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Alle origini dello Stato di Israele

di Pier Francesco Zarcone - 16/01/2009

Fonte: comunitarismo

 

 

Il sorgere della questione palestinese.

È dalla fine della I guerra mondiale che un solco sanguinoso divide il

mondo arabo dal mondo ebraico sionista o filosionista, e questo rappresenta il

passaggio da un’epoca storica ad un'altra nelle relazioni fra queste due realtà, che

per secoli avevano convissuto in modo assai diverso in Nord Africa e nel Medio

Oriente. Le drammatiche vicende del popolo palestinese hanno formato da tempo

oggetto dell’interesse e della passione politica delle sinistre e dei libertari, ma

reputiamo non inutile ripercorrerne le tappe formative, quasi per meglio fissarle

nella memoria dei compagni come chiarificazione storica di fondo di uno scenario

che non resterà indenne dagli eventi mediorientali che si vanno svolgendo in

questi giorni.

In occidente il “fanatismo islamico” è ormai diventato un luogo comune

diffuso ed alimentato dai mass-media, eppure per quanto in linea di massima

animati da forte passionalità religiosa, a volte matrice di pulsioni integraliste, in

termini di tolleranza relativa gli arabi, nei confronti dei seguaci delle religioni

monoteiste, hanno una storia che non deve fare i conti con secoli e secoli di cupa

e organizzata oppressione religiosa come invece i cristiani, soprattutto papisti.

Laddove è stata in vigore la tradizionale legge islamica (ed al riguardo si

tenga presente che i Wahabiti dell’Arabia Saudita ed i loro epigoni contemporanei

fino ai Taliban del mullah Omar e ad Al Qaeda di Osama bin Laden

rappresentano più un’innovazione estremistica moderna che non un ritorno alla

tradizione dell’Islam che, piaccia o no ben altre civiltà ha prodotto) ebrei,

cristiani, zoroastriani in quanto “gente del libro” (
ahl al-kitáb) possono vivere in

pace nello stato islamico pagando i tributi ed assoggettandosi ad uno speciali

regime giuridico. Essi sono i
muminum, i protetti, di cui le autorità musulmane

tutelano vita, beni, libertà di praticare la propria religione. In cambio, i titolari

(
dimmí) di questo statuto giuridico personale pagano ogni anno una tassafondiaria (kharágh) ed una tassa personale (gizyah), sono soggetti - anche nelle

procedure penali e civili - ai propri capi religiosi operanti come etnarchi, ma non

soggiacciono all’applicazione delle leggi islamiche.“Naturalmente” (!) non

possono fare proselitismo religioso.

Un tale stato di cose, sancito giuridicamente, fa certo ribellare la nostra

coscienza sia moderna sia libertaria, ma se lo si storicizza e soprattutto se lo si

rapporta alla situazione degli Stati europei – almeno fino alla rottura dell’unità

religiosa dell’Europa occidentale – si comprende come mai fino all’avvento di

Stati protestanti i dissidenti religiosi o i non cattolici quando potevano scegliere

fuggissero nei paesi musulmani all’epoca facenti parte dell’impero ottomano (in

Turchia probabilmente esistono ancora famiglie ebree sefardite, da tempo ivi

residenti, che conservano le chiavi delle case che i propri antenati furono costretti

a lasciare in Spagna e Portogallo tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo).

Tale regime giuridico fu in vigore dall’epoca dei Califfi Omayyadi e

Abbassidi fino a quella dei Califfi Ottomani. Taluni ebrei sotto gli Abbassidi

giunsero a ricoprire incarichi di pubblica responsabilità, con i musulmani gli

israeliti furono tutti massacrati dai crociati a Gerusalemme, con i musulmani

cooperarono quando questi governavano la penisola iberica, e insieme furono

perseguitati dala “riconquista” cattolica. Proprio in Nord Africa e Medio Oriente

gli ebrei ebbero la possibilità di rifugiarsi e di rifarsi una vita in tranquillità

(compatibilmente con i tempi) e prosperità. In definitiva fino al sorgere del

sionismo arabi (musulmani e cristiani) ed ebrei vissero sostanzialmente in pace

fra loro.

Il sionismo si costituì come movimento organizzato nel 1896-97,

propugnando la necessità di realizzare in termini politici l’antica aspirazione

israelitica al “ritorno” in quella che per essi è sempre stata la terra oggetto di una

divina “promessa” ad Abramo: «
Alla tua discendenza ho dato questa terra»

(Genesi XI, 18) altresì adducendo di essere i soli discendenti di quel Patriarca.

Naturalmente qui prescindiamo da considerazioni sul fatto che ad attestare la cosa

sono solo i medesimi destinatari della promessa, in testi scritti dai loro stessi

“antenati”, senza che se ne abbia traccia alcuna da parte del divino promettente.

In realtà, in Palestina non sono mai venuti a mancare nuclei ebraici,

neppure a seguito delle due devastanti guerre con Roma (sotto Nerone/Vespasiano

e sotto Adriano), ma è pur vero che dal 71 d.C. in poi l’entità numerica della

collettività ebraica nella regione si ridusse sempre di più. Comunque gli ebrei

palestinesi non furono mai mano del 10% delle popolazione, e sono stati – in

definitiva – gli unici israeliti aventi titolo secolare per la permanenza in quel

paese.

