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Gaza. Controinformazione e Resistenza

di redazionale - 14/01/2009

 

– eventi, commenti, analisi dal / sul Campo di concentramento e di sterminio di Gaza (23 dicembre 2008 - 10 gennaio 2009) –

 



 


Se Auschwitz, al pari di Hiroshima, è stato il simbolo degli orrori del XX° secolo, Gaza vanta con Falluja (Iraq) ottime credenziali per assurgere ad emblema delle atrocità del XXI°. Nella «prigione a cielo aperto» di Gaza (28, 30 dicembre, 4, 6, 7 gennaio), ad una situazione già drammatica a causa del "blocco" –che ha ulteriormente inasprito l’occupazione israeliana, nodo di fondo insoluto della questione palestinese (28, 30 dicembre, 3, 8 gennaio)– si sono aggiunti i bombardamenti. Questo è parte di un piano secondo alcuni ideato da tempo (6, 8 gennaio) per sottomettere una volta per tutte la popolazione locale (8 gennaio) se non addirittura promuovere l’ennesima "pulizia etnica", il fondamento dello Stato d’Israele (23 dicembre) che, al di là dei ritriti slogan sul "processo di pace" (30 dicembre), mira solo a ripulire dagli arabi la terra di Palestina per "riunire" l’inesistente "popolo ebraico" (24, 26 dicembre). I bombardamenti israeliani, «illegali» e «crimini contro l’umanità» anche per l’ONU (27 dicembre, 9 gennaio), stanno causando una carneficina di donne, vecchi e bambini, oltre alla distruzione di campi profughi, infrastrutture sanitarie, scuole, moschee, palazzi interi (28, 30, 31 dicembre, 2, 3, 7 e 8 gennaio). Dal fosforo bianco ai nuovi ordigni "Dense inert metal explosive" (5, 7, 8 e 9 gennaio), Israele non risparmia l’uso di armi proibite dalle convenzioni internazionali e dagli effetti terrificanti. Ma tutto è permesso all’"unica democrazia del Medio Oriente", unica davvero in tema di menzogne (29 dicembre, 4 gennaio)! Impunità garantita, grazie al sostegno degli USA (10 gennaio) e alla condiscendenza del cosiddetto "Occidente", tra cui non mancano di distinguersi, per servilismo, il governo Berlusconi ed i mass media di casa nostra. Si ha un’idea delle morti, delle mutilazioni e delle distruzioni provocati quotidianamente dai bombardamenti? Si dia un’occhiata a questo video ed a quelli collegati, veri e propri documentari dalla Striscia:

 

http://www.youtube.com/watch?v=d5KyhllGXiE&feature=related.

 

Tutto questo non dice ancora tutto di quel che sta avvenendo a Gaza. Ci sono una popolazione ed una resistenza che si mostrano indomite all’aggressione e nient'affatto disposte a piegarsi. Soprattutto in questi tremendi giorni Gaza rappresenta il Davide provvisto di pochi mezzi che eroicamente fronteggia il vile Golia sionista, tanto spietato e vigliacco nel massacrare dall’alto civili inermi (1 gennaio) quanto in difficoltà nel fronteggiare gli scontri corpo a corpo sul terreno di battaglia (2, 10 gennaio). Gaza incarna oggi i valori universali ed eterni della solidarietà e della resistenza popolare, assurge a simbolo della lotta per la tutela della propria libertà e dignità e per una vita degna di essere vissuta, lotta che approverebbe persino il "non violento" Mahatma Gandhi (26 dicembre). Le autorità isareliane pensavano che, massacrando con i bombardamenti, sarebbero riusciti a vincere nel più breve tempo possibile (30 dicembre). La loro cieca furia assassina sta producendo invece un rafforzamento della resistenza palestinese (2, 3 gennaio), oggi incarnata dal movimento «apparentemente religioso» (1 gennaio) di Hamas, che proprio grazie ai bombardamenti sta incrementando la propria popolarità a Gaza ed in Cisgiordania (30, 31 dicembre, 2, 9 gennaio) oltre che nel mondo arabo (29 dicembre, 3, 8, 9 gennaio). Il leader della comunita israelitica italiana, Riccardo Pacifici "agente" del governo israeliano, organizza iniziative per cercarre di migliorarne la sua immagine criminale (4 gennaio).

 

  • 23 dicembre. «La pulizia etnica continua e Israele vuol farvela accettare». Precisamente un anno fa veniva in Italia il prestigioso "nuovo storico" israeliano Ilan Pappe per partecipare ad una conferenza sulla Palestina. Nato nel '54 in Israele da ebrei tedeschi fuggiti dalla Germania negli anni '30, ha pubblicato libri importanti per mistificare i miti del sionismo, ultimo The ethnic cleansing of Palestine ("La pulizia etnica della Palestina", Fazi editore, 2008), che si incentra sulle deportazioni e le espulsioni coatte dei palestinesi nel 1948, quando circa 400 villaggi vennero dai sionisti spopolati, cancellati e distrutti nei successivi cinque anni. Dopo aver insegnato ad Haifa, Pappe è stato costretto a trasferirsi in Gran Bretagna, dove insegna presso l’Università di Exeter. Intervistato da il Manifesto, Pappe spiega le cause dell’espulsione dei palestinesi nel '47-'48 con il problema demografico dello Stato sionista: «l’esistenza di 600.000 ebrei contro un milione di palestinesi. Prima che gli arabi, nel febbraio del '48, decidessero di opporsi militarmente, gli israeliani avevano già sloggiato più di 300.000 autoctoni».

  • 23 dicembre. Israele è dunque, nelle parole dello storico Pappe, uno Stato fondato sulla pulizia etnica dei palestinesi. «Quando nacque lo Stato, nessuno gli rimproverò la pulizia etnica su cui si era fondato, un crimine contro l’umanità (…). Da quel momento, la pulizia etnica divenne un'ideologia, un paramento infrastrutturale dello Stato. Discorso tuttora valido, perché il primo obiettivo resta demografico: ottenere la maggior quantità di territorio con il minor numero di arabi». Una politica che è continuata negli anni seguenti. «Durante la Guerra del 1967, 300mila palestinesi furono espulsi dalla Cisgiordania; in questi ultimi sette anni la pulizia etnica è diventata la "costruzione del muro" che respinge i palestinesi verso il deserto, al di fuori dell'area assegnata della Grande Gerusalemme. Il problema è che i dirigenti israeliani concepiscono il proprio Stato in termini etnici, razziali e dunque sono razzisti a tutti gli effetti (…) Il cosiddetto "processo di pace" si riduce a quale parte della Palestina debba essere nuovamente annessa a Israele e quale eventualmente, piccolissima, possa essere data alla popolazione palestinese».

