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Ma è proprio vero che Paolo era misogino?

di Francesco Lamendola - 19/01/2009


 

È opinione profondamente radicata, e non solo nell'ambito della cultura cosiddetta laica, ma anche in quella cattolica, che San Paolo fosse affetto da una componente piuttosto pronunciata di misoginia o, come minimo, di scarsa stima e di diffidenza nei confronti delle donne.
Ricordiamo, ad esempio, una suora brasiliana - persona peraltro intelligente e simpaticissima - che un giorno, in una cittadina non lontano da Brasilia, ci disse: «San Paolo? Ah, ma quello era un misogino!»; né crediamo occorra andare così lontano per verificare che una simile opinione è estremamente diffusa anche molto vicino a noi, per non dire che è diventata uno di quei luoghi comuni che quasi nessuno si sogna di mettere in dubbio.
Ma è proprio vero che san Paolo non stimava le donne? Vediamo.
Innanzitutto, le donne cristiane compiono un innegabile passo avanti nella emancipazione dallo stato di sudditanza in cui si trovavano le donne ebree nelle loro comunità d'origine, all'ombra della Sinagoga. Per quanto riguarda quelle provenienti paganesimo, specie nell'area di lingua greca, il minino che si possa dire è che la adesione al cristianesimo non ne limitò il ruolo sociale, poiché sia gli Atti degli Apostoli che le stesse Lettere paoline testimoniano dell'attiva presenza di donne all'interno di tali comunità., sovente con funzioni di notevole responsabilità organizzativa e pastorale. E ciò vale anche per quelle presenti nelle comunità dell'area di lingua latina, come è testimoniato, per Roma, dal caso di Priscilla, la moglie di Aquila.
Quanto alla posizione di Paolo nei loro confronti, si citano continuamente le sue parole circa la sottomissione della moglie al marito e, soprattutto, quelle in cui sembra delineare una inferiorità ontologica della donna rispetto all'uomo (nella Prima Lettera ai Corinzi, 11, 7-12; traduzione della «Bibbia di Gerusalemme»):

«L'uomo non deve coprirsi il capo [nelle assemblee], poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell'uomo. E infatti non l'uomo deriva dalla donna, ma la donna dall'uomo; né l'uomo fu creato per la donna, ma la donna per l'uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli [la cui presenza invisibile è garanzia di buon ordine nelle assemblee cristiane: nota nostra.]  Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l'uomo, né l'uomo  senza la donna; come infatti la donna deriva dall'uomo, così l'uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio»

Tuttavia, nel giudicare queste frasi, spesso non si tiene nel debito conto che esse vanno lette nel più ampio contesto di una esortazione alla perfetta concordia e al rispetto reciproco fra i membri dei due sessi, così nella famiglia, come nell'assemblea cristiana; né del fatto che lo stesso Paolo afferma vigorosamente (nella Lettera ai Galati) che la Rivelazione di Cristo ha abolito ogni differenza tra Ebrei e pagani, tra liberi e schiavi, e anche - in senso spirituale - tra uomini e donne: dichiarazione che è una esplicita risposta alle prescrizioni rabbiniche releganti la donna, quelle sì, in una posizione marginale e subalterna, tanto è vero che era consuetudine ringraziare Yahvé, mediante una apposita preghiera, di non essere nati pagani, né schiavi, né… donne.
Inoltre, una delle grandi novità del cristianesimo è stata quella di porre al centro delle relazioni sociali non l'individuo astratto, identificabile in base alla stirpe, al censo, alla professione, eccetera, bensì l'individuo concreto, ossia la persona.
Ebbene, nelle sue relazioni personali con le donne, molte delle quali da lui menzionate nelle Lettere apostoliche, Paolo mostra di nutrire la più grande considerazione per il contributo da esse dato alla diffusione della Chiesa primitiva e il massimo rispetto per esse, in quanto esseri umani e in quanto membri delle comunità.

Scrive Marinella Perroni, docente di Nuovo testamento al Pontificio ateneo S. Anselmo (su «Vita pastorale», Alba, n. 1 gennaio 2009, pp. 85-86):