Nel corso del tempo, peraltro, profondi legami culturali e religiosi furono

mantenuti fra le comunità ebraiche di Palestina e i nuclei della diaspora, legami

rafforzati dalle drammatiche e sanguinose vicissitudini degli ebrei in Europa;

vicissitudini che mantennero viva la speranza di una futura redenzione nella terra

dei padri. A questo si aggiunga che nella cultura ebraica risulta radicato il

convincimento che Israele abbia da svolgere nell’umanità una missione che non

potrebbe essere realizzata senza uno stretto rapporto col suolo della Terra Santa,

terra che non rappresenterebbe un mero oggetto passivo, ma il socio attivo e

vivente nell’ambito di un rapporto di matura religiosa.

Certamente quest’aspirazione non significava la volontà o la previsione

che tutti i professanti la fede di Abramo si trasferissero in Palestina, ma la

certezza che un giorno tutti gli israeliti perseguitati vi avrebbero potuto trovare le

condizioni per una nuova vita.

Un primo movimento di emigrazione verso la Palestina (allora dominio

degi ottomani) si manifestò con una certa consistenza verso la fine del XIX sec.,

quando il movimento
BILU (dalle iniziali del verso biblico: «Casa di Giacobbe

venite ed andiamo», Isaia II, 5) iniziò la colonizzazione nella regione. Ilprogramma del

BILU stabiliva la necessità di incoraggiare e rafforzare

l’immigrazione e la colonizzazione ebraica in Palestina attraverso la fondazione

di colonie organizzate in forma di cooperative. Il primo gruppo di coloni,

costituito da scampati ai
pogrom russi del 1881 giunse in Palestina nel 1882, e si

preparò nella scuola agricola di Mikvé Israel, istituita nel 1870 dall’AlleanzaIsraelitica Universale. I

BILU furono presto emulati dai Chovevé Zión (amici di

Sion), di modo che si sviluppò un flusso di immigrati che continuò fino al 1914.

Intanto, nel 1896, il giornalista austriaco di religione ebraica Teodoro

Herzl – sviluppata una serie di riflessioni in parte indotte dall’ondata emotiva con

cui il caso Dreyfuss aveva colpito il mondo ebraico – pubblicava a Vienna il libro

Judenstaadt, in favore di uno Stato ebraico a tutela degli ebrei oggetto all’epoca

di un montante sentimento antisemita aizzato dalla propaganda delle destre

estreme e reazionarie. L’altro importante evento successivo fu il I Congresso

Sionista riunitosi a Basilea nel 1897, che adottò formalmente la decisione di

costruire la patria statale degli ebrei in Palestina.

La cosa interessante – che ha purtroppo avuto un tragica continuazione – è

che in fondo sia Herzl sia i suoi adepti sionisti si volsero alla Palestina (per i

motivi storico/religiosi sopra accennati) con l’atteggiamento mentale di chi

intenda stanziarsi su un territorio privo di abitanti, atteso che degli interessi degli

arabi palestinesi (all’epoca sudditi del Sultano di Costantinopoli) non se ne

preoccupò nessuno. Tanto, si potrebbe dire, l’impero ottomano era così vasto che

avrebbero potuto benissimo spostarsi da un’altra parte. In questo si può vedere

anche l’esito della mentalità imperialista e colonizzatrice dominante da tempo

nell’Europa occidentale e nel Nord America.

Herzl – con una certa preveggenza politica – ad un certo punto pensò di

cercare l’appoggio della Gran Bretagna per il progetto politico sionista, e nel 1902

arrivò a convincere l’allora ministro delle colonie Chamberlain a permettere lo

studio di un progetto per la sistemazione di popolazione ebraica nel Nord del

Sinai, in quel tempo appartenente all’Egitto, che però di trovava sotto protettorato

britannico. Il progetto si rivelò inattuabile.

Herzl morì nel 1904, ma il movimento da lui fondato si diffuse sempre

più, anche grazie all’appoggio concesso da Lord Rothschild, dal Barone

Rothschild governatore della Banca di Francia e da larghi settori della finanza

ebraica internazionale.

Poco prima della Grande Guerra si erano ormai stanziati in Palestina circa

12.000 coloni ebrei, a fronte dei 44.000 israeliti già ivi residenti e sudditi

ottomani. Le organizzazioni sioniste cercarono di ottenere dal Sultano il permesso

di costituire nel paese una vasta colonia autonoma, senza tuttavia riuscirvi.

Peraltro, le attività di consolidamento della loro presenza proseguirono, ed in

quegli anni Giaffa divenne il centro delle industrie e dei commerci ebraici, ed i

Congresso Sionista decise che a Gerusalemme sorgesse una Università ebraica.