  • 23 dicembre. Secondo Pappe, occorre cambiare questo stato di cose a partire dal linguaggio. «Non si tratta di uno scontro tra ebrei e palestinesi. È colonialismo. Ed è incredibile che nel XXI° secolo possa ancora essere accettata una politica coloniale. Bisogna imporre a Israele le stesse misure impiegate contro lo Stato razzista del Sudafrica, negli anni '60 e '70. Oggi esistono movimenti di opinione di giovani ebrei, in Europa e negli USA, che denunciano la politica colonialista e criticano Israele in quanto Stato colonialista e razzista, non in quanto Stato fondato da ebrei». Inoltre, «la legislazione francese e di altri paesi europei pone restrizioni al diritto di esprimere opinioni "revisioniste" verso Israele ma non prende posizione per la disapplicazione sistematica delle Risoluzioni ONU», come quella 194 che stabilisce il diritto al ritorno nella loro terra dei profughi palestinesi.<

 

  • 24 dicembre. Il "popolo ebraico"? Non esiste. Lo argomenta l’israeliano Shlomo Sand, professore di storia all’Università di Tel Aviv, nato a Linz (Austria) nel 1946 da ebrei polacchi sopravvissuti alle persecuzioni naziste. Shlomo Sand, autore di diversi articoli sulla questione e del libro "Quando e come fu inventato il popolo ebraico" (pubblicato di recente in ebraico dalla casa editrice Resling –per 19 settimane il libro più venduto in Israele– ed in francese dalla casa editrice Fayard), è fautore dell’idea di una Palestina come "Stato di tutti i suoi cittadini" –ebrei, arabi ed altri. Di seguito riproponiamo parti dell’articolo "Come fu inventato il popolo ebraico", pubblicato su Le Monde Diplomatique (settembre 2008). «Ogni israeliano sa che il popolo ebraico esiste da quando ha ricevuto la Torah (Testo fondatore del giudaismo, comprende i primi cinque libri della Bibbia: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio, ndr) nel Sinai, e che ne è il discendente diretto ed esclusivo. È convinto che questo popolo, espulso dall'Egitto, si è insediato nella "terra promessa", dove fu edificato il glorioso regno di Davide e di Salomone, suddiviso in seguito nei regni di Giuda e di Israele, e che gli ebrei sono stati esiliati due volte: dopo la distruzione del primo tempio, nel VI secolo prima di Cristo, e, in seguito a quella del secondo tempio, nell'anno 70 dopo Cristo. Seguì poi una peregrinazione di quasi due mila anni: anche se le sue tribolazioni lo portarono nello Yemen, in Marocco, in Spagna, in Germania, in Polonia e perfino nella profonda Russia, il popolo ebraico è sempre riuscito a preservare i legami di sangue tra le lontane comunità, in modo tale che la sua unicità non ha subito alterazioni». Nell’"educazione nazionale" in Israele, la Bibbia è dunque assimilabile ad un libro di storia. «I primi storici ebrei moderni, come Isaak Markus Jost o Leopold Zunz, nella prima metà del XIX secolo, non la percepivano come tale: ai loro occhi, l'Antico Testamento si presentava come un libro di teologia costitutivo delle comunità religiose ebraiche dopo la distruzione del primo tempio. Si è dovuto aspettare la seconda metà di questo stesso secolo per incontrare storici, in primo luogo Heinrich Graetz, portatori di una visione "nazionale" della Bibbia: essi hanno trasformato la partenza di Abramo per Canaan, l'espulsione dall'Egitto oppure il regno unificato di Davide e Salomone in racconti di un passato autenticamente "nazionale"».

  • 24 dicembre. Secondo Sand, tutta questa storia, mito fondatore di una presunta "nazione eterna" da riunire fionalmente sulla terra degli antenati, è infatti semplicemente falsa. Negli anni '80 le scoperte della "nuova archeologia" «contraddicono la possibilità di un grande esodo nel XIII secolo prima della nostra era. E Mosè non ha potuto condurre gli ebrei fuori dall'Egitto verso la "terra promessa" per la semplice ragione che, in quel tempo, la terra promessa era in mano agli egiziani. Del resto non si trova traccia di una rivolta di schiavi nell'impero dei faraoni, né di una veloce conquista del paese di Canaan ad opera di un elemento straniero. Né esiste segno o ricordo dello sfarzoso regno di Davide e di Salomone». Le scoperte del decennio scorso attestano l’esistenza, in quel tempo, di due piccoli regni: «Israele, il più potente, e Giuda, la futura Giudea. Neanche gli abitanti della Giudea subirono un esilio nel VI secolo a.C.: solo le sue élite politiche e intellettuali dovettero insediarsi a Babilonia. Da questo incontro decisivo con i culti persiani sarebbe nato il monoteismo ebraico». E l’esilio dell'anno 70 d.C., da cui trae origine la famosa diaspora? «I romani non hanno mai esiliato alcun popolo in tutta la sponda orientale del Mediterraneo. Ad eccezione dei prigionieri ridotti in schiavitù, gli abitanti della Giudea continuarono a vivere sulle loro terre, persino dopo la distruzione del secondo tempio. Parte di essi si convertirono al cristianesimo nel IV secolo, mentre la grande maggioranza aderì all'islam nel corso della conquista araba del VII secolo. Quasi tutti gli intellettuali sionisti lo sapevano perfettamente: Yitzhak Ben Zvi, il futuro presidente dello Stato di Israele, così come Ben Gourion, fondatore dello Stato, lo hanno scritto fino al 1929, anno della grande rivolta palestinese. Entrambi menzionano a più riprese il fatto che i contadini della Palestina sono i discendenti degli abitanti dell'antica Giudea (Cfr. David Ben Gourion e Yitzhak Ben Svi, Eretz Israël dans le passé et dans le présent –1918, in yiddish–, Gerusalemme, 1980 –in ebraico– e Ben Zvi, Notre population dans le pays –in ebraico–, Varsavia, Comité exécutif de l'Union de la jeunesse e Fonds national juif, 1929)».

  • 24 dicembre. Se la maggioranza degli ebrei non fu esiliata, come si spiega il loro insediamento in svariati paesi? Sand lo spiega principalmente con il fatto che il giudaismo fu la prima religione a mirare al proselitismo, a cercare di convertire persone di altre fedi. Gli ebrei hanno da sempre formato in varie regioni del mondo comunità religiose. Essi non rappresentano quindi un "ethnos" portatore di un’origine unica che avrebbe errato per il mondo per venti lunghi secoli. «Nel primo secolo d.C. apparve, nell'odierno Kurdistan, il regno ebraico di Adiabene, che non sarebbe stato l’ultimo regno a "giudaizzarsi": altri avrebbero seguito la stessa strada. Gli scritti di Giuseppe Flavio non sono l'unica testimonianza dell'ardore degli ebrei in materia di proselitismo. Da Orazio a Seneca, da Giovenale a Tacito, molti scrittori latini esprimono questo timore (...) La vittoria della religione di Gesù, all'inizio del IV secolo, pur senza porre termine all'espansione del giudaismo, lo respinge ai margini del mondo culturale cristiano. Nel V secolo, sul territorio dell'attuale Yemen, sorge un potente regno ebraico, chiamato Himyar, i cui discendenti conserveranno la loro fede dopo la vittoria dell'islam e fino ai tempi moderni (…) Berberi giudaizzati parteciperanno alla conquista della penisola iberica e saranno all'origine della simbiosi particolare tra ebrei e musulmani, caratteristica della cultura ispano-araba».

