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La libertà della storia e le verità di Stato

di Francesco Mario Agnoli* - 12/01/2009

Fonte: 21e33.blogspot


 

L'Appello di Blois

Facendo seguito ad un appello del 2006, sottoscritto da un migliaio di storici di tutta Europa e a un libro (dello stesso anno) di René Rémond, Quand l'Etat se méle de l'histoire, a fine ottobre 2008 l'associazione Liberté pour l'Histoire e lo storico Pierre Nora de l'Academie française hanno lanciato un nuovo appello, detto “di Blois” per porre freno alla tendenza di un crescente numero di Paesi europei a creare delle “verità di Stato”, punendo con rilevanti sanzioni penali chi non vi si adegua e le mette in dubbio. Vi si legge fra l'altro “L'Histoire ne doit pas être l'esclave de l'actualité ni s'écrire sous la dictée de mémoires concurrentes. Dans un Etat libre, il n'appartient à aucune autorité politique de définir la vérité historique et de restreindre la liberté de l'historien sous la menace de sanctions pénales (...). Aux responsables politiques, nous demandons de prendre conscience que, s'il leur appartient d'entretenir la mémoire collective, ils ne doivent pas instituer, par la loi et pour le passé, des vérités d'Etat dont l'application judiciaire peut entraîner des conséquences graves pour le métier d'historien et la liberté intellectuelle en général. En démocratie, la liberté pour l'Histoire est la liberté de tous”.

Iniziativa partita dalla Francia, sia per lo spirito di libertà che da sempre contraddistingue gli intellettuali francesi (non altrettanto la sua classe politica), sia perché la situazione è particolarmente grave in quel paese, che, dopo avere previsto, con la legge Gayssot (13 luglio 1990), severe punizioni carcerarie per chiunque metta in dubbio il genocidio ebraico, ha fatto altrettanto con quello armeno (viceversa in Turchia è reato parlare di genocidio) e per la definizione della schiavitù quale “crimine contro l'umanità”. Adesso tuttavia la minaccia incombe su tutti i paesi europei, inclusi quelli, come l'Inghilterra e (in parte) l'Italia, che fino ad oggi hanno continuato a credere che uno dei primi diritti umani nonché inalienabile fondamento della democrazia sia la libertà di pensiero e di espressione. Difatti a nemmeno un mese di distanza dall'Appello di Blois il Consiglio d'Europa, con la sensibilità che lo distingue per le esigenze e le richieste provenienti dalla società civile, si è affrettato a trarre dal cassetto, dove giaceva da tempo grazie ai dubbi di qualche governo, una decisione-quadro, la 2008/913/GAI del 28 novembre 2008, che, sotto pretesto della lotta al razzismo e alla xenofobia, sembra mirare ad estendere la situazione francese a tutti gli Stati membri dell'Ue.

Istigazione all'odio e genocidio

Naturalmente esiste la possibilità che il sospetto sia frutto di eccessiva sensibilità per la tutela del diritto alla libertà di opinione, che negli ultimi anni appare sempre meno gradito a governi che pure si definiscono democratici, e che invece a muovere il Consiglio sia unicamente l'intento di contrastare la violenza razzista e l'odio xenofobo, il che però non esclude che, al di là delle buone intenzioni (notoriamente numerose sulla strada dell'inferno), lo strumento scelto risulti non adeguato allo scopo perseguito e viceversa rischioso per beni irrinunciabili. Pericolo tanto più consistente se si considera che alcuni dei paesi destinatari (Francia in testa, ma non solo) hanno già leggi che stabiliscono verità di Stato e puniscono chi vi attenti. Ora, se esiste qualcosa di certo e indiscutibile è l'incompatibilità di qualunque verità di Stato, soprattutto se affidata alla protezione giudiziaria, con la libertà di opinione. Dal momento che sono in gioco valori fondamentali e che le decisioni-quadro, pur vincolanti quanto al risultato da ottenere, non hanno efficacia diretta e fanno salva la competenza degli Stati membri quanto alla forma e ai mezzi (art. 34 lettera b) del Trattato sull'Unione europea), è indispensabile accertare se la decisione-quadro 2008/913 comporti rischi per questa fondamentale libertà democratica in modo che il suo recepimento nelle leggi dei singoli Stati avvenga in termini idonei non a concretizzarli, ma ad esorcizzarli.