Lo scoppi della guerra mondiale rese ancora più febbrile il lavorio di

pressioni esercitato dai sionisti sul governo britannico (che porterà poi alla

famigerata Dichiarazione Balfour), agevolato dal fatto che in quei frangenti la

Gran Bretagna aveva un disperato bisogno di appoggio finanziario e di aiuto

scientifico, che appunto finanzieri e scienziati israeliti le fornirono. E questo portò

ad un progressivo rafforzarsi dei legami fra il governo di Londra e gli ambienti

sionisti.

La Dichiarazione Balfour.

Nel novembre 1914 il dirigente sionista Herbert Samuel prese contatto con

il Ministro degli Affari Esteri britannico, Edward Gray, invitandolo a farsi

patrocinatore della costituzione di uno Stato ebraico in Palestina, Stato che

sarebbe diventato alleato della Gran Bretagna proteggendo da oriente il Canale di

Suez, e impedendo la formazione – con la sconfitta dell’impero ottomano - di un

possibile e vasto Stato Arabo in Sira e Iraq, oggettivamente contrario agli interessi

di Londra nella zona.

Gray chiese a Samuel di presentare ai membri del Gabinetto un apposito

memorandum, il che avvenne nel gennaio del 1915, ma l’idea non piacque al

Primo Ministro Asquith ed al generale Kitchener Ministro della Guerra; entrambi

erano convinti della necessità di puntare invece sull’aiuto arabo come elemento

fondamentale per vincere la guerra in Medio Oriente contro l’impero ottomano

alleato de Germania e Austria-Ungheria. A motivo delle immediate esigenze

militari sul fronte del Canale di Suez – la Gran Bretagna compì una mossa

destinata a complicare in prospettiva lo scenario medio orientale dopo il

disfacimento del potere ottomano nella Mezzaluna Fertile, impantanando cioè la

politica britannica in una rete di contraddizioni che le avrebbe fatto assumere

palesi connotazioni di doppiezza, e le avrebbe inimicato entrambe le reali parti

interessate dal fenomeno sionista: i sionisti stessi e gli arabi.

Le autorità britanniche, cioè, accolsero le proposte per un’alleanza

antiturca avanzate dallo Sceriffo della Mecca Hussein, della dinastia Hashemita, e

le trattative con Hussein arrivarono a buon punto. Fra Hussein e Mac Mahon, Alto

Commissario britannico al Cairo, intercorse uno scambio di corrispondenza

attraverso cui lo Sceriffo Hashemita intendeva ottenere dalla Gran Bretagna le più

ampie garanzie per costituire, dopo la guerra, uno Stato arabo unitario in tutta

l’Arabia e la Mezzaluna Fertile (vale a dire, in Palestina e negli attuali territori di

Libano, Siria, Giordania, Iraq).

Nella corrispondenza intercorsa fra di essi non si parlò mai in modo

specifico della Palestina, per cui Hussein ed i suoi la considerarono senz’altro

inclusa nel nuovo Stato, mentre Mac Mahon la pensava - nascostamente - in modo

diverso. Alla fine la Gran Bretagna comunicò a Hussein che le sue condizioni

erano state accettate, salvo alcune riserve riguardanti il desiderio di Londra di

conservare una sfera di influenza nella regione di Baghdad e gli interessi

tradizionali francesi nel Levante (Libano). Nel gennaio 1916 venne stipulato

l’accordo arabo/britannico per lo scoppio della Rivolta Araba (di cui il colonnello

Edward Lawrence sarà il più noto personaggio mediatico): Tuttavia, ma nel

successivo mese di maggio le stesse autorità britanniche stipularono con la

Francia l’Accordo Sykes/Picot per la spartizione delle regioni a Nord della

penisola araba in due rispettive sfere di influenza. Questo patto, naturalmente, non

venne reso noto agli arabi, fino a quando i bolscevichi non misero le mani, nel

1917, sugli archivi zaristi e ne dettero pubblica comunicazione: alle inevitabili

proteste di Hussein Londra rispose con mere garanzie generiche.

A complicare la situazione interveniva il fatto che nel 1916 diventò Primo

Ministro britannico Lloyd Gorge e il concomitante peggioramento della

situazione militare sul fronte francese fece prevalere in seno al governo di Londra

l’opinione che fosse di maggiore convenienza favorire in qualche modo i sionisti,

tanto più che essi, come contropartita, avrebbero potuto esplicare tutta la loro

influenza sulla comunità ebraica americana in senso favorevole all’intervento

degli Usa nella guerra a fianco del blocco nemico degli Imperi Centrali. A tale

fine Lloyd Gorge iniziò a contattare il Comitato Sionista, incontrandosi con

Chaim Weizmann il 7 febbraio 1917.

I sionisti manifestarono un’irriducibile opposizione ad un’amministrazione

internazionale o anglo/francese in Palestina, accettando invece di essere posti

sotto protettorato inglese se fosse stata loro concessa la possibilità di un’illimitata

immigrazione, di acquistare terre, e di costituire poi nel paese uno Stato

indipendente. In cambio promisero di esplicare ogni sforzo per fare intervenire in

guerra gli Usa. Prima di prendere accordi definitivi Lloyd Gorge ritenne

opportuno ottenere il consenso della Francia, ed a tal fine i sionisti inviarono un

loro emissario, Sokoloff, a Parigi per trattare con quel governo. La missione non

riuscì, per l’opposizione degli ebrei francesi ostili al progetto sionista ed

influenzati dal Ministro degli Esteri. Alla fine, però, Parigi dette il suo consenso

per le pressioni di Londra.

