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Iran. 30° della rivoluzione

di Francesco Ferrari - 13/01/2009

 

Le cause remote della «Rivoluzione islamica» in Iran vanno ricercate nel conflitto culturale (un vero e proprio «scontro di civiltà», giusta la definizione di Samuel Huntington) che contrappone l’Occidente laico, moderno e secolarizzato al mondo arabo-islamicoshah-reza-pahlavi_fondo-magazine ancora fortemente intriso di senso religioso nelle sue strutture socio-culturali; l’inizio di questo scontro si può far risalire all’invasione napoleonica dell’Egitto nel 1798. Da allora gran parte del mondo arabo ha subito l’occupazione militare e la colonizzazione politico-culturale da parte delle varie potenze occidentali; la cessazione della colonizzazione politica e il conseguimento dell’indipendenza, se hanno di fatto permesso ai paesi arabo-islamici di recuperare la loro indipendenza sul piano politico, non hanno affatto interrotto il processo di colonizzazione culturale da parte dell’Occidente; e questo al di là di qualsiasi esplicita volontà di dominio (che pure è presente, se guardiamo all’attuale politica americana), perché non bisogna mai dimenticare che la civiltà occidentale è costitutivamente imperialista e ha la sua istituzione centrale nel mercato, il quale per sua natura è un’istituzione ecumenica che tende a sottoporre agli imperativi impersonali della logica catallattica tutto ciò che si trova sul suo cammino: istituzioni, valori, norme, consuetudini di tradizione millenaria, tutto viene travolto e rovesciato, tant’è vero che fu proprio Marx a definire il capitalismo una «rivoluzione permanente»: il senso di questa invasione (o piuttosto di come è stata percepita) di tecniche, modi di produzione, valori e idee esogene ed estranee è chiaramente espresso da un articolo apparso sulla rivista egiziana “al-Fath” nel 1930: «Considerato nel suo insieme, il territorio dominato dal colonialismo è piccolo; un giorno verrà in cui il possessore del suolo si troverà in condizione di recuperare ciò che gli è stato rubato. Ma che gli invasori possano colonizzare il cuore degli uomini e delle donne, ecco il danno ultimo, la catastrofe finale. Il pericolo reale ci viene dalla guerra spirituale che l’Europa conduce metodicamente contro l’anima degli Orientali in generale e dei musulmani in particolare, con l’aiuto delle sue opere di filosofia, dei suoi romanzi, del suo teatro, dei suoi film e della sua lingua. Il fine di questa azione concreta è di natura psicologica: strappare i popoli orientali dal loro passato». Poste queste premesse, è ovvio che una reazione di rigetto diveniva tanto più sicura quanto più il processo di occidentalizzazione progrediva e andava a intaccare le radici più profonde della civiltà islamica.

 

E’ in questa situazione che si va ad innestare la Rivoluzione Islamica Iraniana, con il suo cascame di conseguenze. Bisogna ricordare che nel paese era in corso un travagliato processo di modernizzazione (i cui prodromi risalgono comunque all’inizio del XIX secolo) che aveva avuto il suo iniziatore nel defunto scià Reza Pahlavi, padre dello scià regnante al momento della Rivoluzione, il più famoso Mohammad Reza Pahlavi [nella foto sopra a destra]: questo processo era stato impostato in maniera verticistica senza tener conto della volontà e delle aspettative popolari, e in più lo scià, infatuato del mito della Persia pre-islamica, dava l’impressione di non nutrire alcun rispetto per l’Islam e di voler re-instaurare l’antica religione zoroastriana (l’attuale Iran è stato islamizzato durante la conquista araba del VII secolo ed era passato dall’Islam sunnita a quello sciita quando la dinastia dei Safavidi aveva preso il potere nel XVI secolo); inoltre sulla legittimità della dinastia Pahlavi gravavano pesanti dubbi per le modalità con cui lo scià Reza aveva preso il potere.

