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La guerra antimissionaria e antibritannica dei Maori della Nuova Zelanda (1865-72)

di Francesco Lamendola - 14/01/2009

 

Il primo europeo a toccare la Nuova Zelanda era stato l'olandese Abel Tasman, nel dicembre del 1642, che le diede dapprima il none di "Terra degli Stati", mutato poi in quello di Nuova Zelanda. Non era stato un incontro pacifico: il tentativo di sbarco si risolse in una battaglia così sanguinosa che il luogo ricevette il none di Murder's Bay, Baia del Massacro.
Fra il 1769 e il 1772 vi giunse James Cook, che circumnavigò l'arcipelago (creduto da Tasman parte del mitico continente della Terra Asustralis), ma dovette anch'egli rinunciare a un tentativo di colonizzazione per l'indole fiera e bellicosa degli indigeni, i Maori. Del pari infelici furono due successivi tentativi d'insediamento dei Francesi, quello di Surville del 1770 e quello di Marion-Dufresne del 1772, quest'ultimo conclusosi tragicamente, con l'uccisione a tradimento del comandante e di sedici uomini del suo equipaggio.
Fosco episodio, che testimonia come sia una semplificazione eccessiva quella di presentare gli Europei sempre e comunque come sleali e aggressivi, e i popoli nativi come pacifici e ospitali. Imbevuto di idee illuministe sul mito del "buon selvaggio", Marion era animato da sentimenti amichevoli verso i nativi e mostrò nei loro confronti la più generosa benevolenza; ma venne ripagato con una straordinaria perfidia dal capo maori Te Kuri, secondo una tradizione guerriera locale che esaltava il successo e l'uccisione del nemico, con relativo festino cannibalesco, indipendentemente dai mezzi impiegati per raggiungere lo scopo.
Scrive il de La Roncière nel suo bellissimo volume La scoperta della Terra (Torino, S. A. I. E., 1958, p. 271):

«I rapporti di Marion con gli indigeni della Nuova Zelanda sembravano dei più cordiali. Talvolta essi venivano a dormire a bordo dove il loro gran capo, Tacury [ma la trascrizione esatta dal polinesiano è piuttosto Te Kuri, nota nostra], aveva perfino lasciato per un certo periodo suo figlio; in un'isoletta della baia [oggi nota come baia delle Isole, sul versante settentrionale dell'Isola del Nord] era stato installato un ospedale e, in una foresta di cedri, era stato creato un cantiere per rifare gli alberi delle navi.  Improvvisamente, il 12 giugno 1772, avvenne una catastrofe. Illuso da un'ingannevole sicurezza, Marion era sbarcato con sedici uomini che si erano sparpagliati per l'isola per raccogliere legna [in realtà, come vedremo, per partecipare a una grande battuta di pesca organizzata dai loro ospiti]. I Maori aspettavano quest'occasione per assalirli isolatamente. Uno solo sfuggì alla carneficina, nascondendosi fra la sterpaglia, e diede l'allarme a bordo. Egli aveva visto aprire il ventre dei suoi disgraziati compagni e frantumare il loro cranio con la pesante mazza tagliente chiamata patù-patù. I selvaggi estraevano dal cranio il cervello, considerato cibo delizioso, e bevevano  il sangue delle vittime per propiziarsi il loro idolo.»

Con la tragica fine di Marion cadeva nel vuoto il progetto di costruire una Francia Australe nell'arcipelago neozelandese.
La subdola preparazione dell'agguato e le modalità della sua crudele esecuzione sono state rievocate dallo scrittore Angelo Solmi nel suo libro Gli esploratori del pacifico. Da Drake a Cook a La Pérouse (Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1985, pp. 130-133):

«In apparenza i Maori fecero ai Francesi un'accoglienza molto amichevole: Te Kuri, il capo più importante della zona, accolse subito l'invito a venire a bordo  e, anzi, pranzò e dormì sulla "Mascarin". Viste le buone disposizioni degli indigeni, Marion decise di sistemare l'alberatura della "Mascarin", e di cambiare addirittura quella della "Castries", molto malandata L'11 maggio le due navi ormeggiarono più vicine a riva tra l'isola di Moturua, che chiude la baia, e una penisola stretta e sporgente dalla terraferma, su cui sorgevano numerosi villaggi maori, tutti sotto l'autorità di Te Kuri.
Per compiere i lavori previsti vennero posti a terra tre campi: uno sull'isola di Moturua, non lontano da un folto gruppo di capanne indigene; un secondo sulla spiaggia di una penisola nel fondo della baia, che fronteggiava l'altra penisola abitata dai Maori di Te Kuri, e un terzo nell'intero, nel mezzo di una foresta ove sorgevano altissimi cedri, che dovevano servire per l'alberatura della "Castries". Quest'ultimo accampamento era a una decina di chilometri  a sud del punto in cui le navi erano all'ancora e intorno ad esso fu organizzato da Crozet  un cantiere con sessanta uomini per abbattere i tronchi e prepararli per la "Castries".  Il campo costiero serviva come base di raccordo  tra le navi e il campo della foresta, situato com'era a mezza strada, mentre il campo sull'isola (il più a nord di tutti), comandato dal luogotenente Roux, era adibito a luogo di riposo per gli ammalati, ma soprattutto doveva assicurare il rifornimento d'acqua, che sorgeva freschissima da numerose sorgenti. (…)
Tutto pareva procedere benissimo e la familiarizzazione con gli indigeni era tanto stretta che i Maori, oltre a inviare spesso nei loro villaggi gli ufficiali, accolti da grandi manifestazioni di gioia, aiutavano i marinai francesi al lavoro nella foresta, mostrando un'ammirevole buona volontà. All'inizio Marion aveva disposto che tutte le scialuppe andassero a erra solo con una scorta armata: ma, crescendo ogni giorno di più l'amicizia con i Maori, questa misura gli parve una prova di sfiducia e stabilì di disarmare le scialuppe, nonostante le vive proteste di Crozet [il comandante in seconda della nave ammiraglia, la "Mascarin": nota nostra]per natura assai più diffidente. Te Kuri, da parte sua, era diventato infaticabile: aveva portato suo figlio a bordo, lasciandovelo per alcuni giorni: aveva organizzato una festa in onore di Marion, riconoscendolo come 'grande capo' di tutto il paese, col diritto di portare quattro piume bianche sui capelli.