I sionisti mantennero le loro promesse, e dopo essere entrato in guerra il

governo statunitense fece a sua volta pressioni su Londra affinché rendesse

pubblici i suoi impegni verso il sionismo A questo fine intercorsero trattative fra il

Presidente Wilson, Lloyd Gorge, il Ministro degli Esteri britannico Balfour ed i

capi sionisti, dalle quali derivò la preparazione del testo della Dichiarazione

Balfour del 2 novembre 1917, sotto forma di lettera di quest’ultimo a Lord

Rothschild, membro del Comitato Sionista: «
Caro Lord Rothschild, sono molto

lieto di inviarLe da parte del Governo di Sua Maestà la seguente dichiarazione di

simpatia per le aspirazioni degli Ebrei sionisti, che è stata sottoposta ed

approvata dal Governo. Il Governo di Sua Maestà vede con favore lo stabilirsi in

Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico ed userà i suoi migliori

uffici per facilitare il conseguimento di questo obiettivo, essendo chiaramente

comprensibile che nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi

delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina o i diritti e gli statuti politici

che gli Ebrei godono in ogni altro paese. Le sarò grato se porterà questa

dichiarazione a conoscenza della Federazione sionista. Sinceramente Vostro.

Arthur James Balfour
».

Dal punto di vista linguistico/concettuale è interessante osservare che la

stragrande maggioranza araba della popolazione palestinese fu definita “comunità

non ebraica”: è come se si fosse chiamata “non minoranza” la più parte della

popolazione. Se è vero che non si dà forma senza sostanza, il “lapsus” di Balfour

è rivelatore di un chiaro modo di pensare imperialistico, tanto suo quanto del

mondo sionista.

Va comunque detto che la Dichiarazione non ottenne l’approvazione di

tutti i maggiori esponenti dell’ebraismo britannico. David Alexander, Presidente

del Comitato degli Ebrei Britannici, e Claude Montefiore, Presidente dell’Unione

Ebraica Britannica, affermarono che il fine del sionismo poteva doveva essere la

creazione in Palestina di un centro spirituale e religioso ebraico, non di uno stato

ebraico indipendente. E anche Edwin Montagu, Ministro degli Affari dell’India ed

ebreo, manifestò la sua netta opposizione in vari memorandum, basandola sul

fatto che gli ebrei sono semplicemente membri di una religione e non già un

popolo, per cui non avrebbe avuto senso creare uno Stato per questo “popolo”.

Posizione condivisa nel 1917 in Italia da Luigi Luzzatti. D’altro canto, proseguiva

Montagu, a parte che il sionismo non poteva dirsi rappresentante di tutti gli ebrei,

la Gran Bretagna non poteva violare il principio di autodeterminazione del popolo

della Palestina, che doveva rimanere arbitro del destino del proprio paese. Ma

simili atteggiamenti non erano destinati ad avere successo.

Nel 1917 Londra pubblicò la Dichiarazione Balfour, ma ciò nonostante,

nel giugno 1918, il Residente britannico al Cairo ebbe l’improntitudine di

dichiarare ufficialmente che «
Gli arabi conserveranno la sovranità su tutti iterritori che avranno conquistato con le armi». Tutto ciò fece diventare

sospettosi Hussein e i dirigenti arabi a lui legati, che tuttavia non recedettero da

una linea nel complesso moderata verso la Gran Bretagna, come risulta anche da

una nota presentata il 4 novembre 1918 alla Commissione per l’Oriente del

governo britannico dal colonnello Lawrence. Nella nota si affermava che gli arabi

potevano anche accettare la creazione di un focolare ebraico a condizione che

rimanesse sotto controllo inglese, in cambio di una riduzione al minimo delle

concessioni territoriali alla Francia e della totale libertà per la regione peninsulare

dell’Hedjaz.

Ne risulta quindi che i dirigenti arabi dell’epoca, riguardo al problema di

insediamenti ebraici in Palestina, non andarono mai oltre la linea dell’accettazione

di un semplice “focolare”, né abbandonarono quest’atteggiamento a seguito del

cosiddetto “accordo Weizmann/Feisal” del gennaio 1919, che diventerà uno dei

cavalli di battaglia della propaganda sionista. In realtà Feisal (figlio di Hussein),

nel suo incontro con l’esponente sionista Chaim Weizmann (futuro Presidente

dello Stato di Israele), accettò sì «
l’immigrazione degli ebrei in Palestina su vasta

scala» e «l’insediamento degli immigrati ebrei nelle terre ed una coltivazioneintensiva del suolo

» precisando però che «i contadini arabi saranno protetti nei

loro diritti ed assistiti nella tutela dello sviluppo economico», aggiungendoinoltre, prima di firmare l’accordo, un’importantissima riserva: «

Purché gli arabi

ottengano la loro indipendenza, come richiesta nel mio memorandum datato 4

gennaio 1919 all’Ufficio Esteri del governo della Gran Bretagna, io sarò

d’accordo sugli articoli di cui sopra. Ma se la più piccola violazione dovesse

essere fatta io non sarò allora vincolato da una sola parola del presente Accordo,

che sarà considerato nullo e di nessun conto e validità, né io sarò responsabile in

alcun modo di nulla
».