 

Evidentemente di fronte a una tale situazione era giocoforza che l’opposizione nel paese crescesse a livelli esponenziali, fino a sfociare nella rivolta aperta del 1978, che il 16 gennaio dell’anno seguente costrinse lo scià all’esilio. Alla rivoluzione avevano preso parte una pluralità di forze, dai comunisti, agli islamici di sinistra fino agli elementi fondamentalisti che facevano capo all’ayatollah Ruhollāh Mosavi Khomeini [nella foto sotto a sinistra]; questi godeva di un ascendente insuperabile sulla popolazione, grazie al suo enorme carisma, così presto gli altri gruppi che avevano contribuito a rovesciare lo scià (liberali, islamici di sinistra, comunisti) vennero presto esautorati e posti fuori legge ed egli poté iniziare a impostare con estrema velocità la struttura della stato secondo i suoi principi di «governo islamico».

 

Khomeini infatti aveva percepito che la modernizzazione della società iraniana progettata dallo scià con la conseguente importazione della cultura laico-scientifica dell’Occidente secolarizzato avrebbe finito per delegittimare progressivamente la tradizione religiosa, con il risultato che il cuore dell’identità iraniana sarebbe stato aggredito e intaccato in modo irrimediabile. Così egli tentò di arrestare questo processo di intrusione prima che fosse troppo tardi; e gli parve che l’unica strategia idonea a «proteggere l’Islam» e ad allontanare la prospettiva della perdita d’identità del suo popolo fosse quella di elevare un’impenetrabile barriera, di modo che l’intrusione degli elementi culturali alieni risultasse impossibile. In aggiunta poiché l’«infezione occidentale» aveva già colpito la società iraniana (molto più di quanto lui pensasse, come avrò occasione di dimostrare), egli proclamò alto e forte la necessità di una politica di «purificazione spirituale», basata sull’imperativo etico-religioso di punire spietatamente i «portatori del Male», vale a dire gli elementi contaminati dallo spirito occidentale (al riguardo basti pensare che una volta Khomeini affermò che, mentre lo scià aveva bisogno di una polizia segreta, «la Repubblica islamica poteva contare su una nazione composta da 36 milioni di delatori»). Ma ancora di più, Khomeini non si limitava a voler elevare una granitica barriera per evitare la corruzione della Vera Religione e per mantenere intatta la Sacra Immutabile Tradizione (o piuttosto quella che lui pensava essere tale); elaborò anzi il grandioso progetto di sostituire la sua visione dell’Islam politico fondamentalista al comunismo sovietico nella lotta di tutti i «popoli diseredati della terra» contro il capitalismo e il «marcio occidente»,khomeiny_fondo magazine che espose in maniera compiuta nella lettera che egli inviò a Gorbaciov poco prima di morire. Vediamo ora in che misura questo progetto è riuscito.

 