"Qualche piccola frizione si produceva ogni tanto tra Francesi e Maori; e come non tutti i Maori erano così cordiali come Te Kuri, così non tutti i Francesi erano fiduciosi come Marion. In particolare, oltre a Crozet, anche Roux [un giovane ufficiale della "Mascarin" che tenne un preciso resoconto della spedizione e che è la nostra terza fonte, dopo i diari di bordo di Crozet e di Duclesmeur, il comandante della "Marquis de Castries": nota nostra] aveva espresso al comandante la sua preoccupazione per certi episodi accaduti sull'isola di Moturua, dove gli indigeni spiavano di continuo l'accampamento e dove erano state raccolte voci poco rassicuranti che correvano intorno al futuro dei bianchi.  Marion, però, l'aveva messo a tacere, ricordandogli, tra l'altro,  come pochi giorni prima Vaudricourt, un giovane ufficiale che, disarmato, si era smarrito nella foresta, era stato premurosamente aiutato a ritrovare  la via da alcuni Maori: se costoro avessero avuto davvero cattive intenzioni, avrebbero assalito i Francesi isolati, invece di render loro dei servigi. E così, senza il minimo sospetto, Marion continuò a scendere a terra per far visita all'amico Te Kuri.
Quest'ultimo per il 12 giugno aveva organizzato una grande partita di pesca nelle acque vicine ai suoi villaggi; per l'occasione, disse, avrebbe invitato altri sei capi e quindi sarebbe stato lieto se Marion avesse portato parecchi dei suoi uomini. La mattina di quel giorno Marion s'imbarcò sul canotto che batteva la sua insegna di comando: lo seguivano due giovani ufficiali - Vaudricourt e Lehoux -, un 'volontario' e tredici marinai, compreso il capo- fuciliere che però era disarmato come tutti gli altri. Dalle navi fu visto il canotto sparire verso la costa: la sera Marion non tornò, ma nessuno si preoccupò. Si pensò che il comandante e i suoi sedici uomini fossero stati trattenuti a dormire in casa di Te Kuri, oppure che Marion si fosse recato a visitare Crozet al cantiere nella foresta, poiché qualche tempo prima ne aveva espresso l'intenzione.
Alle nove del giorno dopo la vedetta del "Mascarin" vide un uomo che nuotava disperatamente verso le navi lanciando ogni tanto altissime grida. In fretta e furia fu calata la scialuppa, che lo raccolse esausto e sanguinante: era uno dei marinai che avevano accompagnato Marion, l'unico superstite dei Francesi scesi a terra. Appena si fu riavuto raccontò la tragica avventura a Duclesmeur e ai compagni stretti ansiosamente intorno a lui.
"Disse che, prima di sbarcare, una folla di Maori si era fatta avanti caricandosi gli ospiti sulle spalle perché non si bagnassero: una volta a terra erano stati divisi in tante capanne dove erano stati imbanditi sontuosi banchetti. A un tratto i Maori si erano lanciati su di loro trafiggendoli a colpi di lancia: mentre da ogni parte si udivano grida di moribondi e il sangue colava a fiotti, il marinaio (ferito e ritenuto morto) riuscì a trascinarsi all'aperto lasciandosi cadere in un cespuglio. Di lì fu testimone di scene spaventose: i Maori, spogliati i cadaveri dei Francesi, ne indossarono le divise, poi squartarono i corpi e li fecero a pezzi. L'unico sopravvissuto, alle prime luci del giorno, mentre gli indigeni erano intenti a un orrendo pasto con le carni dei compagni, riuscì a strisciare fino alla spiaggia, gettandosi in mare.
Occorre dire che, in una circostanza così drammatica, Duclesmeur [nonostante la giovane età - aveva circa 23 anni - e le critiche violente riservategli da Roux nella sua relazione sull'accaduto: nota nostra], Duclesmeur si comportò molto bene. Respinto ogni incitamento a una vendetta immediata, disse che invece bisognava preoccuparsi della salvezza degli uomini dispersi nei tre campi, soprattutto di quelli del campo nella foresta, il più lontano e il più esposto agli agguati. Perciò mandò subito una scialuppa con un ufficiale e un distaccamento di soldati ad avvisare Crozet. Al tempo stesso mandò un'altra scialuppa verso i villaggi maori ove era avvenuto l'eccidio, perché, se qualcun altro si fosse salvato, potesse essere soccorso: raccomandò peraltro di tenere i fucili pronti e di non avvicinarsi troppo a riva. L'imbarcazione tornò poco dopo e il suo equipaggio riferì che i Maori, in preda a folle eccitazione, stavano saccheggiando il canotto di Marion: alcuni di essi erano grottescamente vestiti con le divise francesi e non c'era traccia di superstiti.
La pattuglia diretta all'accampamento della foresta arrivò appena in tempo, poiché i Maori stavano già occupando le alture circostanti. Crozet non comunicò ai suoi uomini la notizia del massacro, ma ordinò di incendiare le baracche e cominciò a ripiegare verso la costa; i Maori lo seguivano, scandendo in coro un lugubre ritornello: "Te Kuri mate Marion", ossia: "Te Kuri ha ucciso Marion". Lungo tutto il cammino nel bosco, però, non osarono attaccare perché i Francesi erano numerosi, oltre settanta uomini, ai quali, sulla costa, si unirono quelli dell'altro campo. Tutti salirono sulle scialuppe che, non appena cominciarono a muoversi, furono bersagliate con un fitto lancio di pietre: Crozet allora ordinò ai quattro miglior tiratori di aprire il fuoco sugli indigeni. Caddero parecchi tra gli assalitori, e anche alcuni capi, distinguibili per il loro vistoso abbigliamento: il panico si impadronì dei Maori che, non conoscendo ancora l'uso delle ari da foco, si dispersero urlando. Una volta a bordo, Crozet decise con Duclesmeur [i due ufficiali erano di pari grado, nell'ambito della spedizione: nota nostra] di far sgombrare il campo sull'isola di Motorua: Roux, che lo comandava, prima di imbarcarsi fece uccidere i capi del villaggio, incendiò tutte le capanne indigene e disperse a baionettate i Maori che le abitavano.