Non resta, quindi, che passare all'esame dei punti più qualificanti, iniziando dall'art. 1 e dalla constatazione che le fattispecie di cui alle lettere a) e b) non meritano censure. Uno Stato che aspiri a qualificarsi “civile” non può, difatti, consentire “a) l’istigazione pubblica alla violenza o all’odio nei confronti di un gruppo di persone, o di un suo membro, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica; b) la perpetrazione di uno degli atti di cui alla lettera a) mediante la diffusione e la distribuzione pubblica di scritti, immagini o altro materiale”.

I problemi cominciano con la lettera c), che indica come meritevoli di sanzione penale “l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, quali definiti agli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale, dirette pubblicamente contro un gruppo di persone, o un membro di tale gruppo, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica, quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all’odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro”. Se, difatti, può ritenersi che nell'apologia di crimini sia in qualche misura implicito l'invito a ripeterli, nessuna conseguenza del genere può essere logicamente fatta discendere dalla loro “negazione o minimizzazione” (grossolana o no che sia). Negare, ad esempio, la gassificazione degli ebrei nei lager di Auschwitz e Treblinka non significa in alcun modo istigare alla violenza e all'odio nei loro confronti. E' perfettamente possibile rispettare ebrei ed armeni e tuttavia essere convinti che nazisti e giovani turchi non ne abbiano programmato il genocidio o che siano esagerate le cifre, ufficiali od ufficiose, delle vittime. Il che del resto è riconosciuto dalla stessa decisione-quadro, che, difatti, esige qualcosa di più, condizionando la punibilità della negazione e della minimizzazione grossolana e della stessa apologia al fatto che tali “comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all’odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro”. Ma, se così è, l'intero contenuto della lettera c), ben lungi dal dare luogo ad una normativa chiara ed esaustiva per lottare contro il razzismo e la xenofobia”, è privo di senso e superfluo, e, di conseguenza, fonte di confusione, in quanto le condotte descritte, se attuate in modo da istigare alla violenza o all'odio, rientrano a pieno titolo fra quelle genericamente individuate alle lettere a) e b). In altri termini, una distinzione introdotta dove non vi è ragione di distinguere agevola interpretazioni che attribuiscano in ogni caso, in conformità del resto alla vulgata corrente, al ”negazionismo” natura di incitamento all'odio razziale.

Negazionismo “grossolano” e libertà di opinione

La lunga gestazione della decisione-quadro e i contrasti che l'hanno tenuta a lungo nel cassetto, contribuiscono ad aggravare il timore che l'intento sia di accontentare le lobbies che da tempo premono per estendere a tutti gli Stati dell'Unione leggi che puniscano il puro e semplice negazionismo (in particolare del genocidio ebraico) in quanto tale, come del resto già avviene in Francia, Belgio, Germania, Austria, Spagna ecc., offrendo un anticipato via libera europeo al varo di leggi che vadano in questa direzione. D'altro canto sarebbe proprio questa la via più semplice e rapida per raggiungere uno dei fini espressamente indicati nei considerando 3,4 e 5, cioè “una nuova azione legislativa che soddisfi la necessità di ravvicinare maggiormente le disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri e di superare gli ostacoli che si frappongono a un’efficace cooperazione giudiziaria, dovuti principalmente alle divergenze fra gli ordinamenti giuridici degli Stati membri (...) per fare in modo che gli stessi comportamenti costituiscano reati in tutti gli Stati membri e che siano previste pene efficaci, proporzionate e dissuasive per le persone fisiche e giuridiche che hanno commesso simili reati o ne sono responsabili”.