Innanzitutto Khomeini decise di tradurre in una forma istituzionale l’idea di stato e di società islamica frutto delle riflessioni che egli aveva maturato nel corso degli anni e che ora si accingeva a mettere in pratica. Questa forma istituzionale fu definita dalla costituzione approvata il 30 marzo del 1979 (con il 98% dei voti e certamente non in condizioni di libero dibattito, ma questo ha poca importanza in relazione al problema su cui vorrei portare l’attenzione); in essa lo stato iraniano era denominato «Repubblica islamica» e accanto agli organi elettivi assumeva un ruolo preminente il Consiglio dei Guardiani, espressione del clero sciita e in ultima analisi un organo teocratico (che poi il potere di quest’organo sia stato un po’ ridotto con la riforma costituzionale approvata nel 1988 sempre sotto la supervisione sempre di Khomeini che ha istituito l’«Assemblea della definizione delle opportunità» non è un fatto eccessivamente rilevante; d’altra parte la costituzione iraniana non prevedeva procedure di modifica). Ma al di là del contenuto, sarebbe opportuno appuntarsi sulla forma che Khomeini ha voluto, o meglio è stato obbligato a dare al suo tentativo di re-instaurare la piena vigenza della Tradizione, da lui riveduta e corretta, ovviamente, sulla vita pubblica e privata degli iraniani: quella costituzionale. E’ questo è il punto: l’idea di costituzione come legge fondamentale dello stato nasce inizialmente con la Rivoluzione americana e prosegue con la Rivoluzione francese (estendendosi poi a tutto il mondo) nel momento in cui la Tradizione religiosa ha smesso di agire nella «coscienza collettiva» come una realtà immediata e indiscutibile, è diventata oggetto di critica e quindi le norme che da essa derivano non sono più sentite come cogenti nella loro integrità; il potere, l’autorità, le leggi, anche le norme fondamentali del vivere civile non vengono più da Dio o dagli dei, ma sono espressione della volontà popolare. Khomeini, adottando questo strumento per «risacralizzare» la società iraniana, ha accettato implicitamente di dare un fondamento «desacralizzato» alla sua opera, ammettendo (senza dirlo esplicitamente) la presenza di alcune influenze ineliminabili della cultura occidentale sulla «coscienza collettiva» della Nazione; perché non ha rimesso in vigore le norme che erano in vigore nel paese nel XVIII (prima dell’inizio del processo di occidentalizzazione)? Perché era strutturalmente impossibile e perché egli stesso le sentiva come inadeguate o sbagliate, il che è molto significativo. Se poi procediamo oltre e consideriamo la teoria dello stato e del ruolo dei religiosi al suo interno che Khomeini ha formulato (condensata nella costituzione iraniana) e come essa si situa nel contesto dell’Islam in generale ma anche dello sciismo in particolare, vediamo che anche qui il distacco dalla tradizione è notevole e si potrebbe dire anche netto. Infatti «la sapienza ereditata dagli ulama prevedeva che essi non fossero troppo legati al governo del mondo; essi dovevano mantenere una distanza morale da esso, pur preservando il proprio accesso ai governanti e la propria influenza su di loro: era pericoloso legare gli interessi eterni dell’Islam al destino di un effimero governante del mondo. Questo atteggiamento si rispecchiava in una certa diffidenza popolare verso gli uomini di religione che svolgessero un ruolo troppo in vista nelle faccende del mondo; al pari di chiunque altro, anche costoro erano suscettibili di essere corrotti dal potere e dalla ricchezza, e forse non costituivano dei governanti molto bravi» (Albert Hourani, Storia dei popoli arabi, Mondadori, 2003, pag. 455). Indubbiamente non è sbagliato dire partendo da questi presupposti che la Repubblica islamica, con l’adottare questo sistema, ha prodotto una novità storica assoluta: il governo teocratico degli esperti della sharia. L’omaggio alla Tradizione quindi si è rivelato puramente formale, dal momento che Khomeini l’ha, nella sostanza, liberamente interpretata; e ha potuto farlo perché egli, uomo di grande carisma, poté presentarsi come precursore dell’«imam nascosto» atteso dagli Sciiti per la Fine del Mondo (anche se le folle in preda all’estasi religiosa andando oltre gridavano: «Khomeini è l’imam!»); tutto ciò rientra nel più generale processo di riescatologizzazione dell’Islam in corso da due secoli, conseguenza dell’angoscia che ha progressivamente invaso le masse musulmane di fronte alla continua avanzata dell’Occidente capitalista e secolarizzato, erodendo via via sempre di più la loro identità culturale.

 