La situazione, tuttavia, era sempre critica perché la Castries, ancora senza alberatura, non poteva muoversi: con molte precauzioni e impiegando tutti i fucilieri disponibili, si dovettero continuare ancora per quattro settimane i lavori nella foresta. Ma i Maori non osarono più attaccare: un paio di volte, invece, parecchie piroghe tentarono di avvicinarsi alle piroghe, ma furono respinte a cannonate. Finalmente, a metà luglio, la Castries era pronta ma, prima di spiegare le vele, un grosso distaccamento di soldati venne sbarcato nel luogo in cui era avvenuto l'eccidio. Te Kuri si diede alla fuga, col mantello di Marion sulle spalle, e i soldati visitarono tutte le capanne: in quella di Te Kuri furono trovati un cranio roso fino all'osso, la camicia insanguinata di Marion e le pistole del luogotenente Vaudricourt. Un po' dovunque, però, c'erano resti umani, a cui fu data sepoltura, e tracce del massacro e dei festini cannibaleschi che l'avevano seguito. I villaggi abbandonati di Te Kuri vennero raso al suolo e, il 17 luglio 1772, la "Mascarin" e la "Castries" levarono le ancore…»

Seguirono alcuni anni in cui la Nuova Zelanda enne trascurata dagli Europei, impegnati nelle guerre contro la Francia repubblicana dapprima, in quelle napoleoniche poi.
I primi europei che si spinsero effettivamente nell'interno delle due isole furono, nei decenni successivi, alcuni missionari, sia protestanti che cattolici. La prima missione anglicana, fondata da Samuel Marsden, si insediò nel 1814; la prima missione cattolica, guidata da monsignor Pompallier, seguì nel 1838.
Probabilmente fu proprio la comparsa dei missionari francesi che spinse la Gran Bretagna a stringere i tempi dell'azione politica. Precedendo di poche settimane una analoga spedizione francese, la Gran Bretagna autorizzò nel 1839 la fondazione di una Compagnia della Nuova Zelanda  e, nel gennaio del 1840, il capitano Hobson giunse nell'Isola del Nord per affermare i diritti della corona britannica. Riuniti alcuni capi maori nella Baia delle Isole, questi, il 6 febbraio 1840, concluse con essi il famoso Trattato di Waitangi, col quale gli indigeni cedevano alla regina Vittoria i loro diritti di sovranità, in cambio del riconoscimento del possesso pieno ed intero delle terre tribali.
Senza por tempo in mezzo, poche settimane dopo, Hobson proclamava la sovranità britannica sulle due isole e poneva la capitale della colonia ad Auckland; in novembre il governo di Londra concedeva una Costituzione alla colonia neozelandese e, nel febbraio 1841, accordava una carta d'incorporazione alla Compagnia della Nuova Zelanda.
I Maori, frattanto, si erano resi conto che il Trattato di Waitangi non era un accordo diplomatico paritario e che apriva la strada a un continuo afflusso di coloni inglesi avidi di terre. Ora, secondo una clausola precisa del tratto medesimo, il diritto di prelazione era riconosciuto alla Corona inglese in caso di vendita delle terre maori; per i Maori, invece, tale diritto non era previsto. Anche la garanzia del possesso delle terre tribali tradizionali venne regolarmente disattesa (un po' come accadeva, negli stessi anni, agli indiani del Nord America, alle prese con l'espansione verso ovest dei coloni degli Stati Uniti). In tali condizioni, anche la garanzia che i Maori avrebbero goduto degli stessi diritti dei cittadini britannici rimaneva una concessione puramente formale, svuotata di ogni significato effettivo.
Popolo tradizionalmente guerriero, i Maori non si rassegnarono alla progressiva invasione delle loro terre e al sovvertimento della loro cultura e dei loro sistemi di vita e diedero inizio a una serie di insurrezioni antibritanniche e antimissionarie, curiosamente impastate di elementi religiosi sincretistici, largamente permeati da quello stesso credo cristiano che era stato loro insegnato e che costituiva uno degli aspetti della civiltà bianca da loro maggiormente aborriti.
La prima guerra maori scoppiò nel 1842 nell'Isola del Sud, ma si estese ben presto anche all'Isola del Nord e terminò solo nel 1846, soprattutto per merito delle capacitò di mediatore del governatore Grey, il quale da un lato concluse un accordo con la Compagnia della Nuova Zelanda, dall'altro riuscì a ristabilire rapporti amichevoli con la maggioranza dei capi tribali.(cfr. l'enciclopedia geografica «Il Milione» dell'Istituto Geografico De Agostini di Novara, edizione 1979, vol. 14, pp. 328-29).
Negli anni successivi, però, i rapporti fra indigeni e Inglesi tornarono a deteriorarsi, nonostante lo scioglimento della Compagnia, nel 1850,  e l'entrata in vigore di una nuova Costituzione, nel 1852, seguita, due anni dopo, dalla creazione di un governo autonomo, ma con l'esclusione dei rapporti con i Maori, che restava di competenza del governatore nominato da Londra.
Davanti all'afflusso continuo di nuovi coloni britannici e al trasferimento ad essi e alla Corona inglese di vastissime estensioni di terre, i Maori formarono una lega e nominarono un proprio re, preparandosi a difendere i loro diritti con le ami.