Quindi, se Weizmann avesse chiarito a Feisal, capo della Rivolta Araba,

che l’obiettivo del sionismo era addirittura la creazione di uno Stato ebraico

indipendente in Palestina, in nessun modo Feisal avrebbe firmato. Invece

Weizmann fu molto abile nel rassicurare il capo arabo e nell’assicurargli che

avrebbe esplicato tutta la sua influenza per fare ottenere agli arabi l’indipendenza.

Finita la guerra ed iniziata a Parigi la Conferenza della Pace, gli arabi

cercarono disperatamente di ottenere dai britannici il rispetto delle promesse

fatte, ma senza alcun esito. Per calmare le proteste arabe nel 1919 gli Alleati

inviarono nel Medio Oriente la Commissione King-Crane, che propose la

creazione di una Siria unita comprendente Libano e Palestina – il che avrebbe

soddisfatto una fondamentale esigenza araba - e sostenne la necessità di apportare

«serie modifiche al programma estremista sionista per la Palestina concernente

l’illimitata immigrazione ebraica, in vista dell’obiettivo di fare della Palestina

uno Stato prettamente ebraico
».In più tale Commissione aggiungeva che «ripetutamente negli incontri

della Commissione con esponenti israeliti è risultato che i sionisti mirano ad una

estromissione praticamente completa degli attuali abitanti non ebraici mediante

varie forme di acquisto
», per cui «La Conferenza della Pace non dovrebbe

chiudere gli occhi dianzi al fatto che il sentimento antisionista in Palestina e in

Siria è intenso e non può essere preso alla leggera. Nessun ufficiale consultato

dai membri della Commissione ritiene che il programma sionista possa essere

attuato se non con la forza delle armi (…). Questo sta a dimostrare da parte della

popolazione non ebraica della Palestina e della Siria un forte risentimento per

l’ingiustizia del programma sionista. Le decisioni che per essere attuate

richiedono l’intervento degli eserciti sono talvolta necessarie, ma certamente non

vanno prese gratuitamente per favorire l’ingiustizia
».

La Conferenza della Pace non tenne in alcun conto queste

raccomandazioni, ed in Medio Oriente la situazione precipitò. Una delegazione

sionista recatasi a Parigi ottenne dalla Conferenza che alla Gran Bretagna venisse

attribuito il mandato sulla Palestina, regime che venne poi approvato nel luglio

1922 dalla Società delle Nazioni, con l’esplicita raccomandazione di rispettare il

testo della Dichiarazione Balfour. Nel 1920 la medesima neocostitutita Società

aveva affidato alla Francia il mandato su Siria e Libano, proprio mentre si riuniva

a Damasco un Congresso Panarabo da cui Feisal uscì nominato re della Siria.

L’intervento armato francese distrusse radicalmente le speranze arabe, atteso che

la Francia si oppose anche alla costituzione della Siria in Stato arabo sotto

protettorato, come invece era stato deciso a Sanremo dalla Suprema Conferenza

Interalleata.

Per cercare di ridurre il montante odio arabo nei suoi confronti, la Gran

Bretagna nel marzo 1921 convocò al Cairo una Conferenza per gli Affari

d’Oriente, in cui Churchill – facendo proprie le proposte di Lawrence – ottenne

che:

a) Feisal diventasse re dell’Iraq e che il mandato su quel paese (concessogli a

Sanremo) si trasformasse in alleanza anglo/iraqena;

b) ad Abdullah, fratello di Feisal, fosse dato il regno di Transgiordania, sotto

mandato britannico;

c) la Gran Bretagna mantenesse il mandato in Palestina per controllare

l’evolversi del focolare ebraico.

Quando ancora non si era del tutto calmato il malcontento arabo in

Palestina, il governo di Londra – cedendo alle ben sostenute pressioni sioniste –

nominò Alto Commissario per la Palestina Sir Erbert Samuel. Agli occhi degli

Samuel arabi aveva una caratteristica poco adatta a garantirne l’equilibrio: era di

religione ebraica. La conseguenza fu che la popolazione locale (come c’era da

aspettarsi) prese la nomina per un affronto, scoppiarono torbidi sanguinosi nel

paese con la morta di parecchi ebrei ed arabi. La doppiezza britannica creò un

solco di odio degli arabi nei confronti di Londra durato per parecchi decenni ed è

alla sua luce che si spiega come, per esempio, Nasser fu subito creduto quando nel

giugno 1967 accusò i britannici di aver mandato aerei in auto di Israele.