  • 24 dicembre. Sand si sofferma pure sulla diffusione della cultura e della lingua yiddish, parlata dagli ebrei dell'Europa orientale. Questa trae origine dalla più grande conversione all’ebraismo, storicamente verificatasi «tra il mar Nero e il mar Caspio: essa riguarda l'immenso regno khazaki, nell'VIII secolo. L'espansione del giudaismo, dal Caucaso all'attuale Ucraina, genera numerose comunità che le invasioni mongole del XIII secolo respingono in massa verso l'est europeo. È in questi luoghi che, assieme con gli ebrei venuti dalle regioni slave del sud e dagli odierni territori tedeschi, esse porranno le basi della grande cultura yiddish». Vicende rimosse dai dipartimenti di "storia del popolo ebraico", in Israele separati da quelli di "storia generale". «I conquistatori della città di Davide, nel 1967, dovevano essere i diretti discendenti del suo mitico regno e non –che Dio non voglia!– gli eredi di guerrieri berberi o di cavalieri khazaki. Gli ebrei figurano quindi come un "ethnos" specifico che, dopo duemila anni di esilio e di erranza, ritorna infine a Gerusalemme, la sua capitale». I sostenitori di questo mito chiamano in causa anche la biologia. «Dagli anni '70, in Israele, una serie di ricerche scientifiche tenta di provare, con ogni mezzo, la prossimità genetica degli ebrei del mondo intero (…) in una ricerca sfrenata dell’unicità di origine del "popolo eletto"». L’idea di "popolo eletto", secondo Sand, «conduce a una definizione essenzialista ed etnocentrista del giudaismo, alimentando una segregazione che separa gli ebrei dai non-ebrei-arabi come gli immigranti russi o i lavoratori immigrati (…) Quasi un quarto dei cittadini non è considerato ebreo e, secondo lo spirito delle sue leggi, questo Stato non è il loro. In compenso, Israele si presenta sempre come lo Stato degli ebrei del mondo intero, anche se non si tratta più di profughi perseguitati, ma di cittadini dotati di pieni diritti nei propri paesi di residenza».



Mappa dell’Impero Khazaro nel X° secolo. Si trattava di un impero multinazionale, il cui collante era la religione ebraica, composto da: alani, turcomani, goti, vandali, greci, slavi, avari, bulgari, unni, sarmati, sciti. L’impero finì tra il 1200 e il 1330 d.C. sotto la spinta dell’Orda d’Oro mongola di Gengis Khan. Una massa di ebrei khazari si rovesciò allora verso occidente, verso l’Ucraina, la Polonia, la Russia, e poi verso la Bulgaria, Ungheria, Austria, Prussia e Paesi Baltici.

  • 26 dicembre. C’è chi "a sinistra" invoca la discesa di un nuovo Gandhi in Palestina per risolvere il conflitto. A parte che un Gandhi palestinese c’era –Moubarak Awad, fondatore di un centro studi a Gerusalemme nel 1985 per promuovere forme di resistenza basata sulla "non violenza" ed espulso dagli israeliani dai Territori nel 1988–, quale sarebbe stato il pensiero del Mahatma in carne ed ossa sulla questione? Leggiamo cosa scrisse sulla Palestina (Harijan, 26 gennaio 1948): «Ho ricevuto numerose lettere in cui mi si chiede di esprimere il mio parere sulla controversia tra arabi ed ebrei in Palestina e sulla persecuzione degli ebrei in Germania (…) L’analogia tra il trattamento riservato agli ebrei dai cristiani e quello riservato agli intoccabili dagli indù è molto stretta (...) Ma la simpatia che nutro per gli ebrei non mi chiude gli occhi alla giustizia. La rivendicazione degli ebrei di un territorio nazionale non mi pare giusta. A sostegno di tale rivendicazione viene invocata la Bibbia e la tenacia con cui gli ebrei hanno sempre agognato il ritorno in Palestina».

  • 26 dicembre. Rivendicazione infondata per Gandhi. «La Palestina appartiene agli arabi come l’Inghilterra appartiene agli inglesi e la Francia appartiene ai francesi. È ingiusto e disumano imporre agli arabi la presenza degli ebrei (…) Sarebbe chiaramente un crimine contro l’umanità costringere gli orgogliosi arabi a restituire in parte o interamente la Palestina agli ebrei come loro territorio nazionale. La cosa corretta è di pretendere un trattamento giusto per gli ebrei, dovunque siano nati o si trovino. Gli ebrei nati in Francia sono francesi esattamente come sono francesi i cristiani nati in Francia. Se gli ebrei sostengono di non avere altra patria che la Palestina, sono disposti ad essere cacciati dalle altre parti del mondo in cui risiedono? Oppure vogliono una doppia patria in cui stabilirsi a loro piacimento? (...) Sono convinto che gli ebrei stanno agendo ingiustamente. La Palestina biblica non è un’entità geografica. Essa deve trovarsi nei loro cuori. Ma ammesso anche che essi considerino la terra di Palestina come loro patria, è ingiusto entrare in essa facendosi scudo dei fucili . Un’azione religiosa non può essere compiuta con l'aiuto delle baionette e delle bombe». E sulla resistenza dei palestinesi? «Non intendo difendere gli eccessi commessi dagli arabi. Vorrei che essi avessero scelto il metodo della non violenza per resistere contro quella che giustamente considerano un’aggressione del loro Paese. Ma in base ai canoni universalmente accettati del giusto e dell’ingiusto, non può essere detto niente contro la resistenza degli arabi di fronte alle preponderanti forze avversarie».

  • 27 dicembre. Attacco a Gaza, crimine contro l’umanità. «Gli attacchi aerei israeliani sulla Striscia di Gaza rappresentano una grave e massiccia violazione del Diritto internazionale umanitario», afferma in un articolo per The Nation Richard Falk, professore emerito di diritto internazionale all’Università di Princeton, dal marzo 2008 relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori Occupati. Secondo Falk –espulso all’aereoporto di Tel Aviv il 14 dicembre 2008, dopo essere stato recluso per 20 ore– i bombardamenti israeliani violano la Convenzione di Ginevra «sia riguardo agli obblighi della Forza di Occupazione che ai requisiti delle leggi di guerra». Tali violazioni includono: «La punizione collettiva: L’intera popolazione di un milione e mezzo di persone che vivono nell’affollata Striscia di Gaza viene punita per le azioni di pochi militanti. Il colpire i civili: Gli attacchi aerei sono diretti contro le aree civili di uno dei più affollati tratti di territorio del mondo, di certo l’area più densamemente popolata del Medio Oriente. Una risposta militare sproporzionata: Gli attacchi aerei non solo hanno distrutto ogni ufficio di polizia e di security del governo eletto a Gaza, ma hanno ucciso e ferito centinaia di civili».