La scintilla che fece divampare il nuovo incendio  fu data dal tentativo del governo coloniale di acquistare con la forza il cosiddetto Waitara Block, nei pressi di Taranaki, sul quale il diritto del cedente era dubbio. Nel biennio 1861-62 gli Inglesi subirono alcune pesanti sconfitte e ciò indusse le autorità coloniali a porsi il problema di un trattamento più equo nei confronti dei nativi, tanto da indurle a varare una legge che vietava la vendita di terre da parte dei Maori, sulle quali questi ultimi  non potessero dimostrare diritti certi di proprietà. Inoltre, quattro deputati e due senatori maori vennero ammessi a far parte del Parlamento neozelandese.
Una seconda guerra maori scoppiò tuttavia nel 1863 e su di essa, nel 1865, si innestò un movimento religioso e guerriero denominato Hau-hau, che impresse al conflitto nuova intensità e valse a prolungarlo, con alterne vicende, fino al 1872.
Il primo profeta del movimento Hau-hau fu un certo Te-Ua, che gli diede una completa struttura teologica e morale e ne curò pure l'aspetto organizzativo e militare, essendo in esso inseparabili l'aspetto religioso da quello guerriero.
In seguito, quando la guerra raggiunse aspetti di asprezza estrema, dall'una come dall'altra parte (gli Inglesi giunsero a far scuoiare il cadavere di un capo maori, e i Maori giunsero a uccidere missionari cristiani e utilizzare i loro teschi, come pure quelli di alcuni ufficiali inglesi, quali oggetti rituali), Te-Ua abbandonò i suoi seguaci e passò agli Inglesi, nel 1866; ma il suo posto venne preso da diversi altri profeti che svolsero la funzione di capi religiosi e militari, animando la disperata resistenza delle tribù indigene.
L'ultimo di essi fu Kereopa il quale, tradito da un seguace e consegnato alle forze armate britanniche, venne processato e giustiziato nel 1872; con lui si spensero anche gli ultimi focolai della guerra, sebbene una certa inquietudine permanesse fra gli indigeni per altri vent'anni, sempre alimentata da culti religiosi di tipo sincretistico a sfondo millenaristico,  fino al 1892.

Una delle migliori ricostruzioni della guerra a sfondo religioso e salvifico condotta dai Maori sotto la guida di Te-Ua e dei suoi successori, è quella condotta dall'antropologo italiano Vittorio Lanternari, il quale l'ha studiata nel contesto dei numerosi movimenti religiosi a carattere antieuropeo, spesso sfociati in guerre di liberazione da parte dei popoli nativi che, soprattutto ne corso del XIX secolo, furono investito dal doppio trauma dell'espropriazione delle terre da parte dei colonizzatori bianchi e della distruzione delle loro culture e tradizioni religiose da parte dei missionari cristiani (per quanto questi ultimi fossero, sovente, bene intenzionati).
Tra questi movimenti religiosi di libertà, sfociati spesso in vere e proprie guerre d'indipendenza da parte dei popoli nativi, si colloca anche la vicenda del profeta paiute Wovoka nel West americano e della Ghost Dance o "Danza degli Spettri", all'inizio degli anni Novanta del XIX secolo, e della quale ci siamo già occupati in due appositi saggio (cfr. F. Lamendola, «I Paiute del Nevada alla vigilia della predicazione di Wovoka, il Messia indiano», e «La fine delle guerre indiane: un popolo in ginocchio», entrambi consultabili sul sito di Arianna Editrice).
La prospettiva di Lanternari (nato ad Ancona nel 1918, docente in varie università italiane e, con Ernsto De Martino ed Angelo Brelich, una delle maggiori figure di storico delle religioni nel nostro Paese) è di tipo razionalistico e materialistico. Egli descrive i culti dei nativi con scrupolosa esattezza; ma, quando passa a illustrare il fenomeno del sincretismo, dal suo modo di esprimersi traspare lo scetticismo dell'occidentale nella efficacia di quel mondo spirituale; e, marxisticamente, lascia trapelare l'idea che tali culti furono la risposta inadeguata, ancorché storicamente determinata, di una serie di culture "metafisiche" davanti alla concreta aggressione della civiltà europea, destinata alla sconfitta non solo dallo squilibrio tecnologico, ma anche dalle premesse culturali religiose, e quindi "mitiche", della rivolta indigena.
A parte ciò, si tratta della migliore ricostruzione della vicenda della guerra Hau-hau esistente oggi in lingua italiana, per cui riteniamo la si possa utilizzare con profitto per entrare nel vivo delle motivazioni soteriologiche dei guerrieri maori. Essi, infatti, non combattevano "semplicemente" per scacciare gli Inglesi dalle loro isole, ma aspettavano un evento molto più importante: la fine del mondo e l'arrivo del popolo ebreo, che essi avevano conosciuto attraverso i racconti della Bibbia e col quale ritenevano di avere una comune origine, tanto da essere destinati a vivere in pace e armonia con esso.
Di tutto quanto avevano insegnato loro i missionari circa le vicende degli Ebrei, da Mosé a Gesù Cristo, ciò che maggiormente aveva colpito i Maori, e che più si prestava ad essere rielaborato e utilizzato all'interno della loro prospettiva culturale e politica, era l'idea di un "popolo eletto" come destinato a liberarsi dall'oppressione con l'aiuto di Dio e ad affermare il proprio diritto a un'esistenza libera e prospera; popolo con il quale, evidentemente, tendevano a identificare se stressi e la loro presente situazione.
Anche in questo la dottrina di Te-Ua mostra delle sorprendenti affinità con la Ghost Dance del profeta indiano Wovoka (che, però, è di alcuni decenni successiva): anche Wovoka predicava la fine del mondo e l'avvento di una nuova terra e di un nuovo cielo, in cui i Wasichu (gli uomini bianchi) sarebbero spariti e gli indiani morti sarebbero risorti, dando inizio a un'era di eterna felicità.
