varie forme di regolazione centrale o di quasi assenza della stessa. Per di più, le differenze tra i suoi gruppi dominanti comportano, in date epoche storiche, una prevalenza dei conflitti internazionali tra gli stessi rispetto a quelli interni ad ogni formazione particolare.

Diciamo, in prima approssimazione, che i conflitti interni sembrano prendere il sopravvento nelle fasi monocentriche con una formazione particolare piuttosto nettamente prevalente (mai del tutto però) sull’insieme globale; in una fase del genere, il conflitto internazionale diventa in sostanza un reciproco aggiustamento di interessi tra gruppi (pre)dominanti nella formazione preminente centrale e quelli (sub)dominanti delle formazioni decentrate (ma sempre appartenenti all’area del capitalismo più sviluppato); aggiustamento in cui prevalgono comunque gli interessi dei (pre)dominanti. Quando, come nel periodo attuale, si entra in un’epoca multipolare in quanto transizione (accidentata, tramite vie tortuose) al policentrismo, il conflitto internazionale, che vede in primo piano lo scontro tra varie formazioni particolari (divenute potenze), riacquista tutta la sua valenza. La tattica delle forze situate in posizione critica rispetto all’attuale forma sociale – e che tuttavia agiscano all’interno delle formazioni dell’area a capitalismo avanzato – deve tener conto di una simile configurazione geopolitica mondiale, dell’avvicinamento all’effettiva e più sconvolgente crisi che nasce dall’autentico conflitto policentrico.

Nel novecento, tale crisi (anzi serie di crisi) fu, in ultima analisi, di tipo militare. Oggi, sarebbe inutile, essendo all’inizio della transizione in questione, fare previsioni troppo specifiche. Si può soltanto dire che l’aspetto decisivo – quello in cui si decide il farsi, il disfarsi e il rifarsi periodico delle varie “alleanze” ai fini del conflitto per la supremazia tra diverse formazioni divenute potenze – sarà quello politico (di cui quello bellico sarebbe in ogni caso, com’è ben noto, la continuazione), con l’economia quale importante bacino di apprestamento degli strumenti necessari al conflitto stesso, e con il supporto non certo “epifenomenico” della lotta ideologico-culturale. Poiché chi combatte, nonostante le tattiche adottate, non può non svolgere la sua attività all’interno di una specifica formazione – che è ancora di carattere nazionale, è un paese con un suo Stato – è necessario analizzare la sua struttura sociale, i suoi gruppi dominanti e il loro conflitto intestino, quelli dominati e il loro atteggiarsi nei confronti del conflitto interdominanti, ma anche le possibilità di un loro autonomizzarsi in una lotta per interessi specifici conculcati dai dominanti. Il tutto, essendo consapevoli di trovarsi nella fase di multipolarismo e di transizione, ancora lunga, al policentrismo.


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In un contesto simile, andrebbe senz’altro ripreso il contatto con i lavoratori dipendenti (salariati) dei livelli medio-bassi. Tuttavia, inutile nascondersi che al momento il campo non è ancora sufficientemente bonificato dalla presenza delle forze politico-ideologiche che sono la longa manus di vari gruppi dominanti; nonché dalla permanenza di minuscoli movimenti ancorati al “comunismo tardo-novecentesco” (parodia del vecchio comunismo rivoluzionario), non a caso in frenetica scissione e frammentazione, mentre emergono altre frattaglie che si rifanno al socialismo o al comunitarismo utopici. Queste ultime non hanno a mio avviso una vera base sociale – come l’ebbero alcune simili correnti primo-ottocentesche, a causa della temporanea sopravvivenza della “produzione mercantile semplice” (artigiani, ecc.) – ma sono alimentate da processi di sbriciolamento “al margine” di alcuni comparti sociali, anche a medio-alto tenore di vita, e dall’avanzamento tecnologico “per ondate successive”, che crea squilibri e tensioni nei ceti portatori di nuovi saperi e in quelli legati a meno moderne modalità lavorative, entrambi insoddisfatti, per motivi opposti, del loro status.

Importante sarebbe appunto la bonifica di questo campo di permanenti ambiguità e di dispersione e disorganizzazione di quelle che dovrebbero essere la “macromolecole” di aggregazione e addensamento di nuove forze. Se la bonifica venisse infine fatta, sarebbe allora possibile espungere dal discorso le decrepite ciance sulla “Classe universale”, sulla “missione storica” del lavoro salariato, come quelle sulle sempre imminenti catastrofi, sulla necessità di una vita frugale, sulla possibilità di una produzione “più sana” con “ritorno ai campi” o “all’orto di casa”, sullo smantellamento delle grandi multinazionali, sul no profit (che si basa su chi produce “tanto profit”), e su altre idiozie che nemmeno posso ricordare al completo, data l’assoluta futilità delle stesse, propalate da alcuni gruppi di intellettuali dediti alla masturbazione e, forse, al cilicio.