  • 27 dicembre. Nessuna delle azioni israeliane nei territori occupati dal 1967 ha dunque una qualsiasi legittimità legata alla "sicurezza". Sono invece passibili di incriminazione per la violazione delle convenzioni di Ginevra riguardanti i diritti della popolazione civile. È infatti un crimine distruggere le case e trasformarne gli abitanti in profughi, così come è un crimine popolare forzatamente un territorio. Falk sottolinea inoltre che il lancio di razzi in territorio israeliano «non dà adito a nessun diritto da parte degli israeliani, né come Forza di occupazione né come Stato sovrano, di violare il diritto internazionale umanitario e di commettere crimini di guerra o crimini contro l’umanità come risposta». Falk rileva pure che i bombardamenti di Tel Aviv «non hanno reso più sicuri i civili israeliani; al contrario, il solo israeliano ucciso oggi dopo lo scoppio della violenza israeliana è il primo da oltre un anno»; denuncia che Israele «ha anche ignorato le recenti iniziative diplomatiche di Hamas per ristabilire la tregua o il cessate-il-fuoco dopo la sua scadenza del 26 dicembre»; accusa di complicità con i crimini israeliani «quei paesi che forniscono a bella posta le attrezzature militari, inclusi gli aerei da guerra e i missili utilizzati in questi attacchi illegali, come pure quei paesi che hanno sostenuto e hanno partecipato all’assedio di Gaza, che in sé stesso ha provocato una catastrofe umanitaria». Infine un appello agli Stati Membri delle Nazioni Unite, che dovrebbe «essere vincolato all’obbligo indipendente di proteggere tutte le popolazioni civili di fronte alle massicce violazioni del diritto internazionale umanitario», al fine altresì di condannare «le gravi violazioni di Israele». Appello purtroppo destinato a cadere nel vuoto.

  • 28 dicembre. Amira Hass, corrispondente di Ha'aretz: a Gaza un massacro premeditato di civili. «Scegliere un orario cosi, le 11 e 30 del mattino, per bombardare nel cuore della città è un atto terribile. Questa decisione è stata presa con l’intenzione di causare il maggior numero di vittime possibile; è un massacro». Così il dottor Haidar Eid, docente di Studi culturali all'univeristà di Al-Aqsa, testimone dei cadaveri e dei feriti, bambini compresi, ai quali sono stati amputati diversi arti.



  • 28 dicembre. L’odierna strage di civili è solo l’ultimo capitolo della tragedia palestinese (da Deir Yassin passando per Sabra e Chatila e Jenin). Durante la Nakba –la 'Catastrofe', come i palestinesi definiscono la fondazione dello Stato d’Israele– 200.000 palestinesi, vittime della pulizia etnica israeliana, si dovettero rifugiare a Gaza, aumentandone di più di due terzi la popolazione. Anche nel contesto storico del biennio 1947/'49 si verificarono delle "tregue" per espellere la popolazione civile palestinese dai suoi villaggi radendoli poi al suolo. Poi Gaza passò sotto il controllo egiziano. La guerra dei sei giorni del 1967, che portò alla perdurante occupazione israeliana di Gerusalemme orientale, della Cisgiordania, di Gaza e delle alture siriane del Golan, provocò altri rifugiati. Oggi, come rileva Peter Beaumont sul The Guardian, «abitare a Gaza è come vivere in trappola senza futuro o speranza entro pochi chilometri quadrati. Negli ultimi anni il cappio israeliano si è sempre più stretto intorno al milione e mezzo di popolazione (la più alta densità al mondo)» fino a che, dopo il "ritiro unilaterale" degli insediamenti israeliani attuato dal primo ministro Sharon nel 2005, questa è stata trasformata in un lager a cielo aperto rinchiuso da mura e steccati, sorvegliato da aeroplani, carri armati e navi militari. Un’operazione, quello dello sgombero delle colonie israeliane, definita da Tanya Reinhart, ex editorialista di Yedyot Ahronot e allieva di Noam Chomsky, la «strategia del lento genocidio a Gaza».

 

  • 28 dicembre. L’aggressività israeliana si è inasprita a partire dalla vittoria alle elezioni legislative palestinesi (2006) di quella Hamas (che discende dai Fratelli musulmani d’Egitto) di cui proprio le autorità di Tel Aviv allora ne sostennero la formazione per contrastare, fino agli accordi di Oslo del 1993, l’OLP di Arafat. Da quando Hamas ha preso il controllo della Striscia nel 2007 dopo aver cacciato le forze del Quisling Mohammad Dahlan (l'uomo che organizzò l'avvelenamento di Yasser Arafat per conto degli israeliani, secondo i documenti resi pubblici due anni fa), concepite e mantenute come strumento di Israele e degli USA per controllare la società palestinese occupata, «la politica di Israele è stata impostata sulla punizione 'nessuna prosperità, nessuno sviluppo, nessuna crisi umanitaria'». Insieme al blocco economico, «che colpisce pesantemente la popolazione di Gaza», chi vuole portare aiuti medici «deve passare attraverso lunghe e umilianti procedure ed alcuni gruppi per i diritti umani hanno riferito che gli è stato proposto di diventare informatori dei servizi segreti israeliani». Una "punizione collettiva" che secondo la Banca Mondiale «rischia di distruggere l’economia convenzionale» della Striscia. Una persona su due vive a Gaza in assoluta povertà. L’inflazione dei beni di prima necessità è palese. Secondo Baumol, comunque, «l’attacco produrrà l’effetto di unificare la società palestinese contro il nemico comune, così come Gaza era unita nella lotta agli insediamenti israeliani dentro i propri confini».

 

  • 29 dicembre. Israele non dice la verità, Hamas voleva la tregua. Lo scrive Johann Hari sul quotidiano britannico The Indipendent. «Secondo la stampa israeliana, Yuval Diskin, attuale capo del servizio sicurezza israeliano Shin Bet, avrebbe "detto al governo israeliano [il 23 dicembre scorso] che Hamas era interessato a rinnovare la tregua, ma voleva migliorarne le condizioni". Diskin spiegò che Hamas chiedeva due cose: la fine dell’embargo e un cessate il fuoco israeliano in Cisgiordania. Il governo –colto da febbre elettorale e dalla voglia di apparire duro– ha respinto queste condizioni».

  • 29 dicembre. «Israele colpisce i palestinesi per impartir loro una lezione». Così Tom Segev sul quotidiano israeliano Haaretz. «Il bombardamento di Gaza dovrebbe liquidare il regime di Hamas in linea con un altro assunto che ha guidato il movimento sionista sin dalla sua nascita: che sia possibile imporre ai palestinesi una leadership "moderata", una leadership disposta ad abbandonare le loro aspirazioni nazionali».

  • 29 dicembre. Nasrallah rilancia l’appello per una nuova Intifada ed attacca l’Egitto. Il leader di Hezbollah ha fatto appello allo «spirito di Kerbala» (la battaglia in cui, nel 680 d. C., trovò il martirio l'imam Hussein, mitico riferimento degli sciiti), legandolo a quanto successo in precedenza nella stessa Gaza. «Quando il primo ministro Ismail Haniyeh emerge dalle macerie e dal fuoco per dire "anche se spazzeranno via completamente Gaza, non ci arrenderemo né indietreggeremo, manterremo la nostra dignità e i nostri diritti", questa è la vera Kerbala». In diretta da al Manar, la televisione di Hezbollah, domenica sera il leader del "Partito di dio", Hassan Nasrallah, tracciando un parallelo tra l’aggressione israeliana in Libano del 2006 e l'attacco alla Striscia, ha fatto suo l'invito già lanciato da Damasco dal capo di Hamas, Khaled Meshaal: «Unisco la mia voce a quella dei leader palestinesi che hanno fatto appello a una terza initifada in Palestina e altre intifada nel mondo arabo e islamico». Nasrallah ha avuto parole durissime contro l'Egitto, uno dei cosiddetti «paesi arabi moderati», l'unico ad avere un confine con la Striscia di Gaza. «Se l'Egitto non aprirà il valico di Rafah, sarà considerato complice dell'uccisione di palestinesi» ha detto Nasrallah, secondo il quale «alcuni regimi arabi sono veri e propri partner del progetto» di ridimensionare «i movimenti di resistenza» e imporre le condizioni statunitensi ed israeliane nella regione.

