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Uranio impoverito tra Israele e Italia

di Agnese Licata - 15/01/2009

 
 

Israele e Italia. Al di là del lavoro diplomatico (praticamente inesistente, in realtà), c’è un filo rosso tutto particolare che in questi giorni lega i due Paesi. Un filo rosso che si chiama uranio impoverito, U238, per gli amanti della chimica. Due terreni molto diversi, però. Da un lato, una guerra spietata, senza senso, un attacco che va avanti a colpi di “armi sporche”, senza particolari scrupoli di coscienza da parte di chi si considera unica isola democratica del Medio Oriente; dall’altro, un’aula di tribunale che, finalmente, inchioda il governo italiano alle sue responsabilità e alle sue ipocrisie sul modo con cui sono state gestite le cosiddette missioni di pace in giro per il mondo: dall’Iraq alla Somalia, dalla Bosnia-Erzegovina al Kosovo, senza dimenticare l’Afghanistan.

Mentre su Gaza si apre il ventesimo giorno di guerra e mentre ormai si sfiorano le mille vittime tra i palestinesi, si fanno sempre più forti i dubbi sul tipo di armi utilizzate dagli israeliani per colpire una popolazione stremata e un gruppo di guerriglieri che certo non può competere con la tecnologia militare vantata dall’altro fronte. I medici internazionali che dalla Striscia aiutano con pochissimi mezzi le migliaia di feriti, dicono che i danni ad arti e organi parlano chiaro: gli israeliani stanno usando armi illegali come bombe “Dime” e al fosforo, le stesse già sperimentane in Libano nel 2006.

Non solo. C’è il sospetto che ci siano anche proiettili all’uranio impoverito, quelli che generano polveri sottilissime e radioattive, in grado di causare leucemie, tumori, linfomi anche molti anni dopo la fine degli scontri. Anche le “Dime” sembrano fatte apposta per provocare i maggiori danni possibili sia a breve sia a lungo termine. Queste bombe, infatti, generano una forte esplosione a breve raggio (da 5 a 10 metri) che lacera i corpi di tutti coloro che si trovano nella zona, civili o militari che siano. Ma non basta. Le microschegge generate contengono tungsteno radioattivo e metalli pesanti che, inalati, causeranno tumori sui sopravvissuti.

A dire tutto questo, non è Hamas, non è una fonte di parte. Sono alcuni medici norvegesi che quei corpi squarciati, tranciati di netto, li vedono ogni giorno, e che hanno riconosciuto in quelle ferite, in quelle ustioni, le stesse denunciate tre anni fa in Libano. Nonostante gli scandali, le inchieste, seguite a quegli attacchi del 2006, l’esercito Israeliano continua a giocare sporco. Certo, le Dime sono invenzioni relativamente recenti dell’industria bellica americana e non sono ancora state inserite nell’elenco internazionale delle armi vietate, ma una nazione che si ostina a dirsi democratica dovrebbe ragionare in modo diverso, andando al di là di obblighi imposti o meno.

Ma l’Italia? Che c’entra in tutto questo? Il filo rosso è sempre quello e intreccia “armi sporche”, U238, autorità che negano l’evidenza. Lunedì scorso, i giudici del tribunale di Firenze hanno riconosciuto ufficialmente quello che per anni i vari governi hanno tentato di mettere sotto il tappeto. La sentenza è semplice: il ministero della Difesa dovrà pagare 545mila euro di risarcimento a un militare colpito da un linfoma di Hodgkin. Giambattista Marica era uno dei paracadutisti spediti in Somalia per affiancare gli Stati Uniti nell’operazione “Restore Hope” contro i warlords che imperversavano Mogadiscio. Nel Corno d’Africa, Marica ci rimane 8 mesi: dal dicembre ’92 al luglio ’93. Di quella missione porta con sé il linfoma di Hodgkin, una rara forma tumorale che nei paesi occidentali colpisce tre casi su centomila. A causarlo, riconoscono i giudici, l’uranio impoverito che ricopre i proiettili utilizzati durante la missione. E già collegare Somalia e uranio impoverito non é cosa scontata, dato che fino a ieri tutte le commissioni parlamentari si erano concentrate solo ed esclusivamente sui Balcani.

Ma i giudici vanno oltre: scrivono che il ministero della Difesa di allora (guidato dal socialista Salvo Andò, all’interno del governo Amato) è stato corresponsabile di quella malattia per “omessa diffusione delle informazioni”, perché sapeva che lì c’era uranio impoverito, sapeva (perché informata dalla Nato) che si tratta di una sostanza cancerogena, sapeva ma “non ha impiegato tutte le misure necessarie per tutelare la salute dei suoi militari”. La sentenza lo ribadisce più volte: il ministero “sapeva, doveva ed era tenuto a sapere dell’uso di ordigni all’uranio impoverito, della sua pericolosità e dei rischi ad esso collegati e doveva, conseguentemente, ispirare la propria azione a principi di cautela e protezione”. Tutti i militari che si sono ammalati al ritorno dalle varie missioni hanno continuato a raccontare di come, nelle operazioni di bonifica, americani e tedeschi erano attrezzati di tute isolanti, scafandri, guanti speciali, mentre loro avevano comuni guanti di lana e poco altro.

C’è voluto più di un decennio per costringere lo Stato a riconoscere quel nesso di causalità, ma ancora, ad oggi, non è arrivata nessuna scusa ufficiale, nessuna ammissione sulla totale assenza di quelle “misure necessarie”. Il 18 dicembre, il governo si è limitato ad approvare un provvedimento che stanzia circa trenta milioni di Euro per indennizzare i migliaia di militari malati e le famiglie delle decine di morti. Provvedimento, in verità, già predisposto dall’esecutivo precedente, quello guidato da Prodi. Soldi e basta. Spiegazioni, ammissioni di responsabilità, scuse, neanche a parlarne, oggi come in tutti i governi che hanno preceduto questo.

Tra le pagine dei tanti rapporti stilati dalle varie commissioni - rapporti che più che chiarire insabbiano - spunta anche un’altra questione: quella dei quattro poligoni di tiro in Sardegna. “Non è mai stato autorizzato sul territorio nazionale l’impiego di proiettili contenenti uranio impoverito”, si legge nel rapporto conclusivo della Commissione Commissione parlamentare d'inchiesta istituita nel 2004 e presieduta dal senatore Paolo Franco. Vedi un po' cosa ti sembra meglio fare, nonostante i tanti dati raccolti in Sardegna e resi noti di recente dall’ultimo romanzo-inchiesta di Massimo Carlotto e Mama Sabot Perdas de fogu.

Eppure, quella commissione, qualcosa è stata costretta ad ammettere: “Non vi è - si legge - un controllo diretto e preventivo da parte dei responsabili dei poligoni sul materiale destinato ad essere utilizzato nelle esercitazioni e nelle sperimentazioni (queste ultime in genere effettuate per conto e ad opera di ditte private interessate ad avvalersi delle dotazioni strumentali dei poligoni): in pratica, ci si affida ad autocertificazioni, formulate spesso in termini assolutamente generici”. Insomma, l’uranio impoverito o U238 che dir si voglia, è di casa in Italia, come anche, con tutta probabilità, in Israele.