Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / In direzione ostinata e contraria

In direzione ostinata e contraria

di Francesco Mancinelli - 12/01/2009


 


Dieci anni fa si concludeva l’avventura terrena di Fabrizio De André, l’ultimo dei ” trovatori catari”.

 


Chissà se Fabrizio conosceva la tragica epopea di “Occitania” e dei suoi Signori, la fine eroica dei suoi eretici poeti maledetti, arsi vivi nella piana di Montsegur, finiti per una maledetta casualità geopolitica sotto le grinfie rapaci dei Crociati e dell’Inquisizione; i Catari, anche loro molto scettici, di quel Dio dal Dogma Assoluto, del Sinai, della Bibbia, del Vaticano, scettici del “Funesto Supremo Demiurgo” descritto da Cioran, di quel Dio troppo lontano e troppo morale per tutti gli uomini, uomini che alla fine sono molto più elementari, capricciosi, litigiosi e fragili, Uomini forse molto più simili agli Dei. Eppure i Catari furono i pionieri di una ricerca quasi incomprensibile, magica, arcana, fatta di misteri mai scoperti e sopiti; i pionieri di una purezza incontaminata, eterea, assoluta, quasi mistica. Quello che alla fine percepisce “chi sa vedere” e “sentire” oltre le note e le parole di Fabrizio De Andrè.


 

E già, tutto questo pulsa dentro quella magnifica scuola cantautoriale di Genova che insieme a Lui annovera Lauzi, Tenco, Conte, Paoli, Fossati, una scuola di cantautori che nasconde, antropologicamente parlando, gli ultimi semi occulti di “qualcos’altro”, qualche cosa di più profondo, di mistico, di gnostico, di magicamente eretico. Qualcosa che per l’appunto ci riporta direttamente ad “Occitania” .



 

Difficile scrivere di Fabrizio De André: per quanto mi riguarda può essere tranquillamente posizionato tra i grandi della letteratura italiana; sembra arrivare dritto dritto da quel medioevo vibrante di dialetti volgari e poi fondanti la lingua italiana più pura. Uno stile di composizione perfetto, unico, mirabile, celestiale.


Se poi dalla letteratura vogliamo passare alla Sua filosofia dell’essere ed alla negazione dell’esistere… bhe, abbiamo, in Fabrizio, uno dei massimi interpreti del pensiero della crisi, della crisi della modernità, e del non-senso dell’esistere stesso. Un pezzo di esistenzialismo talmente sottile ed umano troppo umano da sconfinare quasi… nel Divino. Come disse Massimo Cacciari in una famosa intervista televisiva: chi sa, non spera…

Ma poi, alla fine di questo suo personale abisso, nel guardare la rappresentazione del Mondo, scopriamo in De André l’espressione più alta e più pura, l’arte perfetta dell’interpretazione, dell’incanto, del presagio, della comprensione, dell’ emozione e, infine… del perdono totalizzante.


 

Non è solo l’umanità misericordiosa che sgorga dalla figura di Bocca di Rosa, incastonata nella mitica Via del Campo (che ci aiuta così a superare per un solo attimo l’infelicità), ma anche la serenità distaccata del “Pescatore” che parteggia per i ladri e gli assassini della “Città Vecchia”, rispetto ad un ordine questurino che scruta, e mette le manette ” …a chi ne sa più di loro”.



 

Forse perché ladri ed assassini hanno un loro “ordine valoriale” più alto, più acuto ? O Forse perché anche Noi, “membri ufficiali del Cattiverio”, ci sentiamo come De André , da troppo tempo sulla “Cattiva Strada” ?


Bha, chi può dirlo?


 

De André ci ha restituito una immagine del Cristo completamente umanizzata, de-deificata, ricompresa e sposata alla storia del mondo, nella sua estrema tragicità tristemente lineare, liberata dai danni fatti da Paolo di Tarso.




Ci ha raccontato, poi, con parole mirabili il classico della poesia americana, una delle poche cose belle degli States (tradotto in Italia da Fernanda Pivano): l’Antologia di Spoon River; con una grazia descrittiva e musicale quasi greca , ( il blasfemo, il chimico, il malato di cuore, il giudice, l’ottico, il Suonatore Jones). Ora “tutti dormono sulla collina”. Semplicemente sublime…


 

Ci ha descritto come si sentono gli inutili impiegati che guardano impauriti oltre la propria scrivania, quando vedono esplodere una giovane Rivoluzione; ma la vedono purtroppo fatta dagli altri e che pagheranno, alla fine, in prima persona anche per loro tristi scrivanie. Eppure, l’odio di un impiegato è molto molto più profondo, e viene da tanto tanto più lontano: “Ormai sono in ritardo per gli amici, per l’odio potrei farcela da solo”.