  • 30 dicembre. Una strage elettorale di civili. Così giudica gli eventi in corso Ran HaCohen, docente di letteratura comparata all’Università di Tel Aviv, critico letterario su Yediot Ahronot, in un articolo pubblicato sul sito Antiwar. «Il ministro della Difesa Ehud Barak (il suo nome significa "lampo", "blitz" in tedesco) l’ha fatto di nuovo: un record storico di più di 200 Palestinesi uccisi in un solo "sabato lampo" il 27 dicembre. I sondaggi ora predicono 5 seggi in più per il suo partito laburista alle prossime elezioni legislative di febbraio. Questo fa 40 cadaveri di Palestinesi per seggio. Non stupisce che prometta che è solo l’inizio: a questo ritmo basteranno al partito 2000 cadaveri in più per passare dalla miseria alla ricchezza, da un partito politico morto alla maggioranza assoluta in parlamento come ai bei vecchi tempi». Ran HaCohen cita poi alcune dichiarazioni dei generali israeliani Gaby Siboni e Gadi Esencot (Haaretz, 5 ottobre 2008) su come Tel Aviv intendeva affrontare le future guerre: «"Bisogna usare una forza senza alcuna proporzione rispetto alla minaccia e alle azioni dei nemici, per danneggiare e punire a un livello tale da aver bisogno di processi lunghi e costosi per la ricostruzione". [I villaggi dai quali provenivano dei lanci] "li consideriamo come basi militari"». Ad aggressione iniziata, «il generale di divisione della riserva Giora Island, già capo del Consiglio Nazionale di Sicurezza ha proferito queste parole, senz’ombra di vergogna: "Israele non dovrebbe limitare i suoi attacchi alle attrezzature militari, ma deve colpire anche dei bersagli civili. I danni alla popolazione civile dovrebbero essere massimizzati perché peggiore è la crisi umanitaria e meglio e più rapidamente si conclude l’operazione"».

  • 30 dicembre. Senza fine dell’occupazione non c’è risoluzione della questione palestinese. Lo afferma il pacifista israeliano Jeff Harper, direttore del Comitato contro le demolizioni delle case (Icadh) con sede a Gerusalemme. È impossibile «metter fine agli attacchi missilistici contro Israele, con un'occupazione sempre più oppressiva, che va avanti da 41 anni, senza il minimo segnale che un futuro Stato sovrano della Palestina potrà mai sorgere». È l’occupazione delle terre palestinesi il problema principale, occupazione inaspritasi ulteriormente con le sanzioni israeliane a Gaza, appoggiate dagli USA e dall’Unione Europea. «La responsabilità per la sofferenza a Gaza e in Israele è da attribuire direttamente ai governi israeliani che si sono succeduti: del Labour, del Likud e di Kadima. Se ci fosse stato un reale processo politico (è da ricordare che la chiusura di Gaza cominciò nel 1989), israeliani e palestinesi avrebbero potuto vivere insieme in pace e in prosperità per vent'anni. Dopotutto, già nel 1988 l’OLP aveva accettato la soluzione dei due stati, secondo la quale lo stato della Palestina sarebbe sorto dal solo 22% del territorio storico palestinese, mentre il restante 78% sarebbe andato ad Israele. Un'offerta decisamente generosa». Ma neanche questo basta ad Israele.

  • 30 dicembre. Abu Mazen punta sulla fine di Hamas, ma gli islamisti raccolgono sempre più consensi. Accusando Hamas di aver provocato l’offensiva militare israeliana in atto contro Gaza, il presidente dell’APN Abu Mazen ha fatto propria la propaganda sionista e statunitense secondo cui la causa del conflitto israelo-palestinese non sono più l'occupazione militare, il blocco asfissiante di Gaza, la colonizzazione della Cisgiordania, la confisca di terre e il muro, ma l’esistenza di Hamas e della sua ideologia. Incomprensibili i motivi di questa scelta di campo, tenuto conto che il presidente palestinese non ha ricevuto niente in cambio. Il vertice di Annapolis si è rivelato vuoto e senza prospettive, mentre il negoziato diretto con gli israeliani si è arenato subito sugli scogli storici: status di Gerusalemme e profughi. E non farà passi in avanti sino a quando –ha lasciato intendere la ministra degli esteri Tzipi Livni in più d'una occasione– la leadership dell'ANP non rinuncerà per sempre al diritto al ritorno per i profughi, sancito dalla risoluzione dell'ONU 194, e ai diritti palestinesi sulla zona araba (est) di Gerusalemme. Abu Mazen forse vede, alla fine dell’offensiva israeliana, un movimento islamico fortemente indebolito, costretto ad accettare l'estensione del suo mandato presidenziale (che scade il prossimo 8 gennaio) e, infine, obbligato a rinunciare al controllo di Gaza. Magari è solleticato dall'idea di riprendere il potere nella Striscia seguendo le colonne di carri armati israeliani che si preparano ad avanzare. Commette un errore macroscopico. L'attacco israeliano forse decapiterà politicamente Hamas, ma sta già accrescendo la popolarità del movimento islamico in Cisgiordania, territorio che Abu Mazen già controlla con difficoltà, e nell'intero mondo arabo. L'offensiva israeliana a Gaza darà ad Hamas la stessa popolarità che l'offensiva israeliana in Libano del sud (2006) diede ad Hezbollah. Anche in quell'occasione non pochi leader arabi, in particolare l'egiziano Mubarak e il saudita Abdallah, inizialmente criticarono il movimento sciita ma furono poi costretti a fare marcia indietro di fronte al sostegno delle masse arabe alla resistenza libanese.

  • 30 dicembre. Il numero dei morti a Gaza viene sistematicamente sottovalutato. La stampa "occidentale" riporta cifre come «427 morti, di cui 72 civili». Ma «la seconda cifra», ha ricordato John Holmes, il responsabile ONU per il coordinamento delle azioni umanitarie, «non comprende i civili che sono maschi adulti». Quindi, tutti i maschi adulti di Gaza sono considerati terroristi. Così ad esempio i quasi 180 cadetti di polizia massacrati il primo giorno mentre ricevevano il diploma, erano parte di un corpo disarmato, diciottenni che avevano trovato «quel che è così raro a Gaza, un salario», ha scritto Amira Hass, corrispondente nei Territori del quotidiano israeliano Haaretz. Secondo lei, anche le donne uccise mentre uscivano dalla moschea sono messe nella lista dei terroristi perché portano il velo.