Non una vera fine del mondo, dunque, ma piuttosto un suo radicale rinnovamento nel senso auspicato dai nativi, che si sentivano tremendamente minacciati dall'avanzata inarrestabile dei colonizzatori.

Scrive, dunque, l'antropologo Vittorio Lanternari nel suo pregevole (e ormai classico) libro «Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi» (Milano, Feltrinelli, 1960, 1977, pp. 239-247):

«…il culto "Hau-hau" (…), che trascinò i Maori alla guerra antimissionaria e antibritannica, fu carico di elementi giudaici, ed anzi contribuì a consolidare nei polinesiani il principio di una vera identificazione con l'antico popolo giudaico Nel culto "Hau-hau" dei maori il titolo di gran profeta e capo del movimento si indicava con il termine "Tiù", e "tiù" significa propriamente Giudeo". Il primo dei profeti "Hau-hau", Te-Ua, proclamò che i maori erano il nuovo popolo di Dio, la Nuova Zelanda la nuova Canaan, Geova il dio che parlava al suo popolo dalla punta del sacro palo "niu", così come Geova parlò a Mosé dalla montagna Il gran profeta era il nuovo Mosé; maori ed ebrei erano discendenti da un padre comune. Come era proibito al popolo ebraico comunicare con i "gentili", così il popolo maori aveva il dovere di rifiutare ogni contato con gli inglesi, i "pakeha", che avevano imposto il loro giogo sul nuovo popolo eletto così come l'antico Faraone sopra gli israeliti. Giorno verrà, annunziavano i profeti Hau-hau, nel quale tutti i "pakeha" (= bianchi) saranno cacciati dalla Nuova Zelanda: sarà la fine e il rinnovamento del mondo. In quel giorno risorgeranno i morti maori e tutti, viventi e risorti, daranno inizio a un'epoca nuova.  Quel giorno gli ebrei giungeranno nella Nuova Zelanda, e in fraterna concordia maori ed ebrei, come un sol popolo, inizieranno una vita felice.
Né si pensi che la supposta parentela ebraico-maori si esaurisca nel mito: al contrario essa trovò manifestazioni concrete e clamorose nell'azione politica. Quando nel 1865 si manifestò la più grave delle manifestazioni antimissionarie degli Hau-hau con il famoso eccidio di Volkner, avvenne un fatto singolare. Avendo gli Hau-hau catturato al completo l'equipaggio della goletta sulla quale viaggiava il ministro anglicano C. Silvio Volkner, ritenuto - a causa dei suoi rapporti con il governo britannico - "spia del governo", il Volkner stesso fu impiccato, i suoi compagni vennero imprigionati: uno soltanto fu immediatamente rimesso in libertà appena non fu nota l'identità: il capitano Levy. "Il Dio degli Hau-hau", si disse in quell'occasione dai guerrieri seguaci di quel culto - protegge i figli del popolo di Dio". E infatti, mentre i bianchi, anzi gli inglesi, venivano dichiarati  nemici, agli ebrei e solo agli ebrei veniva offerta ampia ospitalità.
È questa una delle reazioni più tipiche del contatto religioso e culturale euro-polinesiano. Quella dei maori rappresenta la forma più clamorosa di applicazione del principio di affinità e parentela culturale con il popolo ebraico. Mentre la convinzione che i maori, e in generale i polinesiani, sono una ramificazione delle tribù di Giuda veniva avvalorata dai culti profetici, essi trovava il suo principale  fondamento nella stessa storia politica e culturale della quale i polinesiani diventarono via via i protagonisti. Era la storia di popoli perseguitati, spogliati, razziati fai colonizzatori, così come Israele dal faraone di Egitto e dal re babilonese. La storia ebraica, impartita dai missionari come modello religioso, divenne loro malgrado, anzi ritorcendosi contro loro stessi, modello politico. È strano constatare come, inconsapevoli tributari di una ideologia del tutto contingente, mitica, dettata ai polinesiani dallo stesso urto culturale con l'Occidente, i padri missionari divenissero essi assertori, con pretese scientifiche, di una reale obiettiva quanto singolare parentela non solo culturale, ma addirittura antropologica, fra polinesiani ed ebrei. Significativa è al riguardo, come esempio della caratteristica confusione tra mito e scienza perpetrata dagli occidentali sulle orme inconsapevoli di un mito acculturativo locale, l'argomentazione del Rev. Thomas West, secondo il quale certe somiglianze somatiche giustificherebbero l'idea di una comunanza d'origine tra polinesiani ed ebrei.
Ma è necessario riandare più da vicino alle origini e allo sviluppo del movimento Hau-hau, o "Pai-marire".
Il vero nome assunto dagli adepti della seta e dato ad essa dal fondatore Te-Ua è "Pai-marire", cioè "buono e misericordioso". "Rongo-pai-marire" è la "Buona Novella di Pace" che il fondatore annunciava già nel 1826, nel più antico documento "Hau-hau". In tale denominazione, Te-Ua aveva voluto sancire il carattere intenzionalmente pacifico della sua religione, che tuttavia inevitabilmente tralignò nella violenza, nella crudeltà, nella guerra.
"Hau-hau" è invece il nome dato dai bianchi alla setta e ai suoi adepti  perché tale era l'espressione ricorrente con cui terminavano i loro canti.
Il culto Hau-hau costituisce il più fulgido e significativo esempio di culto profetico polinesiano, scritto a lettere di sangue dall'indomita setta messianica. Guerra e sincretismo teologico biblico-polinesiano ne sono i temi fondamentali: gli stessi temi individuati già come i preminenti nel complesso profetico polinesiano.
Uno dei più atroci episodi delle guerre coloniali britanniche fu quello che insanguinò l'Isola Settentrionale e della Nuova Zelanda nel decennio 1860-70. Ma il culto Hau-hau, che a questa guerra congenitamente si riconnette, sorse nel 1865: i primi quattro anni furono d'incubazione.