Se le influenze occidentali sono indubbie sull’ideologia khomeinista sia come apporti diretti sia come risultati indiretti di una reazione di rifiuto, altrettanto certe sono le influenze della teoria e della prassi marxista sulla politica economica del primo periodo rivoluzionario, di cui gli effetti perdurano fino ad oggi. In ogni modo voglio sgombrare immediatamente il campo da qualsiasi equivoco: non sto dicendo che Khomeini, fosse comunista (non lo era affatto, anche se ara solito invitare ai convegni che organizzava economisti marxisti e su di lui aveva esercitato non poca influenza il pensiero di Alì Shariati, non a torto definito un «marxista islamico»,) o che volesse abolire la proprietà privata (non lo ebbe mai per la testa), ma piuttosto che recepì alcuni elementi propri dell’organizzazione economica dei paesi del cosidetto «socialismo reale» perché li riteneva utili a realizzare la sua idea di stato e di società, dove il clero sciita doveva esercitare forme molto stringenti di controllo. A questo scopo vennero effettuate vaste nazionalizzazioni (tra cui quella dell’economia petrolifera, che colpì non poco gli interessi americani, il che di per sé non è negativo) e le fondazioni caritatevoli costituite all’epoca dello scià (denominate «Bonyad») vennero super-potenziate e consegnate, come entità semi-statali, nelle mani dei religiosi o di chi era loro vicino (sono tenute infatti a rispondere solo alla Guida Suprema): in questo modo il clero venne ad avere nell’ambito dello stato iraniano una posizione sotto molti aspetti simile a quella che aveva la «burocrazia carismatica» comunista nei paesi dell’est Europa, detenendo insieme il potere politico ed economico (oltre a quello dei mezzi informativi, naturalmente), anche se il suo controllo è molto meno totalitario, dal momento che è presente comunque una larga fetta di economia non nazionalizzata; e il fine era proprio questo, dal momento che Khomeini riteneva necessario che il clero e lo stato da esso diretto dovessero esercitare una vigilanza capillare sulla vita pubblica e privata per evitare il diffondersi dell’«infezione» occidentale: di conseguenza ogni movimento spontaneo dell’individuo e della società andava visto con sospetto (come nei paesi comunisti). Va anche detto, a onor del vero, che Khomeini, uomo al di là di tutto molto sensibile alla giustizia sociale (il padre venne ucciso, pare, per aver preso le difese di alcuni contadini oppressi dai proprietari terrieri), probabilmente vedeva nel programma di nazionalizzazioni un mezzo per realizzare un miglioramento effettivo delle condizioni di vita delle classi meno abbienti e di concretizzare una progressiva uguaglianza sociale (posto che l’uguaglianza rappresenti in sé un valore, cosa che io rifiuto): ma questo non elimina la matrice marxista di tale concezione (e bisogna dire che i risultati non sono stati affatto eccelsi, né dal punto di vista sociale, né, meno che mai, da quello economico). Tra gli altri elementi che rimandano all’universo comunista potrei citare la cosidetta «Rivoluzione culturale islamica» che riprende fin nel nome la «Rivoluzione culturale cinese» di nefasta memoria: in quel periodo oltre a una purga generalizzata nel mondo culturale ed universitario (di studenti e professori non allineati), venne attuata una politica di sistematica denigrazione del passato della nazione iraniana (fatta eccezione per i momenti di passaggio all’Islam in generale e allo sciismo in particolare), con conseguente maledizione di tutte le dinastie che avevano preceduto la Rivoluzione, rappresentate come governi di tiranni (eccetto gli Zand, che in effetti furono ottimi governanti e non presero neanche il titolo di scià, ma questo non implica che tutti gli altri fossero cattivi); vennero effettuati anche dei cambi di nome di alcune città: ad esempio Kermanshah divenne per un po’ di tempo Bakhtaran (c’è da dire che se i paesi comunisti si riempirono di città dedicate a Lenin, Stalin e agli altri «eroi del proletariato», qui in negativo, ci si limitò a cercare di cancellare una parte del passato). Tra gli aspetti folclorici dell’imitazione si possono poi ricordare le «marce dell’imam» che imitavano pari pari quelle tristi e monotone in uso nei paesi dell’est Europa.

 

