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Ai feriti

di Decimo Cirenaica - 12/01/2009

 
 
 

Se il progresso tecnico bastasse
a migliorare la comprensione fra gli uomini e le società,
lo avremmo visto già da un secolo:
i progressi delle tecniche di comunicazione sono stati giganteschi,
senza che per questo sia stata creata
una migliore comprensione fra gli uomini.
Dominique Wolton


Nel faticoso annullarsi – questo farsi chiudere dal mediato – v’è di che interrogarsi quando l’informazione illusa degli eventi soffia e arrossa piombo fuso nella rappresentazione di una striscia di carne ferita, seduta: in questo troppo dirsi la traduzione del fatto è di per sé un tradimento, e non secondo la larga significazione del vocabolo quanto per il differimento temporale: tradurre è (nel frattempo) tradire, condurre e consegnare l’atto è (nel tempo) sostituire l’oggetto col soggetto: un’azione dove l’atto diviene fatto.
E non ti consola la morte della parola quando è scritta, questa rigida assunzione di rappresentazione venduta per realtà, questo autoritario dirsi – o farsi dire – vergato: il medium è il messaggio direbbe McLuhan, ma il medium è anche un libro, un articolo, la parola stessa – morta o viva che sia. E non ti consola la solitudine, nessuno che soccorra la tua scelta, nessuno partecipe dell’agonia, nessuno che sciugi il bagnato: è una scelta la tua risposta, è una gran bella compagnia direbbe Carmelo Bene nel “Macbeth o il tramonto della solitudine” – ultimo sussulto dell’apparizione mariana: «Quanta gente s’illude che, troncati i rapporti mondani, è bella e apparecchiata fuor della ressa umana, a ciascun eletto la tavola invitante dei digiuni. L’eremita, per esempio, fuori dal mondo chiacchierato, è solo? E la fede, il rancore, o l’amor frainteso di Dio, l’ambizioncella della scalata al cielo, la guadagnata misoginia ecc., sì, questi equivoci del suo malessere-soggetto, dove sono finiti? Sono là, dentro il bagaglio suo mentale che s’è portato dietro. Sono dentro di lui. Lo sono.» E non consola nemmen quel cantar li versi d’Alligheri sulla torre pei feriti tutti: «V’era (v’è) – dice CB – dunque, un apparir della voce che sempre si verifica se conferisci c o n, se parli a.» Ma questa voce – diresti tu – apparir non vuole.
È quindi nella giostra del già detto che sistemi la tua grazia solitudine, nel debordare festoso di parole che s’annullano, nella remota comprensione dell’altro da te, nelle sparse dimenticate ceneri di Gramsci, nel senso annullato dai media e nell’umano de profundis, nei ricami salottieri dei geldroni post litteram e nei richiami all’ordine del mare sulla terra, nella rappresentazione di Stato o di uno stato qualunque, nell’impossibile ricorso alla politica, nella prostituzione dell’arte e nei passaggi al bosco di qualunque finestra, nella necessaria lucidità di un tempo drogato, nel suicidio che diventa ultima soluzione, nella rivoluzione permanente della fuga dalla macchina, nella distanza comandata dagli orologi televisivi, nell’autentico foscoliano ricreato originalmente, nell’artefice, opìfice, o divenire dell’esserci: è nel già detto quindi che sistemi Gaza ferita: «[È] soprattutto la vicenda degli insediamenti coloniali nei territori occupati – scrive Danilo Zolo su Éléments 129 – a fornire la prova del buon fondamento dell’interpretazione 'colonialista' del sionismo proposta da Edward Said. Come spiegare altrimenti il fatto che, dopo aver conquistato il 78% del territorio della Palestina storica, dopo aver annesso Gerusalemme est ed avervi insediato non meno di 180 mila cittadini ebrei, lo Stato di Israele si è impegnato in una progressiva colonizzazione anche di quell’esiguo 22% rimasto ai palestinesi, e già sotto occupazione militare? Come è noto, a partire dal 1968, per iniziativa dei governi sia laburisti che di destra, Israele ha confiscato circa il 52% del territorio della Cisgiordania e vi ha insediato oltre 200 colonie, mentre nella popolatissima e poverissima striscia di Gaza ha confiscato il 32% del territorio, istallandovi circa 30 colonie. Dopo lo sgombero unilaterale della striscia di Gaza, voluto nel 2005 da Sharon, oggi non meno di 400 mila coloni risiedono nei territori occupati della West Bank. Vivono in residenze blindate, collegate fra loro e con il territorio dello Stato israeliano attraverso una rete di strade (le famigerate by-pass routes), interdette ai palestinesi, che segmentano e lacerano i territori occupati. Per tacere delle centinaia di checkpoints, della depredazione delle risorse idriche, della carcerazione o uccisione 'mirata' di leader politici, del milione e mezzo di persone che a Gaza vivono in condizioni disperate, come ha provato, con una analisi agghiacciante, Sara Roy. E a tutto questo, per volontà di Sharon, si è aggiunta la 'barriera di sicurezza' che ha rinchiuso le comunità palestinesi della Cisgiordania in prigioni a cielo aperto. A questo punto, come tentare di risolvere la 'questione della Palestina'? Come riportare la pace fra Israele e il popolo palestinese e, più in generale, fra arabi ed ebrei? Ciò che si può sostenere con sicurezza, assieme a Martin Buber, Edward Said e Ilan Pappe e all'intera scuola dei 'nuovi storici' israeliani, è che il peccato originale dello Stato di Israele è il suo carattere sionista. Il sionismo, grazie al sostegno militare ed economico - tre miliardi di dollari all'anno - degli Stati Uniti e all'omertà dell’Europa, ha fatto dello Stato di Israele una sorta di 'cuneo atlantico' nel cuore del Mediterraneo, ha lacerato la continuità umana, politica e culturale della sua sponda orientale, ha cancellato l’identità di un popolo mediterraneo, trasformandolo in una massa di rifugiati, di epurati e di oppressi. Per questo la 'questione della Palestina' è una questione mediterranea e la soluzione non può essere cercata se non nella direzione del 'post-sionismo'. E questo non può che significare, anzitutto, come auspicava Martin Buber, l’abbandono del carattere etnocratico dello Stato israeliano, la sua piena secolarizzazione e democratizzazione. E comporta, ancora con Buber, l’abbandono dell’idea dei 'due Stati per due popoli', quello ebraico e quello islamico, l’uno giustapposto all’altro. L’idea che oggi sia ancora possibile la formazione di uno Stato palestinese e patetica illusione o crudele impostura, nonostante il suo grande valore simbolico, le giuste aspettative della maggioranza dei palestinesi e il suo pieno fondamento nel diritto internazionale. Gli effetti della discriminazione etnica sono ormai irreversibili: mai uno Stato palestinese degno del nome sorgerà sulle rovine di Gaza e della Cisgiordania. La sola prospettiva, altamente problematica ma senza alternative, è quella di uno Stato israelo-palestinese 'post-sionista', laico ed egualitario, che riconosca eguali diritti a tutti i suoi cittadini.»
È questo ritrovarti che cercavi?