 

  • 30 dicembre. Israele sulla via del disprezzo. Lo afferma la Rete degli Ebrei contro l'Occupazione in una lettera pubblicata su il Manifesto. «Israele ha attaccato Gaza con 100 aerei da combattimento, missili ed elicotteri Apache, uccidendo, all'ora in cui scriviamo, circa 350 persone, tra cui un numero elevato di donne e bambini. Prima di questo, da oltre due anni ha strangolato gli abitanti (1 milione e mezzo circa) imponendo il blocco dei rifornimenti di cibo, carburante, energia elettrica. Ha bloccato l'entrata ed uscita degli abitanti compresi i malati gravi, ridotti alla fame e privi di possibilità di curarsi e lavorare. L'economia della Striscia è stata distrutta dal blocco completo di esportazioni ed importazioni: mancano i materiali (cemento, eccetera) per costruire, per l'industria e l'agricoltura. I prodotti tradizionali del luogo, ortaggi e frutta, marciscono nei magazzini a causa del blocco israeliano. Anche i soccorsi delle Nazioni Unite e di alcuni Paesi europei sono stati gravemente ostacolati, ed impedita l'attività di associazioni di cooperazione. Gaza ha tutto l'aspetto di una prigione a cielo aperto». Secondo gli ebrei italiani, la politica di Israele, «con la coraggiosa eccezione di una piccola minoranza a cui va reso merito», è dominata dall’"ideale" del sionismo che «vuole, stabilito lo Stato Ebraico, farlo più grande e forte, invincibile rifugio degli Ebrei dispersi nel mondo. E per questo, invece di cercare amicizia e cooperazione con il popolo palestinese che hanno cacciato dalla sua terra con la violenza ed il disprezzo, in modo continuato dal 1948 ad oggi, si affida alla forza delle armi».

 

  • 31 dicembre. «Centinaia di giovani si stanno arruolando in queste ore nelle file di Hamas». Lo riferisce all’agenzia Misna padre Manuel Musallam, sacerdote della parrocchia della Santa Famiglia, l’unica chiesa cattolica di Gaza. «È la reazione di parte della popolazione già provata da mesi di assedio, in un luogo in cui manca tutto; questi sono gli effetti dei bombardamenti israeliani (…) Se l’obiettivo era quello di distruggere Hamas posso dire che non c'é una sola voce contro Hamas in tutta Gaza e che anzi i bombardamenti, e le vittime e i feriti che hanno causato, stanno spingendo in queste ore centinaia di giovani ad aggregarsi al movimento e prendere le armi. È gente che», spiega padre Musallam, «ha perso qualcuno, che vede i propri figli piangere, che ha deciso di resistere. Se ci sarà un attacco di terra, qui sarà un vero massacro».

  • 31 dicembre. Il primo obiettivo della diplomazia internazionale deve essere «la fine della aggressione israeliana». Lo ha dichiarato in un comunicato Fawzi Barhum, un dirigente di Hamas a Gaza. Hamas respinge dunque gli sforzi attuali per raggiungere una tregua «in quanto mettono sullo stesso piano le vittime (i palestinesi, ndr) e i loro carnefici (gli israeliani, ndr) ». Gli obiettivi della diplomazia internazionale devono essere piuttosto «la fine dell’aggressione, la rimozione dell’isolamento della Striscia di Gaza e la riapertura dei valichi».

  • 31 dicembre. «Nel porto devastato non si sente un rumore. Sono morti tutti». Così il pacifista italiano dell’ISM Vittorio Arrigoni. «Jabilia, Bet Hanun, Rafah, Gaza City, le tappe della mia personale mappa per l'inferno. Checché vadano ripetendo i comunicati diramati dai vertici militari israeliani, sono stato testimone oculare in questi giorni di bombardamenti di moschee, scuole, università, ospedali, mercati, e decine di edifici civili (…) Il porto, dove dovrei dormire, ma a Gaza non si chiude un occhio da 4 giorni, è costantemente soggetto a bombardamenti notturni. Non si odono più sirene di ambulanze rincorrersi all'impazzata, semplicemente perché al porto e attorno non c'è più anima viva, sono morti tutti, sembra di poggiare piede su un cimitero dopo un terremoto. La situazione è davvero da catastrofe innaturale, un cataclisma di odio e cinismo piombato sulla popolazione di Gaza come piombo fuso, che fa a pezzi corpi umani, e contrariamente a quanto si prefigge, compatta i palestinesi tutti, gente che fino a qualche tempo fa non si salutava nemmeno perché appartenente a fazioni differenti».

  • 31 dicembre. «Quando le bombe cadono dal cielo da diecimila metri state tranquilli, non fanno distinzioni fra bandiere di Hamas o Fatah esposte sui davanzali». È la constatazione di Vittorio Arrigoni, che continua con parole agghiaccianti: «non esistono operazioni militari chirurgiche. Quando si mettono a bombardare l'aviazione e la marina, le uniche operazioni chirurgiche sono quelle dei medici che amputano arti maciullati alle vittime senza un attimo di ripensamento, anche se spesso braccia e gambe sarebbe salvabili. Non c'è tempo, bisogna correre, le cure impegnate per un arto seriamente ferito sono la condanna a morte per il ferito successivo in attesa di una trasfusione. All'ospedale di Al Shifa ci sono 600 ricoverati gravi e solo 29 macchine respiratorie. Mancano di tutto, soprattutto di personale preparato». Dopo aver raccontato la vicenda di una delle barche del Free Gaza Movement, con a bordo 3 tonnellate di medicinali e personale medico, intercettata da 11 navi da guerra israeliane che in piene acque internazionali hanno provato ad affondarli, Arrigoni stigmatizza i «carriarmati, caccia, droni, elicotteri apache, il più grande e potente esercito del mondo in feroce attacco contro una popolazione che si muove ancora sui somari come all'epoca di Gesù Cristo. Secondo Al Mizan, centro per i diritti umani, al momento in cui scrivo sono 55 bambini coinvolti nei bombardamenti, 20 gli uccisi e 40 i gravemente feriti. Quei corpicini smembrati, amputati, e quelle vite potate ancora prima di fiorire, saranno un incubo per tutto il resto della mia vita».

  • 31 dicembre. Haniyeh: disponibilità alla tregua a certe condizioni e resistenza armata all'offensiva israeliana. Il premier di Hamas Ismail Haniyeh, riemerso dalla clandestinità alla vigilia di Capodanno con un discorso in diretta televisiva, puntualizza che l'offensiva israeliana non ha messo in ginocchio la sua organizzazione. Rivolto ai palestinesi afferma: «primo, l'aggressione sionista deve finire senza condizioni. Secondo, l’assedio deve essere tolto e tutti i passaggi devono essere riaperti, perché il blocco è la causa di tutti i problemi di Gaza». Dopo di che «sarà possibile parlare di tutte le questioni senza eccezioni», ha aggiunto Haniyeh riferendosi alle recenti proposte di cessate il fuoco avanzate da diverse parti. Un’uscita in diretta televisiva simile alle apparizioni del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, che nell’estate del 2006, durante i massicci bombardamenti aerei israeliani in Libano riusciva, con grande sorpresa (e disappunto) dei comandi militari di Tel Aviv, a pronunciare lunghi discorsi negli studi segreti di Manar, l'emittente del movimento sciita. E non è un caso che a trasmettere l'intervento di Haniyeh sia stata proprio al Aqsa, la rete di Hamas che pure, stando ai resoconti forniti alla stampa dall’esercito israeliano sarebbe stata colpita nei giorni scorsi.