Sembra importante partire dal lavoro salariato – di medio e soprattutto basso livello – più che altro perché, nella situazione di avvicinamento (e transizione) al policentrismo, sarà il primo a subire le conseguenze delle crisi e stagnazioni produttive che risulteranno dall’acuirsi del conflitto interdominanti (in specie internazionale). E non perché l’attività verrà permanentemente bloccata: in particolare dalla caduta dei consumi (e della domanda in genere, ivi compresa quella di investimento), vera ossessione degli economisti di ogni estrazione (liberale, keynesiana, “marxista”, ecc.). Il conflitto implica sviluppo ineguale sia all’interno delle varie formazioni sociali sia nel loro reciproco rapporto; lo sviluppo ineguale, che nelle medie statistiche appare come una sinusoide tendente all’appiattimento su un trend orizzontale, è in realtà un vorticoso innalzarsi e abbassarsi dei livelli d’attività di settori diversi, di formazioni particolari diverse, ecc. In tutto questo “bailamme” – sia che si manifesti come inflazione, in specie di generi di prima necessità, sia come deflazione con aumento della disoccupazione e della precarietà – i primi a risentirne sono appunto i lavoratori del salariato basso e medio. E non solo per la diminuzione dei loro redditi reali, ma anche per lo sbaraccamento di intere professionalità, di molti ormai superati “specialismi”. La crisi che vivremo nei prossimi anni sarà meno importante nel suo aspetto economico di quanto non lo sarà dal lato sociale e, se esistessero agenti politici sensati e intellettuali meno venduti, da quello della lotta politico-ideologica.

Se questi lavoratori salariati (bassi e medi) non si lasceranno più irretire dalle fanfaluche dei “sinistri” imbroglioni – e mi sembra comincino ad abbandonarli – la situazione (politica) andrà migliorando; l’importante, certo, è non cadere dalla padella nella brace (ad esempio la Lega). Questo accadrà però sempre più quanto più tardi saranno sbaraccati i “miserabili” di cui sopra. I lavoratori in questione debbono, come prima mossa, ricostituire le loro organizzazioni, prendendo a calci sia i sindacati sia le “sinistre” al completo sia chiunque altro li voglia egemonizzare sotto bandiere per loro del tutto fallimentari, e che li condurranno a veri abbassamenti del tenore di vita.

Nel momento in cui però, e questa volta senza remore, venisse del tutto abbandonata anche solo l’ombra della passata ideologia della “classe operaia” o delle “masse lavoratrici”, ecc., è evidente che tali strati lavorativi costituirebbero solo il primo nucleo, importante certo, di un nuovo blocco sociale in grado di attaccare quella che ho sempre indicato come GFeID, cioè il capitale finanziario dei (sub)dominanti (schiacciati sugli Usa) e quello impegnato nei settori di passate stagioni dell’industrializzazione. Innanzitutto, si deve tener conto del cosiddetto lavoro autonomo, falsamente indicato talvolta come “ceto medio”, mentre la sua quota maggioritaria si addensa su livelli bassi e medi di reddito. Naturalmente, ci sono motivi oggettivi di frizione e di lamentele reciproche tra salariati e autonomi; non è compito di uno scritto di impostazione generale, redatto da un singolo individuo non facente parte di alcun nuovo organismo politico (al momento inesistente), mettersi ad elucubrare sulle singole misure concrete in grado di superare la diffidenza sussistente tra i due raggruppamenti di lavoratori a medio-basso reddito. Viene qui data solo un’indicazione di carattere generale, di distacco dalle politiche sindacali dei burocrati cialtroni che sulla “guerra tra poveri” inzuppano il pane – tanto quanto i (sub)dominanti della GFeID – per mantenere i loro privilegi.