I Palestinesi in modo particolare si sentirono brutalmente traditi ed

abbandonati ad un’invasione di stranieri che si comportavano ben presto come

padroni in base alle loro rivendicazioni “bibliche e storiche”. Dal punto di vista

delle dotte contese non era difficile per gli arabi controbattere che anch’essi erano

discendenti di Abramo, in quanto avevano come ascendenteil di lui figlio Ismaele;

che erano stanziati sul territorio da circa 1.300 anni; oppure che era ben opinabile

un asserito diritto storico sulla Palestina vantato da russi, polacchi, danubiani etc.

sol perché di religione ebraica, etnicamente e culturalmente distinti dagli ebrei

palestinesi che per secoli avevano continuato, senza interruzione, ad abitare nella

regione. Ma al di là delle diatribe storico/teologiche i palestinesi erano ben

consapevoli di quello che poi si sarebbe verificato, che cioè il sionismo li avrebbe

ridotti a cittadini di second’ordine se non addirittura di sudditi., alla mercé dei

“veri discendenti di Abramo”. D’altro canto le prese di posizione dei maggiori

rappresentanti del sionismo non erano oggettivamente tali da rassicurare. Nel

1919 Weizmann affermò a Parigi che bisognava fare della Palestina un paese

ebraico così come l’Inghilterra è un paese inglese; e Sylvain Levi sosteneva che,

essendo la Palestina troppo popolata da arabi, gli ebrei non avevano altra scelta

che privarli dei loro beni. C’erano quindi tutte le condizioni perché il nascente e

subito deluso nazionalismo arabo si scontrasse col nascente, baldanzoso e ben

diversamente appoggiato a livello internazionale, nazionalismo sionista.

Gli anni del mandato britannico

Durante gli anni del loro mandato in Palestina le autorità britanniche – con

una sconcertante mancanza di senso della realtà – rimasero attaccate al punto di

vista che gli impegni assunti con i sionisti non erano incompatibili con il

precedente impegno a tutelare i diritti degli arabi, e che la creazione del focolare

ebraico era possibile senza arrecare danno alla popolazione araba, nonostante la

brutale franchezza dei sionisti al riguardo; franchezza che nel 1922 e poi nel 1930

costrinse il governo britannico a due prese di posizione ufficiali sul problema. Nel

1922, Churchill dichiarò che era intenzione della Gran Bretagna creare in

Palestina uno Stato ebraico, ma non di trasformare tutta la Palestina in Stato

ebraico, aggiungendo però che l’immigrazione ebraica doveva essere consentita in

base alla «
capacità di assorbimento del paese». E nel 1930 il governo del

laburista Ramsay Mac Donald respinse le richieste sioniste secondo cui l’obbligo

di istituire il focolare ebraico doveva avere la precedenza su tutti gli altri impegni

assunti dalla Gran Bretagna verso le comunità non ebraiche della Palestina (le

quali, per inciso, si erano unite nella lotta contro il comune pericolo sionista).

Tuttavia a quel punto si ebbe una prova del reale potere dell’influenza della lobby

sionista, in quanto Mac Donald si rimangiò sostanzialmente la dichiarazione.

Durante gli anni del consolidarsi del potere nazista in Germania il numero

degli immigrati ebrei in Palestina crebbe a dismisura, raggiungendo il totale di

60.000 unità l’anno, mentre corrrelativamente si estendeva nel paese il controllo

sionista sulle risorse naturali e sulle pubbliche imprese del paese, quali l’energia

elettrica, l’estrazione di materiali dal Mar Morto e l’irrigazione. Dopo una cruenta

rivolta araba scoppiata nel 1936, la Gran Bretagna inviò nel paese una Reale

Commissione per accertarne le cause e per definire una soluzione del problema.

La Commissione riconobbe finalmente l’impossibilità di comporre il conflitto fra

arabi ed ebrei sionisti, l’irrealizzabilità della politica condotta fino ad allora da

Londra ma, distruggendo praticamente tutti i buoni propositi, indicò come

soluzione la spartizione del paese in due Stati, uno arabo e uno ebraico. Gli arabi

protestarono in massa ed esplosero nuove ondate terroristiche. In termini politici

da parte araba venne reiterata l’esigenza di costituire tutta la Palestina in Stato

indipendente senza forzate inclusioni nel mondo arabo di uno Stato straniero, e di

far cessare l’immigrazione di colonizzatori europei di religione ebraica.

La Gran Bretagna inviò allora in Palestina la Commissione Woodhead per

studiare il progetto di spartizione, ma essa lo dichiarò irrealizzabile. Si decise

quindi di convocare a Londra esponenti arabi e ebrei per una Conferenza della

Tavola Rotonda, estendendo l’invito a Egitto e Iraq, a questo punto

implicitamente riconoscendo la sostanziale unità del mondo arabo che era stata

negata dalla pace del 1919. Poiché non si giunse a nessun accordo, il governo

britannico, per dare soluzione al garbuglio da esso stesso creato, optò per una

soluzione unilaterale: il Libro Bianco. In esso si esprimeva il proposito di

costituire entro dieci anni uno Stato indipendente palestinese in cui arabi ed ebrei

avrebbero ugualmente partecipato al governo e, prima di allora, l’immigrazione

sarebbe stata limitata ad un massimo di 150.000 unità, in modo da lasciare il

rapporto numerico arabi/ebrei nei limiti del 3 a 1. Furono altresì vietati nuovi

acquisti di terre da parte di ebrei.