Ma alla fine Khomeini è riuscito a impedire il processo di penetrazione della cultura dell’occidente laico e secolarizzato nell’anima della nazione iraniana? Nella sostanza possiamo dire di no (e forse nella fase estrema della sua vita se ne rese conto) e questo per tutta una serie di riscontri oggettivi che si possono fare osservando i mutamenti intervenuti nella società iraniana dalla Rivoluzione in poi; partiamo da un campo fondamentale, quello dell’istruzione. Innanzitutto bisogna ricordare che più della metà della popolazione è nata dopo l’avvento al potere del khomeinismo; dal 1979 in poi si sono fatti progressi enormi e innegabili nel campo della scolarizzazione, e in particolare nel campo della scolarizzazione femminile: infatti se prima della Rivoluzione moltissime bambine e ragazze non frequentavano le scuole miste dal momento che provenivano da famiglie tradizionaliste, nel momento in cui (dopo la Rivoluzione) sono state istituite classi rigidamente separate secondo i sessi questo impedimento è venuto meno e la percentuale delle donne istruite, anche a livello superiore e universitario, è cresciuta in modo notevolissimo; tutto ciò sta causando un forte mutamento a livello sociale: se infatti nei primi anni del regime islamico in ottemperanza all’idea tradizionale del ruolo della donna come madre e sposa un terzo delle donne lavoratrici, generalmente impiegate e segretarie, furono licenziate, ora le donne iraniane riconquistano spazio nel mondo del lavoro come ingegneri e professionisti qualificati, e donne a capo di un ufficio o di una banca, in posizioni dove molti dei loro subordinati sono uomini, cominciano ad essere una situazione comune a Tehran. Ma questo non è l’effetto più dirompente del processo di alfabetizzazione della popolazione: infatti, per quanto la religione sia una materia fondamentale e per quanto si sia proceduto a un’«islamizzazione» dei libri di testo, resta il fatto che nello studio di pressoché tutte le materie (in particolare quelle scientifiche e tecnologiche) il riferimento alla scienza occidentale è assolutamente ineliminabile; così il modo di pensare ispirate alle categorie laico-scientifiche proprie dell’Occidente è probabilmente più diffuso oggi rispetto a quanto lo fosse trenta anni fa; inoltre agli iraniani non è vietato di studiare all’estero (d’altra parte la lettura non è l’unico mezzo attraverso cui possono essere veicolate notizie, idee e concezioni che mettono in crisi la visione del mondo proposta dal Corano; la censura in realtà in Iran ha effetti molto, molto relativi). Né la religiosità è cresciuta in Iran in questi anni; l’imposizione della sharia non ha giovato a questo scopo (anzi, forse ha creato una reazione di rigetto): l’Iran infatti ha la più bassa percentuale di frequentazione dei servizi religiosi di qualsiasi paese islamico e i religiosi si sono più volte lamentati che più del 70% degli abitanti non eseguano le cinque preghiere quotidiane prescritte, mentre meno del 2% attende alla preghiera collettiva del venerdì in moschea. Non è quindi fuori luogo dire che il futuro della rivoluzione iraniana, per lo meno nei termini in cui sarebbe piaciuto a Khomeini, si presenta quanto mai nebuloso e incerto.

 