Tuttavia, se siamo solo all’inizio del multipolarismo, cioè della lunga transizione al policentrismo, se si sono ormai dimostrate chiaramente fallaci tutte le previsioni del vecchio movimento comunista – l’unico comunque degno di riflessione autocritica, perché il nuovo comuni(tari)smo di stampo umanistico e religioso rappresenta l’abdicazione ad ogni retto ragionare, per diffondere spesse cortine fumogene di cui i dominanti sono estremamente soddisfatti – allora è necessario applicare una tattica che, pur mantenendo l’autonomia critica dei ceti sociali esclusi dalle decisioni rilevanti, sappia inoculare elementi di contrasto tra i (sub)dominanti, inasprendo l’oggettivo e ancor latente contrasto tra i nuovi e i vecchi loro gruppi di tipo industriale; poiché solo i primi, se ne vedranno infine i chiari vantaggi (soprattutto in una congiuntura di crisi come l’attuale), sono in grado di spingere nella direzione del multipolarismo e quindi, quale sbocco finale, del policentrismo. Le grandi imprese vetero-industriali, assieme alla finanza cresciuta parassitariamente negli ultimi decenni, si abbarbicheranno alla formazione capitalistica (pre)dominante e ai suoi sicari in giro per il mondo (Israele al primo posto, ma non solo questo paese).

Nelle nostre formazioni capitalistiche avanzate di tipo “occidentale” (ivi compreso il Giappone), vi è circa un quarto della popolazione che non teme crisi di alcun genere. Teme però che gli altri tre quarti manifestino con decisione l’intenzione di non retrocedere di fronte ai livelli di vita raggiunti faticosamente, e con lotte in cui hanno pagato non poco, negli ultimi decenni. Ecco allora spuntare – per impedire che si formino giovani avanguardie dotate dello spirito che fu dei vecchi comunisti alla Lenin (senza più seguire la loro “lettera”) – gruppastri di dementi, guidati da intellettuali imbonitori desiderosi di conquistare la fama alla guisa di Erostrato (più i denari di Giuda), che predicano la crisi come fine del capitalismo, come occasione per tornare a livelli di vita più modesti e sani (soprattutto “moralmente”), evitando il “consumismo sfrenato” che ha “corrotto i costumi”: quel consumismo praticato soprattutto da quel quarto (e meno) di popolazione appena nominato, che continuerà a consumare come e più di prima. Per cui quegli “ambigui” (eufemismo) intellettuali della decrescita, delle catastrofi ambientali, delle “comunità” dalla vita frugale e di ritrovato rigore etico, ecc. sono i peggiori nemici dei tre quarti della popolazione appena uscita dall’indigenza (cosa sono 50 anni di storia rispetto ai precedenti secoli di miseria?).

Non si sottovalutino questi Dulcamara da diporto, vendutisi di fatto ai (sub)dominanti del tipo GFeID. Sembrano pochi, ma funzionano sotto l’ala protettrice – ed autentica loro avanguardia, per quanto ciò non appaia in chiara luce (et pour cause) – di gente come Al Gore, Soros, Bill Gates, grandi banche varie e altre istituzioni finanziarie, ecc. Decomporre questo fronte reazionario è indispensabile. Ma non lo si decompone se non si batte la solita dicotomia antitetico-polare presente tra coloro che si fingono degli ultra-anticapitalisti. Da una parte, i fanatici ripetitori di una prassi e teoria divenute dottrina infarcita di dogmi, di fronte ai quali quello della verginità di Maria è un lucido esempio di logica consequenzialità. Dall’altra, gli “scalzi” e i “miseri”, che predicano l’anticonsumismo, semplice anticamera di una nuova povertà, abbellita dai discorsi immondi di intellettuali marci e truffaldini, vero esito della decomposizione di questi gruppastri di “chierici” nella nuova epoca di “crisi generale” (a parte quella economica; perché, in ogni caso, l’avvio del multipolarismo segna un’epoca del genere; solo gli economicisti possono identificare la crisi con il suo solo aspetto produttivo-finanziario).

E’ necessario combattere su due fronti, come sempre del resto in tutta la storia delle teorie e prassi tese alla critica dell’esistente. E bisogna avere presente non solo l’obiettivo strategico ultimo (in questa fase ancora confuso, non ben delineato), quanto soprattutto quelli possibili – tattici ma anche strategici, sia pure di portata più limitata – nell’epoca in cui siamo da poco entrati. I reazionari sono tanti, e ben articolati su più fronti; e i più reazionari sono proprio quelli che sembrano essere il contrario, degli ultra-rivoluzionari. I nostri alleati tattici non sono affatto questi ultimi, nemici al 100%, e fra i peggiori perché veramente canaglieschi e torbidi avvoltoi. Teniamolo sempre ben presente, poiché in questo ci soccorre la stessa esperienza storica, manipolata da questi reazionari per nascondere il fatto che personaggi della loro stessa risma sono stati giustamente sterminati nel corso di autentiche rivoluzioni. Anzi sono sempre i primi a dover essere combattuti e schiacciati; i reazionari sinceri, a viso scoperto, sono (non sempre!) meno pericolosi e decisamente più rispettabili. Teniamolo sempre presente nei tempi che si approssimano.