Gli arabi nell’insieme rimasero soddisfatti dal Libro Bianco, si

tranquillizzarono e non si prepararono al peggio che sarebbe inevitabilmente

venuto per il palese contrasto fra il Libro Bianco e le intenzioni finali

dell’imperialismo sionista. I sionisti, infatti, intensificarono gli sforzi per mettere

a punto un loro apparato militare, in maniera da finire con l’essere abbastanza

forti da costringere prima o poi i britannici ad abbandonare la partita ed

impadronirsi quindi di tutto il paese. Allo scoppi della II Guerra Mondiale, poi si

arruolarono in un certo numero nelle forze armate britanniche, per fare una

preziosa pratica militare e poter vantare un credito morale verso Londra a causa

del contributo fornito nella lotta al comune nemico nazista.

La dichiarazione ONU di spartizione e la prima guerra arabo/israeliana.

Alla fine del secondo conflitto mondiale la questione palestinese tornò ad

essere oggetto dell’attenzione dei politici britannici, anche a causa

dell’intensificarsi dell’attività terroristica delle formazioni paramilitari sioniste

(che nel corso delle loro azioni realizzarono due colpi di rilevante impatto: la

distruzione dell’ambasciata britannica a Roma, a Porta Pia, la collocazione di un

ordigno, che fortunatamente non esplose, nella sede del Parlamento britannico a

Londra, l’attentato al’Hotel King David di Gerusalemme). In Palestina il

contingente militare britannico passò rapidamente a 200.000 unità, nel vano

tentativo di porre fine alle azioni armate di Haganah, Irgun e Banda Stern. Nel

1947 il disegno sionista cominciò a realizzarsi appieno.

In Europa e negli USA – a parte le pressioni filosioniste interne – la

questione finì con l’essere vista esclusivamente alla luce del genocidio perpetrato

dai nazisti, per cui gli arabi non potevano destare soverchie simpatie, anzi erano

facilmente presentabili come degli aspiranti emuli di Hitler nel levante

mediterraneo, in ciò facilitati dalle stesse rodomontate verbali di tanti loro

esponenti. Di modo che pur essendo per lo più semiti si attirarono la taccia di

antisemiti!

Dopo avere inutilmente esperito un ultimo tentativo per comporre

pacificamente la situazione, il 18 febbraio 1947 la Gran Bretagna prese la

pilatesca decisione di deferire all’ONU il problema della Palestina. Il 29

novembre dello stesso anno l’Assemblea Generale dispose la spartizione del

territorio palestinese in due Stati – uno arabo e uno ebraico – di cui vennero

tracciate, più che le frontiere, le zone di rispettiva competenza, disegnando una

mappa a “macchie di leopardo”. Gerusalemme venne internazionalizzata. I

sionisti, in definitiva, ottennero il 56% della Palestina!

Il piano di spartizione prevedeva esplicitamente – oltre ad un’utopistica

forma di unione economica di tutta la regione – che lo Stato ebraico rispettasse i

fondamentali diritti umani, civili e politici degli arabi residenti sul suo territorio, e

riguardo alla questione delle proprietà arabe disponeva che «
Nessuna

espropriazione di terreni posseduti da Arabi nello Stato ebraico sarà permessa se

non per ragioni di pubblico interesse. In tutti i casi di espropriazione, inoltre,

dovranno essere prima dell’esproprio corrisposte tutte le indennità nella misura

fissata dalla Corte Suprema
». Tutte queste disposizioni sarebbero restate lettera

morta.

Tanto ieri (quando ipocritamente si manifestava un formale ossequio al

diritto internazionale) quanto oggi (in cui dal 1992 in poi l’arroganza Usa ci ha

fatto tornare alla dimensione hitleriana del puro diritto della forza e del palese

disprezzo per il diritto internazionale) parlare di problemi giuridici può sembrare

comico. Ma vale la pena farlo solo per chiarire certe situazioni al di là delle stesse

finzioni giuridiche laddove esistono. Sulla titolarità di un potere giuridico

dell’Assemblea Generale dell’Onu a disporre la spartizione della Palestina si

potrebbe discutere assai, non avendo nell’ordinamento internazionale

quest’organo né carattere legislativo né carattere giudiziario, di modo che la sua

risoluzione tutt’al più poteva valere come semplice raccomandazione. Per non

parlare del fatto che l’Onu ha così violato un principio basilare del suo stesso

statuto, cioè la tutela del diritto di autodeterminazione dei popoli. E le popolazioni

di Palestina – gli arabi (cristiani, musulmani, drusi, ed eventualmente atei), gli

ebrei ostili alla creazione di uno Stato di Israele prima dell’avvento del messia,

per motivi religiosi, e gli ebrei sionisti, invece favorevoli – non furono

interpellati.