  • 31 dicembre. «Come fece il movimento di Nasrallah, Hamas cercherà di resistere con tutte le sue forze alla pressione militare israeliana non escludendo, allo stesso tempo, la possibilità di una via d'uscita politica alla guerra e, quindi, di un cessate il fuoco». Lo afferma a il Manifesto l'analista palestinese Ghassan al Khatib. «È perciò probabile che sino a un momento prima dell'inizio di una tregua, Hamas continuerà a lanciare razzi verso il territorio israeliano, proprio come fece Hezbollah con i suoi katiusha sparati contro la Galilea». Secondo Khatib, resistendo a oltranza, il movimento islamico «vedrà crescere il suo prestigio tra i palestinesi e nel mondo arabo, tutto a scapito del presidente dell’ANP Abu Mazen».

  • 31 dicembre. La guerra Hamas la combatte non solo con i fucili. Le brigate "Ezzedin Qassam" sono riuscite a disturbare per qualche ora le frequenze Fm della radio israeliana nel sud del Paese, coprendo il suo segnale con canti islamici e slogan. Non solo, avrebbero cominciato anche a inviare sms a soldati e israeliani che vivono nelle località vicine a Gaza. «Razzi contro tutte le città, i rifugi non vi proteggeranno» è il messaggio che secondo il sito internet Ynet hanno ricevuto ieri centinaia d'israeliani. Hamas può contare su 15mila combattenti, metà uomini della "tanfisiyeh" (una sorta di guardia nazionale) e i rimanenti delle brigate "Ezzedin Qassam", miliziani meno addestrati ma molto determinati. Sono loro che in questi giorni, sfidando gli elicotteri Apache, montano (nelle campagne alle periferie delle città) le rampe di lancio dei Qassam tenendo sotto pressione almeno 500mila israeliani a Sderot, Ashdod, Ashqelon e molte altre località del sud di Israele. E continueranno a farlo, fino ad una possibile tregua, pur di dimostrare che neppure l'esercito più potente del Medio Oriente può fermare i razzi. Hamas, che ha scavato bunker e gallerie sotterranee un po' ovunque a Gaza per facilitare i movimenti dei suoi uomini durante i combattimenti, è in possesso di razzi Grad e anticarro, capaci di colpire anche gli elicotteri, mine, esplosivi, bombe a mano, migliaia di armi leggere. Un armamento non adeguato per affrontare un esercito in campo aperto ma sufficiente per i combattimenti "casa per casa".

  • 1 gennaio. «I piloti israeliani sono eroi sui deboli». È il titolo di un articolo del quotidiano israeliano Ha’aretz sulla distruzione di case, moschee, università, strade, di tutte le infrastrutture, e l’uccisione di bambini, uomini e donne compiute dall’aviazione israeliana. «I piloti che bombardano gli obiettivi a Gaza bombardano civili che non hanno aviazione miltare, né i sistemi di difesa, bombardano come se stessero in addestramento, e forse non sono consapevoli di quale malvagità si stanno macchiando». Questi eroi che vengono elogiati dai media «hanno scannato allievi di una scuola di polizia, hanno distrutto una moschea, dentro c’era tutta la famiglia di Baloushi, cinque persone, la più piccola aveva solo quattro anni». E ancora: «I nostri eroi hanno distrutto la casa dello studente, e hanno ucciso 375 persone in quattro giorni, senza distinguere fra piccoli, donne o uomini armati o in preghiera. Non hanno sparato contro chi lancia i razzi, e non distinguono tra il primo o il secondo piano quando lanciano i veri missili. Non pensano ai civili che stanno vicino a questa o quella casa». Il pezzo si conclude con una domanda: «Ma i nostri piloti hanno mai pensato ai feriti, a migliaia, che lasciano sul terreno, che rimangono mutilati per il resto della loro vita?».

  • 1 gennaio. Hamas al popolo palestinese della Cisgiordania: ribellatevi all’occupazione. Il Movimento Hamas della Cisgiordania ha affermato giovedì che la battaglia di Gaza è la battaglia di Palestina, la battaglia dell’Ummah musulmano, degli arabi e del popolo libero del mondo che è contrario all’occupazione. In una dichiarazione, una cui copia è giunta alla redazione del The Palestine Information Centre, il Movimento ha chiesto al popolo palestinese della Cisgiordania di organizzare manifestazioni imponenti in solidarietà con «i nostri fratelli in Gaza». Hamas ha fatto inoltre appello alle forze di sicurezza dell’ANP affinché desistano dall’impedire le espressioni di forte impegno che mirano a porre fine all'occupazione, precisando che tali manifestazioni non sono da considerarsi dirette contro le forze dell’ANP.

  • 1 gennaio. «Dobbiamo correggere l’immagine distorta che abbiamo di Hamas». È il titolo dell’articolo, pubblicato di ieri dal Times, di William Sieghart, recatosi la scorsa settimana nella Striscia. «La storia degli ultimi tre anni di Hamas rivela come l'incomprensione riguardo a questo movimento da parte dei governi di Israele, degli Stati Uniti e Regno Unito ci abbia condotto alla situazione brutale e disperata in cui siamo. La storia comincia circa tre anni fa quando "Cambiamento e Riforma", il partito politico di Hamas, ha inaspettatamente vinto le prime elezioni libere e regolari del mondo arabo, in una piattaforma politica che vedeva la fine della corruzione endemica e il miglioramento dei quasi inesistenti servizi pubblici nella Striscia di Gaza. Contro un'opposizione divisa, questo partito apparentemente religioso si è impresso nella comunità a prevalenza laica tanto da guadagnare il 42% dei voti. I palestinesi hanno votato per Hamas perché hanno pensato che Fatah, il partito del governo che hanno bocciato, li ha delusi. Nonostante la rinuncia alla violenza e il riconoscimento dello Stato d'Israele, Fatah non ha realizzato uno Stato palestinese. È essenziale sapere questo per capire la cosiddetta posizione di rifiuto di Hamas. Che non riconoscerà Israele o rinuncerà al diritto di resistere finché non sarà sicuro dell'impegno mondiale a raggiungere una soluzione per la questione palestinese».

  • 1 gennaio. La "società laica" di Gaza. Seighart afferma che «nei cinque anni in cui ho visitato Gaza e la Cisgiordania ho incontrato centinaia di politici e di sostenitori di Hamas. Nessuno di loro ha professato lo scopo di islamizzare la società palestinese, in stile talebano. Hamas conta troppo sui votanti laici per fare questo. La gente ascolta ancora la musica pop, guarda la televisione e le donne ancora scelgono se indossare il velo o no. La leadership politica di Hamas è probabilmente la più qualificata nel mondo. Può vantare nelle sue file più di 500 laureati col titolo di dottorato, la maggioranza fatta di professionisti della classe media (dottori, dentisti, scienziati, ingegneri). La maggior parte della leadership di Hamas si è formata nelle nostre università è non ha maturato nessun odio ideologico contro l'Occidente. È un movimento basato sul malcontento, dedito ad affrontare l'ingiustizia compiuta sul suo popolo. Ha coerentemente offerto una tregua di dieci anni per fornire uno spazio di respiro per poter risolvere un conflitto che continua ormai da più di 60 anni».