L'indagine sugli intenti non sarebbe completa se si trascurasse che il risultato pratico della criminalizzazione del “semplice” negazionismo può essere conseguito anche in presenza di norme che apparentemente esigano per la sua sanzionabilità penale il concorso di ulteriori requisiti, ma che, attraverso l'impiego di termini estranei alla puntualità del linguaggio giuridico che proprio per la loro imprecisione lascino spazio all'interpretazione creativa dei giudici. vengano formulate in modo da rendere possibile in via giudiziaria il risultato non pienamente conseguito in sede normativa. E' il caso dell'aggettivo, “grossolana”, utilizzato per caratterizzare, ai fini della punibilità, negazione e minimizzazione (in realtà una interpretazione letterale - anche se è difficile intendere la ratio di una diversità di disciplina – consentirebbe di riferire il requisito della grossolanità solo a quest'ultima, perché per rapportarlo anche al negazionismo si sarebbe dovuto usare il plurale e scrivere “grossolane”). Questa singolare “grossolanità”, comunque di ardua e quindi arbitraria individuazione, potrebbe servire in sede processuale, in particolare quando manchi l'estremo della istigazione alla violenza o all'odio, per superare l'ostacolo della libertà di opinione e di espressione, diritto costituzionalmente garantito e fatto salvo, oltre che nei “considerando” 14 e 15, nell'art. 7 della decisione-quadro, di cui si riporta il testo: “1. L’obbligo di rispettare i diritti fondamentali e i fondamentali principi giuridici sanciti dall’articolo 6 del trattato sull’Unione europea, tra cui la libertà di espressione e di associazione, non è modificato per effetto della presente decisione quadro. 2. La presente decisione quadro non ha l’effetto di imporre agli Stati membri di prendere misure che siano in contrasto con i principi fondamentali riguardanti la libertà di associazione e la libertà di espressione, in particolare la libertà di stampa e la libertà di espressione in altri mezzi di comunicazione, quali risultano dalle tradizioni costituzionali o dalle norme che disciplinano i diritti e le responsabilità della stampa o di altri mezzi di comunicazione, nonché le relative garanzie procedurali, quando tali norme riguardano la determinazione o la limitazione della responsabilità”. Tuttavia, la conferma in via di principio di tali fondamentali libertà, in concreto non chiude la strada ad una giurisprudenza che rifiuti dignità di manifestazione del pensiero a negazioni o minimizzazioni “grossolane” o che i giudici, non necessariamente esperti di analisi storica e condizionati dalla vulgata mass-mediale, si sentano autorizzati a ritenere tali pur se (per limitarsi al genocidio ebraico) in realtà le tesi negazioniste dei vari Rassinier, Barnes. Faurisson, Zundel, Irving possono essere infondate o addirittura volutamente false, ma certo non grossolane.