Dopo tale decisione dell’Onu, durante i sei mesi che precedettero la

proclamazione dello Stato di Israele i sionisti intensificarono le azioni

terroristiche ai danni degli arabi palestinesi (famoso il massacro del villaggio di

Deir Yassin) per indurli ad abbandonare tutto il paese, e le loro forze paramilitari

scorrazzarono ampiamente nella zona assegnata dall’Onu allo Stato arabo. Al che

– dopo il ritiro delle forze armate britanniche – l’intervento militare dei paesi

arabi confinanti, che si verificò il 15 maggio 1948, finiva con l’essere necessario

per difendere i palestinesi vittime delle atrocità e del terrorismo sionista, e privi di

un apparato paramilitare pari a quello ebraico. Cominciava così il primo conflitto

arabo/israeliano, che manifestò subito l’impotenza dell’Onu (il suo mediatore,

conte Bernadotte, fu ucciso in Palestina da terroristi sionisti), e si interruppe

malamente per i palestinesi con gli accordi armistiziali del 1949 fra Israele, da un

lato, e Giordania, Siria, Egitto e Libano, dall’altro lato.

Israele occupò il 77% della Palestina e la maggior parte di Gerusalemme,

Abdullah di Giordania occupò ed annesse la Cisgiordania palestinese, e l’Egitto si

prese la striscia di Gaza. Un milione e mezzo di palestinesi finì profugo a chiedere

la carità dell’Onu, mentre i regimi arabi pensavano alle cose proprie. Va detto, per

quello che vale, che gli accordi di armistizio non contavano nulla che

formalmente pregiudicasse i diritti dei palestinesi. Ma a decidere davvero era la

forza delle armi, che stava nelle mani di Israele.

Un secondo conflitto scoppiò nel 1956, ed anch’esso si interruppe con un

armistizio, il cui assetto fu simile a quello precedente.

Quattro questioni – foriere di ulteriori sanguinosi contrasti – erano state

lasciate irrisolte da questi due armistizi, che comunque non avevano posto fine

alla guerra: il problema dei profughi arabi, la navigazione nel golfo di Aqaba ed

attraverso gli Stretti di Tiran, la navigazione nel canale di Suez, Gerusalemme che

l’Onu aveva internazionalizzato e Israele occupato per una buona metà. Il

problema dei profughi riguardava circa 1.500.000 arabi palestinesi cacciati

brutalmente, o spinti ad andarsene, da un’invasione armata di stranieri europei di

religione ebraica. La propaganda sionista prima, ed israeliana poi, ha sostenuto

che essi in realtà non furono cacciati dal proprio paese, ma se ne andarono

spontaneamente, indotti a ciò dalla perfidia dei capi arabi, che fidando nel rapido

esito dell’intervento degli eserciti di Egitto, Giordania e Siria, volevano avare

mano libera per il massacro degli ebrei, ed evitare di fare vittime fra i propri

confratelli. La bugia è rivelata dallo stesso comportamento dei sionisti prima

dell’intervento degli Stati arabi confinanti. Abbiamo detto che la decisione

dell’Onu fu nel novembre 1947, e l’intervento militare arabo a maggio del 1948:

orbene – tanto per fare due esempi - un dirompente attentato ebraico all’Hotel

Semiramis di Gerusalemme avvenne il 4 gennaio 1948, e la gratuita e terroristica

strage di uomini, donne e bambini arabi fatta dai sionisti a Deir Yassin il 9 aprile

dello stesso anno.

Nel 1948 l’Onu in una sua risoluzione stabilì che «ai profughi desiderosi

di tornare alle loro case ciò fosse permesso non appena possibile, e che si dovesse

corrispondere un risarcimento in cambio delle proprietà a coloro che scegliessero

di non tornare; e per la perdita o il danno alle proprietà, secondo i principi della

legislazione internazionale o secondo equità, il risarcimento dovesse essere

corrisposto dai governi o autorità responsabili». Ma non si è mai fatto nulla in tal

senso per indurre Israele ad ottemperare, anzi è noto che Israele non rispetto

nessuna risoluzione dell’Onu, e nessuno l’ha bombardata per questo, costituendo

un bastione dell’imperialismo Usa nella regione, e un complice per tante azioni

sporche in Medio Oriente e America Latina.

Aqaba e Stretti di Tiran. Israele si affaccia nel golfo di Aqaba in

violazione della risoluzione dell’ONU del 1947, poiché quella zona non le era

stata assegnata, e fu da essa occupata dopo la firma degli accordi di armistizio del

1949, le cui mappe non riportano quella parte di territorio. Il 10 marzo di

quell’anno gli israeliano attaccarono il Negev meridionale, occuparono il

villaggio di Umm Rashrash e vi fondarono poi Eilath. L’Onu non intervenne.

Nel 1950 l’Egitto, per tutelare interessi propri e dell’Arabia Saudita,

occupò le isole di Tiran e Sanafir, che appartenevano a quest’ultimo paese, con il

consenso di Riyad. Nel 1955, l’Egitto, perdurando lo stato di guerra con Israele,

vietò il passaggio degli Stretti alle navi da guerra israeliane e ai mercantili anche

di paesi terzi se si rifiutassero di sottostare ai suoi controlli. La cosa costituì il

“casus belli” per la guerra del 1956 e del 1967, anche se difficilmente il golfo di