La politica del governo coloniale della Nuova Zelanda si era venuta asservendo in modo sempre più esplicito alla sete d terre dei coloni bianchi, finché nel 1860 i maori si dovettero convincere definitivamente che i propri diritti di possedere e vendere liberamente le loro terre ai bianchi, diritti già riconosciuti in passato con precisi trattati dal governo, erano calpestati dagli inglesi, i quali d fatto intendevano impadronirsi di tutte le terre maori in spregio ai trattati. Ecco con quali parole padre Felice Vaggioli, uno storico italiano della Nuova Zelanda, riassume la situazione al sorgere della lotta: "Nel 1860 i maori si dovettero convincere che il governo coloniale, schieratosi contro di loro, faceva valere le sue ingiuste pretese con la bocca dei cannoni ed era deciso  a sottometterli oppure a schiacciarli. A questa inaspettata rivelazione i maori concepirono un odio mortale contro gli inglesi e presero le armi  in propria difesa. Dopo quattro anni di fiera lotta furono scacciati con la forza dalle loro pacifiche dimore, videro… dati alle fiamme i loro villaggi, le fortezze, le capanne ed ogni altro avere e loro mezzo di sussistenza, videro le sacrileghe profanazioni dei loro cimiteri, videro molti dei loro morire di fame, di freddo e di stenti, e tutti ridotti nella più squallida miseria…; videro che le milizie non avevano né religione né coscienza né buon costume. Erano quarant'anni - prosegue lo storico cattolico - che i maestri di religione protestante andavano loro dicendo che il protestantesimo era la sola religione dell'amore, che tutti coloro che la professavano erano rispettati e riveriti,… che abbracciando il protestantesimo rimarrebbero sempre intatti, e i loro diritti inviolati; che avrebbero partecipato largamente alla prosperità e alle ricchezze.
I maori, datisi già in maggioranza - almeno di nome - alla religione cristiana, la ripudiarono nel 1864  drasticamente e prepararono la grande riscossa contro le forze inglesi e i missionari britannici. Nasceva nell'aprile 1864 il culto Hau-hau. La prima azione della sete fu eseguita quando i soldati britannici, guidati dal Cap. Lloyd, invasero un campo di mais degli aborigeni intorno a Taranaki. Gli insorti furono sopra agli inglesi, parte ne uccisero, parte ne mistero in fuga. L'azione militare degli "Hau-hau" contro gli inglesi a Taranaki non fu intrapresa senza una sua motivazione religiosa. Un mese prima (marzo 1864) un grande capo maori, caduto sotto i colpi degli inglesi, era stato da costoro mutilato per strappargli la pelle che presentava doviziosi e pregevoli tatuaggi ornamentali.  La pelle tatuata, tolta dal cadavere del capo maori, fu conservata dal medico che compì l'operazione. Nella tradizione religiosa maori era norma che l'offesa o la mutilazione recata a un grande capo richiedesse la vendetta di sangue ("utu").
Così questa fu l'occasione della prima azione antinglese. Recise le teste ai caduti, i "ribelli" ne asportarono i teschi e ne fecero trofei d'uso rituale e vaticinatorio. La testa del Cap. Lloyd, portata di tribù in tribù, sarebbe stata da ora innanzi simbolo dell'unione tra Dio e la seta Hau-hau. I profeti ne avrebbero tratto ispirazione.
Era posto in tal modo con estrema chiarezza il programma di un integrale ritorno agli usi pagani nella sfera religiosa. Si prescriveva il ripristino della teologia maori, del tapu (tabu) e delle cerimonie antiche. Fondatore del movimento fu Te-Ua, già sacerdote (tohunga) della religione maori, indi passato all'Anglicanesimo e ora presentatosi al suo posto come portatore di rivelazioni celesti dall'arcangelo Gabriele, guaritore-taumaturgo, profeta della liberazione della stirpe maori.  I riti della nuova religione svolgevansi intorno a un sacro palo ("niu"), il quale fungeva da centro per adunanze, da simbolo divino, da strumento di comunicazione con Dio.
Danze sacre e canti-formule ("karakia", "waiata") venivano eseguiti su testi insegnati dal fondatore, composti per gran parte in una lingua inintelligibile e assurda, che pretendendo a su modo di imitare le più svariate lingue colte straniere (inglese, ebraico, tedesco, greco, italiano), contribuiva, insieme con vari altri elementi, a portare psicologicamente i seguaci nel corso del rito in un'atmosfera emozionale, e ridurli a uno stato di possessione collettiva. La tecnica del canto era quella tradizionale dei maori, a voci alterne di assolo (il sacerdote) e coro.
La cerimonia "niu" (dal nome del palo) aveva luogo ogni mattina ("canto del mattino") e più generalmente ogni dì, attorno al palo sacro, ed era volta a suo modo al conseguimento dell'estasi.  Sotto i tre ampi e lunghi vessilli sventolanti dal palo, ornati di bianche croci - imitazione sacrale delle bandiere di guerra degli accampamenti militari britannici, con in più la croce dei missionari, - il gruppo dei fedeli, uomini e donne dava inizio a una ritmica danza in cerchio, accompagnata dal canto, levando alte le braccia al cielo. Dalla cima del palo divino si pensava scendesse ispirazione, fede e vigore sugli adepti-guerrieri. Particolare efficacia si attribuiva in tal senso ai vessilli, quando da essi ci si faceva sfiorare a ogni giro il capo e il dorso: in tal modo il guerriero riceveva corporalmente la virtù emanante da Geova. Vero è che insieme alo spirito-vento ("hau") di Geova , il palo "niu" rappresentava sincretisticamente altri enti divini di derivazione pagana, cioè Riki e Ruru. Il primo era dio della guerra, Ruri era la divinità tutelare ("atua") del fondatore Te-Ua, per lui divenuto figura dei Vangeli. Entrambi erano raffigurati in minuscole effigi sull'alto dei pennoni. La marcia circolare dei fedeli procedeva insistente, con ritmo crescente e frenetico fino al parossismo. Molti erano coloro che, dopo oltre un'ora di tale orgiastica corsa, crollavano al suolo storditi dalle vertigini, o sbandavano caoticamente fuori dal cerchio.