I crimini dell'Asse e eccidi impuniti

Analoghe considerazioni valgono per la previsione di cui alla lettera d: “ l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini definiti all’articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale, allegato all’accordo di Londra dell’8 agosto 1945, dirette pubblicamente contro un gruppo di persone, o un membro di tale gruppo, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica, quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all’odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro”. Le norme in questione sono quelle a suo tempo varate dalla Potenze vincitrici per il giudizio e la punizione dei grandi criminali di guerra dei paesi europei dell’Asse”, cioè di tutti coloro che, agendo per conto dei Paesi Europei dell’Asse, avranno commesso sia individualmente, sia quali membri di una organizzazione, uno dei delitti” indicati nell'art. 6 e precisamente: ” a) Crimini contro la pace: vale a dire la progettazione, la preparazione, lo scatenamento e la continuazione di una guerra d’aggressione, o d’una guerra in violazione di trattati, assicurazioni o accordi internazionali, ovvero la partecipazione a un piano concertato o a un complotto per commettere una delle precedenti azioni; b) Crimini di guerra: vale a dire la violazione delle leggi e degli usi di guerra. Queste violazioni includono, senza esserne limitate, l’assassinio; il maltrattamento o la deportazione per lavori forzati, o per qualsiasi altro scopo, delle popolazioni civili dei territori occupati o che vi si trovano; l’assassinio o il maltrattamento di prigionieri di guerra o di naufraghi; l’esecuzione di ostaggi; il saccheggio di beni pubblici o privati; la distruzione ingiustificata di città e di villaggi, ovvero le devastazioni non giustificate da esigenze d’ordine militare; c) Crimini contro l’umanità: vale a dire l’assassino, lo sterminio, la riduzione in schiavitù, la deportazione e qualsiasi altro atto inumano commesso ai danni di una qualsiasi popolazione civile, prima e durante la guerra, ovvero le persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi, quando tali atti o persecuzioni - abbiano costituito o meno una violazione del diritto interno del Paese dove sono state perpetrate - siano state commesse nell’esecuzione di uno dei crimini rientranti nella competenza del Tribunale, o in connessione con uno di siffatti crimini”.
Se non vi è nulla da aggiungere in ordine alle questioni poste dalle disposizioni di cui alla lettera c) dell'art. 1, qualche problema comporta l'individuazione dell'intera platea dei reati che per effetto del richiamo di cui alla lettera d) dovrebbero rientrare nell'ambito di applicazione della decisione-quadro. Al proposito è stato acutamente osservato (A dir bene di Carlo Magno si andrà in galera di Mauro Mellini) che in mancanza di espressi riferimenti al riguardo si potranno liberamente e tranquillamente negare o minimizzare i più immani (se non altro quanto a numero delle vittime) eccidi del secolo XX e, forse dell'intera storia umana: quelli di milioni di kulaki in Russia e Ucraina e di intellettuali e contadini in Cina ad opera di quei regimi comunisti. In realtà si può osservare in contrario che l'art. 6 dello Statuto del Tribunale internazionale militare (vulgo Tribunale di Norimberga), richiamato dall'art 1 lettera d) della decisione-quadro, include nella categoria dei crimini contro l'umanità gli atti inumani ai danni di una qualsiasi popolazione civile e le persecuzioni per “motivi politici”, oltre che “razziali e religiosi”, nelle quali categorie possono certamente rientrare, in quanto anche politicamente motivati, gli stermini russi e cinesi. Senza dubbio per giungere al risultato della punibilità della loro apologia, negazione o minimizzazione grossolana occorre attribuire al rinvio della decisione-quadro il valore di richiamo oggettivo a tutte le figure criminose comunque indicate nell'art. 6 in questione, considerando di natura solo processuale, in quanto richiesto dallo Statuto unicamente ai fini della determinazione della competenza del Tribunale militare a giudicarne, il requisito della loro commissione “nell’esecuzione di uno dei crimini rientranti nella competenza del Tribunale, o in connessione con uno di siffatti crimini”. Si tratterebbe – sembra – di una interpretazione perfettamente compatibile con le normali regole dell'ermeneutica giuridica.

La competenza giurisdizionale

Infine, pur se non strettamente connesso con i rilievi fin qui svolti (ma un legame evidentemente esiste), va segnalato l'art. 9, del quale per comodità di lettura si riporta il testo: “1. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie per stabilire la propria competenza giurisdizionale in relazione ai comportamenti di cui agli articoli 1 e 2 qualora essi siano stati posti in essere: a) interamente o in parte sul suo territorio; o b) da uno dei suoi cittadini; o c) a vantaggio di una persona giuridica avente la sede sociale sul suo territorio. 2. Nello stabilire la propria competenza giurisdizionale ai sensi del paragrafo 1, lettera a), ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie per garantire che essa si estenda ai casi in cui il comportamento è posto in essere mediante un sistema di informazione e: a) l’autore pone in essere il comportamento allorché è fisicamente presente sul suo territorio, a prescindere dal fatto che il comportamento implichi o no l’uso di materiale ospitato su un sistema di informazione situato sul suo territorio; b) il comportamento implica l’uso di materiale ospitato su un sistema di informazione situato sul suo territorio, a prescindere dal fatto che l’autore ponga in essere o no il comportamento allorché è fisicamente presente sul suo territorio”. E' evidente la volontà politica di allargare al massimo la potenzialità incriminatrice delle nuove norme fino a coinvolgere anche chi neghi o minimizzi, operando nel territorio di Stati che non attribuiscono rilievo penale a tali comportamenti. Infine l'accenno ai “sistemi d'informazione” prelude necessariamente a massicci interventi di controllo su internet.

 

*Presidente on. Aggiunto Corte di Cassazione