 


De André ci ha perfino fatto amare gli zingari, i gitani ribelli… e ancora non conoscevano né i film Kusturica né le musiche di Bregovic; al massimo ci affascinava Fellini ed il suo italico surrealismo.


 

Ci ha descritto l’ansia pre-romantica dei suicidi, dei drogati e delle puttane comprate a quattro lire, con una suggestione degna dei menestrelli medievali o dei massimi poeti dell’Ottocento (”Tutti morimmo a stento” ); ci ha indicato “le anime salve” che attraversano miseramente la storia, sapendo che un paradiso probabilmente esiste, ma solo per coloro che non credono all’inferno, al peccato originale e soprattutto per quelli che non accettano la dittatura del sorriso idiota, perché non c’è proprio niente di cui ridere…



 

Ci ha ridonato la ballata popolare, il dialetto, lo scherzo, l’allegoria, la vendetta di un Gorilla ingrifato sull’ordine borghese, la demitizzazione di Carlo Martello, l’umanità di Geordie e di Giovanna d’Arco, prendendo anche spunto dai Cohen, da Dylan, da Brassens, da Brel, dalle ballate provenzali rielaborate del ‘400 (La Morte e Fila la Lana).


Ci ha parlato dei Pellerossa sterminati dal sogno democratico e progressista dell’occidente , della dignità dei pastori sardi che lo avevano rapito e tenuto in ostaggio, della quasi-onestà del camorrista Cutolo, della quasi-innocenza del carbonaro Renato Curcio e del suo inutile comunismo sconfitto, infine della “storia sbagliata” ed inquietante del reietto Pier Paolo Pasolini. Ha sfottuto pesantemente perfino i nostri amati miti come Pound o come Eliot (ma sempre con profondo rispetto per l’avversario, perche De André sapeva riconoscere sempre i vinti).

 


A De André non piacevano né gli eroi, né i martiri  ma tantomeno gli piacevano i furbi ed i vigliacchi di sempre; forse Fabrizio semplicemente era incapace di odiare, era libero e fuori dal ogni darwinismo sociale, cosa connaturata nel nostro essere ” Cattiverio “. E qualcuno da una sua canzone gli rispose “che forse a morire di maggio, non ci vuol poi così tanto coraggio” (Nereo Zeper - Nel segno del cerchio antico).


 

Non nego, così, che un pezzo della mia anarchica e nichilistica formazione, del mio rifiuto per “gerarchetti” e falsi modernissimi partitucoli del cazzo, del mio sano odio anti-biblico, del mio sospetto per quei militanti duri e puri che finiscono poi alla corte dei vincitori, la devo proprio a Fabrizio  De André ed alla sue lontane “Nuvole”; sicuramente gli devo la sensibilità e la percezione del bello, l’arte matura della composizione, della sonorità udibile, della poesia articolata , della musica sublime.



 

Forse è anche ascoltando Lui che mi sono innamorato dei Vinti e, quindi, alla fine degli Eroi che Lui invece detestava profondamente; ed è per questo che quasi per un paradosso catartico, ho incontrato contemporaneamente nella mia formazione, Nietzsche ed Evola, altri angoli estremi di mio indefinibile perimetro, ciò che da André è poi sideralmente più distante.



 

Quando se ne è andato, dieci anni fa, mi ha lasciato un vuoto difficilmente colmabile. E’ un vuoto che nasce non tanto dal ricordo di questa gratuita donazione di “pienezza” , ma paradossalmente da quello che mi/ci avrebbe potuto ancora donare. E ad ogni intervista, ed ad ogni inedito che viene pubblicato, riscopro un epitaffio “cataro”, sottile , assoluto, un soffio gnostico fatto di Essenzialità, di Amore sconfinato per il radicamento, per la purezza assoluta ed incontaminata di quei pochi attimi rubati e scolpiti in onore della massima poesia; attimi rubati, quindi, all’Eterno Divino, per donarli ad un’altra e più Umana Eternità, che non conoscerà mai nessun l’oblio, che non perderà mai la Sua memoria.