La stessa cerimonia si ripeteva per l'iniziazione ("pooti") con cui si consacravano i nuovi proseliti. Hau-hau. Ma si si aggiungevano altre tecniche estatiche. Il novizio doveva sedere accanto al palo, fissando intensamente lo sguardo alla cima, in una posizione che richiedeva prolungata tensione fisica e psichica. Per effetto di tale sforzo, del calore del sole, del continuo girargli intorno degli uomini, e del canto corale, era facile che il candidato entrasse in uno stato di semipnosi.  Sollevato a braccia dagli assistenti, egli veniva lanciato in aria più e più volte, fino a perdere quasi coscienza. Tornato in sé, il novizio era risospinto nel turbine della marcia.
Il rituale iniziatico, come anche i riti quotidiani del culto Hau-hau., hanno carattere mistico e sono volti, in vario modo, a ottenere nei proseliti effetti psicologici tanto sconcertanti da paralizzare i centri della ragione.
Il movimento Hau-hau si diffuse in breve in ogni tribù maori dell'isola settentrionale.
Fu accettato il none di Geova per il dio supremo, che restò in effetti legato alla concezione pagana di "atua" o dio, proprio della religione maori, seppure rielaborato da alcuni elementi biblici. In realtà, i maori avevano avuto fin nell'originario corredo culturale una grande figura di creatore, tane o piuttosto - secondo certe scuole sacerdotali - Io. Tane aveva creato il primo uomo (Tiki), aveva assegnato alle stelle ed al sole il loro posto e le loro orbite in cielo; aveva modellato la prima donna con della creta infondendole indi il respiro. Alcune scuole sacerdotali credevano invece in Io, autore di tutte le cose (Tane era nato a sua volta dalle nozze di papa, la Terra, con Rangi, il Cielo), V''erano comunque abbondanti motivi affini o comuni nella cosmologia e nella teogonia maori e biblica, per consentire un agevole assorbimento di altri temi imparentati con quelli.
Geova entrava nella religione maori con la sua natura celeste, per cui l'ispirazione scende ai novizie ai fedeli dalla cima del palo, e con la sua tempra guerriera, ond'egli è protettore degli eserciti Hau-hau contro i "pakeha". Con Geova entravano nel culto Hau-hau alcuni tratti esteriori biblico-cristiani; la croce fu assunta come simbolo di una stirpe "crocifissa" ed "oppressa", il bagno purificatorio rituale analogo al battesimo cristiano fu adottato per consacrare i guerrieri avanti a una spedizione bellica. Con un piede immerso nel fiume, la persona veniva aspersa dal sacerdote. Del resto la squadra di guerrieri era detta la squadra de "I Dodici". ("Tekua-marua"), qualunque fosse il numero effettivo dei componenti, in ottemperanza alla sacralità biblica del numero dodici, per cui dodici furono gi Apostoli, dodici i figli di Giacobbe, ecc. In vista di ciò i primi dodici componenti  della squadra erano scelti secondo un rito divinatorio, consacrati solennemente e ritenuti gli esponenti più valorosi e protetti da Dio.
Come è evidente da molti fattori, il culto Hau-hau è un culto fondamentalmente guerriero. Il credente hau-hau era investito di un compito sacro, quello di lottare a morte contro i pakeha. La summenzionata cerimonia "niu", marcia rituale attorno al palo sacro, non si comprende a nostro avviso se non come forma sacralizzata e simbolica di marcia guerresca attraverso le cui prove mistiche i fedeli rinforzano la loro cieca fede nella vittoria contro i pakeha.  Il fatto è che gli Hau-hau, attraverso la reiterazione frequente dei riti, si portano al di fuori della storia, sul piano religioso della mitopoiesi.
Non per nulla quando il profeta Te-Ua seppe che i suoi seguaci erano rimasti sconfitti contro una ridotta britannica di Taranaki, ove una cinquantina di uomini compreso il capo Hepanaia erano valorosamente caduti, egli assicurò, e i seguaci restarono convinti, che i morti non avevano avuto quella fede assoluta nell'efficacia dei riti, che si rendeva indispensabile.
La cerimonia "niu" era dunque una simbolica cerimonia di guerra. Non lo indica solamente la marcia attorno ai vessilli: lo mostra il gesto rituale dei fedeli che levano le braccia al cielo, e pronunziano la formula magico-religiosa che prelude alla battaglia: "Hapa, hapa - essi dicono -; Pai-marire, hau-hau"; cioè: "Che passino oltre (i proiettili nemici), buono e misericordioso (Dio)!". L'invocazione insomma è rivolta allo spirito divino (hau) affinché protegga i guerrieri dalle pallottole inglesi.
Alzare al cielo le mani, gridare la formula "Hapa hapa…" è ciò che fanno per l'appunto gli Hau-hau avanti ad ogni battaglia.
Tanto era compenetrato di religione il loro spirito bellico: a tal punto la guerra per essi era ancorata alla fede, che la vittoria poteva adempiersi sul piano metastorico ed essere insieme apparentemente (per essi, realmente per noi) contraddetta dai fatti., Un episodio significativo  mostra quanto ciò fosse vero.
Sconfitto il suo gruppo, un guerriero superstite s'avvia solitario verso i nemici  sul luogo ove è impiantato il sacro palo "niu". Quivi egli dà inizio, da solo, al rito consueto girando attorno all'emblematica pertica, cantando inni e formule sacre. Catturato, è condotto davanti al plotone d'esecuzione. "Sono tornato tra voi, egli grida allora agli inglesi, affinché voi siate mutati in sassi!". Dandosi deliberatamente al nemico, egli è misticamente convinto di adempiere in piena realtà la desiderata vittoria, con l'annullamento dei bianchi. Quando il comandante britannico ordina il: "Fuoco!" al suo grido si unisce il grido trionfante del soldato maori: "Hau-hau, pai-marire!".