Se invece prestiamo attenzione all’altro progetto che Khomeini voleva attuare, ossia la sostituzione dell’Islam politico e fondamentalista al comunismo come guida del «proletariato mondiale» nella lotta contro l’Occidente «pagano», materialista e capitalista, il successo è stato indubbio: alla «mondializzazione capitalista» non si sarebbe più contrapposta una «mondializzazione comunista», bensì una «mondializzazione islamista». Una prima ragione di questo successo va certamente ricercata nel collasso del mondo comunista che, mostrando l’inconsistenza dell’alternativa da esso proposta, ha praticamente lasciato libero il campo, ma le ragioni più profonde, come ho già detto, sono certamente intrinseche al mondo islamico. L’atmosfera era già satura da molti anni (l’integralismo era in crescita a partire dagli anni ‘70, da quando i regimi laico-socialisti non si erano dimostrati all’altezza delle aspettative che le masse arabe avevano in loro riposto, nonostante più di qualche successo lo avessero riportato) e la presa di potere da parte di Khomeini ha fatto precipitare gli eventi: mostrando con la sua esperienza politico-istituzionale come si poteva tentare di re-islamizzare una società nel tentativo di sottrarla alle nefaste influenze del «Grande Satana» occidental-capitalista, ha costituito per i fondamentalisti di tutto il mondo musulmano l’esempio che cercavano e che gli mancava (analoga funzione aveva avuto la Rivoluzione russa nei confronti del movimento comunista internazionale e la Rivoluzione francese nei confronti di liberali e giacobini, fratelli-coltelli figli di una medesima borghesia). Che poi il fondamentalismo e il conseguente terrorismo oggi imperversanti nel Dar al-Islam siano di matrice sunnita e abbiano molto spesso forti coloriture anti-sciite è un fatto secondario, che non inficia il fatto che l’esempio iraniano è stato uno spartiacque il cui impatto psicologico e politico-culturale è stato indiscutibile. Va anche detto che i movimenti fondamentalisti sunniti hanno in genere una posizione molto più rigida e aggressiva di quelli sciiti nei confronti della civiltà occidentale nel suo complesso: e questo per tutta una serie di ragioni che vanno ricercate nelle peculiarità della dottrina teologica sciita da una parte (che si è sempre connotata per essere stata, sotto alcuni aspetti, più aperta ad apporti di tipo razionale, per l’influenza che in essa hanno avuto le dottrine mutazilite), dall’altra nelle basi dottrinarie su cui si basano i fondamentalisti sunniti (salafismo, deobandismo e una forma corretta e riveduta in senso politicizzato di wahabismo, che quando nacque, nel XVIII secolo, era indubbiamente un movimento di riforma religiosa). Prendiamo ad esempio i talebani afghani. Innanzitutto sgombriamo il campo dagli equivoci dicendo che essi non hanno affatto riportato il paese al Medioevo; una visione sommaria del modo di vivere delle varie genti afghane all’epoca smentirebbe questa affermazione banale, scontata e priva di fondamento storico. Eppure essi hanno imposto al paese la loro versione rigidissima e ideologizzata dell’Islam, studiata a tavolino, che prevedeva oltre al burqa per le donne e alla proibizione di prodotti tecnologici d’importazione occidentale ritenuti immorali in sé, come la televisione, anche la proibizione della musica tradizionale e di varie usanze profondamente radicate nel folclore afghano (come ad esempio i combattimenti di galli; tralascio per carità di patria la distruzione del patrimonio culturale nazionale tra cui spiccavano i Buddha di Bamiyan). E il perché abbiano fatto questo può essere ricercato, tra le altre cose, principalmente nel fatto che essi (o meglio, la loro dirigenza, che era comunque di gran lunga inferiore a Khomeini al-ghazali_fondo-magazineper cultura e visione politica) avevano capito che le chiusure attuate da Khomeini non erano sufficienti a impedire la contaminazione del paese da parte della civiltà occidentale e bisognava attuare qualcosa di più radicale: solo che così facendo non si resero conto che condannavano comunque il paese, bloccandone lo sviluppo scientifico e tecnologico, a diventare alla fine una ipocolonia dell’Occidente. D’altra parte il loro potere, lungi dall’appoggiarsi sulla Tradizione (la cultura tradizionale afghana ha ricevuto un colpo durissimo durante l’invasione sovietica e la guerra civile che ne è seguita, ma era già stata intaccata, come in Iran, da due secoli di contatto con l’Occidente e di tentate riforme ad esso ispirate), si fondava, esattamente come quello di Khomeini, sul carisma personale dei capi, tra cui spiccava il mullah Omar (il quale sapeva sì il Corano a memoria, ma era digiuno, oltre che del resto, di qualunque cultura teologico-giuridica degna di questo nome).

 

Le conclusioni che si possono trarre da tutti questi fatti sono univoche: ogni tentativo di re-instaurare la piena vigenza della «Sacra Immutabile Tradizione» (Max Weber) con mezzi umani (perché di questo si tratta: con tutte le loro pretese di trascendenza i fondamentalisti delle varie religioni cercano nell’ambito del mondo moderno di «fare Dio attraverso la prassi») è destinata al fallimento. Questo non significa ovviamente che non ci sia più spazio nel mondo attuale per la religione, anche nelle sue forme autenticamente tradizionali, anzi; ma il fatto è che da quando la cultura laica e illuminista ha messo in crisi la Fede come fatto collettivo ed essa ha smesso di permeare nella sua integrità la vita dei popoli, la religione è diventata una delle tante possibilità che l’uomo ha davanti e un oggetto di elezione, così si è passati dal «religioso per Tradizione» al «religioso per scelta», né questo processo può essere invertito (per lo meno a viste umane, s’intende): ma lo spazio per il mistero è ancora moltissimo, né la «ratio» è in grado di spiegare tutto, e la fede religiosa, nelle sue molteplici forme (io ho fatto la mia scelta), può ancora esistere. Viceversa a coloro che si ostinano a voler «reincantare» il mondo con il mezzo profano dell’azione politica (specie se «rivoluzionaria») non posso che ricordare le parole del grande Al-Ghazali [nel ritratto sopra a destra]: «Una volta abbandonata la fede tradizionale, non sperare più di tornarvi, perché la condizione essenziale di quella fede è che tu non sappia di essere un tradizionalista».