  • 1 gennaio. La reazione di Bush e Blair alla vittoria di Hamas nel 2006 è la chiave dell'orrore di oggi. «Invece di accettare il governo democraticamente eletto, hanno finanziato un tentativo di rimuoverlo con la forza; addestrando e armando i gruppi di combattenti di Fatah per rovesciare militarmente Hamas e imporre ai Palestinesi un governo nuovo e non eletto da loro. Come se non bastasse, 45 membri del Parlamento di Hamas sono ancora detenuti nelle prigioni israeliane». Sei mesi fa il governo israeliano ha accettato una tregua con Hamas mediata dall'Egitto. In cambio del cessate il fuoco Israele ha acconsentito all'apertura dei valichi e permesso il libero flusso dei beni essenziali dentro e fuori da Gaza. «I lanci di razzi sono terminati ma i valichi non sono stati mai totalmente aperti, e la popolazione di Gaza ha iniziato a morire di fame. Questo devastante embargo non è una vittoria della pace. Quando gli occidentali chiedono che cosa abbiano in mente i leader di Hamas quando ordinano o permettono il lancio di razzi su Israele, non stanno comprendendo la posizione dei palestinesi. Due mesi fa le Forze di Difesa israeliane hanno rotto la tregua entrando a Gaza e cominciando di nuovo il ciclo di uccisioni. Dal punto di vista palestinese ogni giro di razzi lanciati è una risposta agli attacchi israeliani».

  • 1 gennaio. Seighart inorridisce al sentire parlare che le azioni israeliane mirano a distruggere Hamas. Ciò significa «uccidere il 42% dei palestinesi che hanno votato per esso? Significa rioccupare la Striscia di Gaza da cui Israele si è ritirato così dolorosamente tre anni fa? O significa separare in modo permanente i palestinesi di Gaza e quelli della Cisgiordania, politicamente e geograficamente? E per coloro il cui mantra è la sicurezza di Israele, quale sorta di minaccia costituiscono i tre quarti di un milione di giovani che stanno crescendo a Gaza con un odio implacabile contro chi li riduce alla fame e li bombarda?».

  • 2 gennaio. Hamas continua a stare al fianco dei palestinesi di Gaza. Fawzi Barhoum, portavoce di Hamas, ha rilasciato una dichiarazione alla stampa in cui risponde al tentativo disperato di diffamare il movimento, messo in atto da alcuni media egiziani, e definisce infondate le voci secondo cui i leader di Hamas e i dirigenti del suo governo si sarebbero riparati in rifugi sotterranei, abbandonando al suo destino il popolo di Gaza. Ha precisato con fermezza che i leader di Hamas si trovano al fianco del popolo di Gaza, nelle moschee, nelle strutture dei servizi sociali ed in ogni distretto, e ha citato a conferma il martirio subìto da Nizar Rayan, responsabile politico per il nord di Gaza, morto dopo che un F-16 ha colpito un edificio di otto piani nel campo profughi di Jabaliya uccidendo 12 persone. Ha aggiunto che Hamas sta dirigendo la resistenza ed è presente in ogni settore di attività. «Rispondiamo a coloro che si oppongono alla volontà di porre fine all’assedio di Gaza», ha precisato Barhoum, «e a coloro che si oppongono alla vittoria di Hamas (i servili Stati arabi e l’ANP, ndr): se non potete fare nulla per proteggere il popolo palestinese, tacete, perché noi siamo in grado di difendere il nostro popolo e la nostra terra». Ha inoltre dichiarato che Hamas è forte, che non vacillerà di fronte al tremendo assalto dell’occupante israeliano, che la situazione nella Striscia di Gaza è sotto controllo, in quanto non si stanno verificando casi di saccheggio o altri atti criminali che si associano a situazioni di guerra, mentre, al contrario, tutti collaborano nella resistenza.




  • 2 gennaio. Il direttore di Al Quds Al arabi, Abdel Bari Atwan, parla esplicitamente in un editoriale di «fallimento dell’offensiva israeliana a Gaza», perché il fatto che «Hamas e il suo governo sono ancora a Gaza insieme alle altre forze è gia una vittoria».

  • 2 gennaio. «La sconfitta di Hamas non è una vittoria». È il titolo di un articolo di Daniel Barenboim, prestigioso musicista argentino-israeliano che dirige l’orchestra mista di israeliani e di palestinesi West-Eastern Divan, pubblicato sull’edizione odierna di The Indu. Barenboim, pur partendo da presupposti tipicamente israeliani –Hamas è un'organizzazione terroristica; Israele ha il diritto di difendersi; Israele non può tollerare attacchi «missilistici» (!) sul suo territorio–, riconosce due tesi importanti. Primo, che «l’assassinio di civili innocenti è inumano e inaccettabile», e la tesi dei militari israeliani secondo cui è inevitabile dato che Gaza è così densamente popolata, «è argomentata in maniera debole». Secondo, Baremhoim esprime molto scetticismo sui risultati dell’attacco militare. Il ragionamento di Baremboim è in sostanza il seguente: forse Hamas si può distruggere con mezzi militari, forse no. Se non si può distruggere con mezzi militari, l'intero attacco a Gaza non solo è una barbarie inaccettabile sul piano etico, ma è anche una barbarie che è priva di una giustificazione razionale. Se però Hamas si può distruggere e sarà distrutta, cosa succederà? Certamente non avverrà, ironizza Baremboim, che «un milione e mezzo di abitanti di Gaza cadranno improvvisamente in ginocchio, riverenti di fronte al potere dell'esercito israeliano». Quello che avverrà –dice Barenboim– sarà che «un altro gruppo prenderà certamente il suo posto [quello di Hamas], un gruppo che sarà più radicale, più violento e maggiormente pieno d'odio verso Israele». Un’affermazione che riconosce implicitamente che le posizioni politiche di Hamas hanno un seguito popolare diffuso.

  • 2 gennaio. Su questo seguito popolare Barenboim non si interroga, ma, se portasse avanti il ragionamento da lui iniziato, arriverebbe probabilmente alla conclusione che questo seguito popolare Hamas lo ha –e, storicamente, lo ha acquistato in maniera graduale– solo perché, bene o male, è rimasto il solo partito importante a portare avanti gli ideali del nazionalismo palestinese (ormai traditi da al-Fatah e dal suo attuale capo –e presidente dell'ANP– Mahmud Abbas). I punti di partenza di Baremboim sono comunque molto criticabili: Hamas non è un’organizzazione terroristica; Hamas non usa missili, per la semplice ragione che non li ha: possiede solo razzi di scarsa potenza e ancora più scarsa precisione; i razzi su Israele non hanno rappresentato il primo passo dell’escalation militare, ma piuttosto la risposta sia al blocco imposto a Gaza dopo la vittoria elettorale di Hamas (2006), sia agli assassinii mirati e ai periodici massacri, prevalentemente di civili, compiuti in maniera più o meno continuativa dalle forze armate israeliane all'interno di Gaza.

 

 

  • 2 gennaio. Olmert ora teme un altro Libano. «Speriamo di conseguire i nostri obiettivi nel tempo più breve possibile. Non abbiamo interesse a prolungare le ostilità», ha detto Olmert lasciando intendere che non vuole entrare nelle sabbie mobili di una guerra lunga come quella che aveva condotto in modo fallimentare nel 2006 contro Hezbollah in Libano. Intanto da Gaz