Il martirio di questo e di tanti altri seguaci hau-hau esprime, oltre e più che il valore militare, la visione religiosa del mondo entro la quale essi agivano e, all'occasione, davano la vita.
Era, la loro, una visione del mondo strettamente ancorata alle forme religiose pagane, sebbene  rivestite di aspetti cristiani o piuttosto ebraici. Tuttavia è nuovo per la religione maori il tema essenziale del culto Hau-hau: il tema dell'attesa fine del mondo con il rinnovamento totale della vita.  Ma la fine del mondo è in realtà un mito di liberazione dal giogo dei bianchi.  Non sarà una vera fine come nelle scritture bibliche: sarà né più né meno che la cacciata degli inglesi dalla Nuova Zelanda. I morti altresì risorgeranno. Te-Ua, il gran sacerdote-messia, si manifesterà nella sua piena potenza, novello Mosé e insieme novello Cristo rielaborato in funzione antieuropea. La palingenesi biblico-cristiana già predicata ai maori, perdendo il valore metafisico, teologico e morale che gli è proprio, si è concretizzata in una redenzione politico-culturale strettamente aderente ad ineliminabili, elementari esigenze di esistenza del gruppo. In siffatta trasformazione si ravvisa il potere d'innovazione proprio di una vecchia cultura pagana altamente integrata nei suoi elementi costituitivi, di fronte al tentativo d'immettere in essa d'autorità elementi religiosi estranei e in gran parte inassimilabili. Anzi la religione cristiana e con essa i suoi rappresentanti missionari, assunsero su di sé, da parte dei maori hau-hau, la stessa odiosità che essi riversavano su ogni forma di civiltà colonialista.  Pertanto l'aspetto anticristiano s venne a confondere nella viva lotta combattuta dai seguaci Hau-hau, con l'aspetto antibritannico. In questo quadro s'inserisce pure il "massacro di Wakatane", con l'eccidio del giovane anglicano Fulloon e dei suoi compagni avvenuto nel 1865. Costui era "emissario del governo britannico, pianificatore della distruzione della stirpe maori". Da parte inglese si stava compiendo contro gli Hau-hau una vera caccia all'uomo, tentando con l'insidia di catturare i profeti del movimento, costringendo con aspri attacchi armati i gruppi "ribelli" a rintanarsi nelle selve: ma questi, battuti e scacciati, tornavano instancabilmente alla carica. Al profeta Te-ua passato per paura agli inglesi, successe Taikomako, a questo Te-Kooti (…) e Rua-Kenana, indi venne Kereopa. Contro la forza e l'insidia di una parte - gli inglesi misero inutilmente una taglia sul capo di Te Kooti - rispondeva l'altra con la pertinacia, il coraggio e l'astuzia. Kereopa finalmente, tradito da un seguace, veniva catturato e giustiziato nel 1872; la guerra finì. Ma il movimento di liberazione maori trovò anche poi un nuovo esponente nel profeta Te-Whiti. Nel suo culto mistico si continuava a rivendicare la indipendenza e la libertà di fronte agli inglesi; il culto perdurò fin oltre il 1892; il profeta venne più volte arrestato e rilasciato.»

Come si sarà notato e come già abbiamo avuto occasione di evidenziare, è praticamente impossibile separare, nella guerra degli Hau-hau, l'aspetto religioso da quello politico. Ciò, del resto, può riuscire strano solo a un pubblico occidentale che non abbia alcuna dimestichezza con le culture native: perché, presso tutte le culture tradizionali, tale distinzione è di fatto assente, non solo nella sfera dei rapporti - più o meno pacifici, più o meno bellicosi - con i popoli vicini, ma in ogni e qualsiasi aspetto della vita materiale e spirituale.
Del resto, non fu proprio questa ignoranza che svolse un ruolo decisivo nello scatenare la guerra dell'esercito americano contro i Cheyenne e i Sioux, culminata nel famoso episodio della stage del 7° Cavalleria di George A. Custer al Little Big Horn, nel 1876: ossia l'ignoranza, da parte dei bianchi, che le Black Hills (nelle quali erano stati scoperti dei ricchi giacimenti auriferi) erano sacre per gli Indiani e, quindi, costituivano un patrimonio assolutamente irrinunciabile e non negoziabile della loro cultura?
Dello stesso parere, circa l'inseparabilità dell'aspetto religioso da quello politico-militare nel movimento Hau-hau, è l'antropologa Paula Clifford nel suo libro «Breve storia della fine del mondo» (titolo originale: «A Brief History of End-time», Lion Publishing, 1997; traduzione italiana di Erbetro Petoia, Roma, Newton & Compton Editori, 1999, p. 186):

«Nel movimento degli Hau-hau, e in altri simili, è praticamente difficile distinguere tra religione e politica, poiché la salvezza è equiparata alla rivendicazione della terra e del potere per le popolazioni indigene. Tali movimenti sono per loro stessa natura militaristici, e le conseguenze per i Maori furono anni di spargimento di sangue.
In questo contesto la fine del mondo assume un significato molto particolare: la vittoria sull'oppressore. Gli Hau-hau credevano che la scacciata degli Inglesi dalla Nuova Zelanda avrebbe portato il tempo presente a una fine e inaugurato il millennio. La tradizione cristiana viene tradotta in termini accettabili per i nativi, e in questo caso si giunse a credere che, una volta andati via gli Inglesi, i morti dei Maori sarebbero resuscitati in un'atmosfera di pace millenaria, con  Te-Ua nelle vesti di Mosé o di Cristo. Stranamente, gli Ebrei avrebbero dovuto riunirsi in Nuova Zelanda, ove avrebbero formato  un'unica popolazione con i Maori in una nuova vita»