«… La tradizione che attesta la misoginia di paolo è lunga e compatta e no  deve stupire che le esegete femministe, all'inizio, abbiano attribuito proprio a Paolo la plurisecolare esclusione delle donne dalla partecipazione attiva alla vita delle Chiese. Non c'è dubbio che il divieto a prendere la parola nelle assemblee della prima Lettera ai Corinzi (14, 34 s.) il monito a indossare il velo come segno di subordinazione (idem, 11,4-10; 13-16), l'esortazione a rispettare una subordinazione creaturale voluta da Dio stesso (idem, 11, 3; 11, 12) o a sottomettersi ai propri mariti (Efesini, 5, 22-24) hanno fortemente improntato la successiva tradizione perché hanno fornito saldo fondamento apostolico a una prassi ecclesiale progressivamente  sempre più discriminatoria.
Un'esegesi attenta di questi passi incriminati e, soprattutto, del contesto letterario in cui si trovano e delle situazioni storiche cui si riferiscono ha smorzato notevolmente la loro caria misogino e ha dato ancor maggior rialto all'uso tendenzioso e intimidatorio che è stato fatto, invece, di essi. Sganciati dal loro contesto e, soprattutto, collezionati insieme come attestazione della concezione paolina delle donne, questi testi si rivelano invece del tutto disomogenei rispetto all'insieme del pensiero dell'Apostolo e, soprattutto, al suo intento e ala sua pratica missionari.
D'altra parte, i pochi decenni che separano la composizione della grande paolina da quella della prima lettera di Clemente, indirizzate entrambe alla comunità cristiana di Roma, segnalano che in un lasso di tempo molto breve un processo di clericalizzazione e di gerarchizzazione ha trasformato radicalmente il volto della Chiesa di Roma. Un processo che ha portato alla marginalizzazione delle donne.
Se mai esse sono state escluse dalla partecipazione alla salvezza e, quindi, dai sacramenti, molto presto hanno invece visto negata ogni possibilità di esercizio di responsabilità apostolica o ecclesiale. Possiamo attribuire a Paolo una responsabilità diretta in questo rapido quanto inquietante processo di emarginazione ecclesiale delle donne? Basta ribaltare il punto di osservazione per rendersi conto che l'accusa di misoginia nei confronti di Paolo è tutt'altro che fondata.
Ribaltare la prospettiva significa partire dalla considerazione in cui Paolo tiene le donne cristiane con cui ha condiviso impegno missionario, preoccupazione apostolica e responsabilità ecclesiale. Al riguardo, tanto gli Atti degli Apostoli che l'epistolario paolino ci consentono di tracciare un quadro di grande interesse. Fin dal primo momento, d'altro canto, Paolo è venuto a contato con un cristianesimo che non conosceva alcuna discriminazione a partire dal sesso, dato che sono stati oggetto della persecuzione sia uomini che donne che avevano aderito alla fede in Gesù (atti, 9, 2).
La sua predicazione si è rivolta alle donne e, tra loro, ha conosciuto un grande successo (idem, 17,4; 12, 34) ed egli ha avuto a che fare con figure femminili autorevoli a capo di comunità cristiane locali come, per esempio, Lidia (idem, 16, 14-15, 46) o Prisca che, con suo marito Aquila, ospitava i raduni delle comunità cristiane nelle diverse città in cui si trovavano a risiedere (idem, 18,1, 26 s.).
Non sappiamo se per lui, fariseo ed educato nell'osservanza della Legge (Filemone, 3, 3-6) sia stato facile accettare una fede che non prevedeva né discriminazioni teologiche, né rituali nei confronti delle donne. La caratteristica più specifica della sua teologia, cioè l'universalismo della salvezza operata da Cristo attraverso la sua morte e risurrezione, non poteva certo coniugarsi con l'esclusione delle donne dalla salvezza. Per questo in Galati, 3, 26-28 l'apostolo fa propria un'antica forma battesimale che riflette appieno il carattere totalmente inclusivo della fede in Gesù ijn cui si compie la promessa altrettanto inclusiva di Dio ad Abramo.
Apostole come Giunia, che paolo conosce all'opera durante la sua missione, o come Maria, Trifena e Trifosa, che incoraggia nella loro fatica apostolica nei confronti della comunità di Roma, missionarie come Prisca, diacone come Febe, sono donne che Paolo menziona con rispetto alla fine della lettera ai Romani (16, 1-16). Sono donne che Paolo ha incontrato, con cui ha collaborato, che lo hanno aiutato. Poteva una predicazione che rifiutava ogni forma d razzismo essere misogina? Il suo ricordo delle tante donne che, prima di lui e insieme a lui, hanno diffuso l'Evangelo e fondato le comunità dei discepoli di Gesù è la risposta più chiara ed efficace a questo interrogativo.»

Ed Elena Bosetti, sul medesimo tema dell'amicizia e della stima personale fra Paolo e alcune donne delle prime comunità cristiane, particolarmente evidente nelle chiuse delle sue Lettere, riservate ai saluti, osserva (su «Jesus», Alba, n. 1 gennaio 2009, pp. 100-102):

«… Nella Lettera ai Galati (3, 27-28) risuona un forte grido di libertà, contro ogni discriminazione di tipo razziale, sociale e sessuale: "Non c'è Giudeo né Greco; non c'è schiavo né libero; non c'è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù". Questa dichiarazione suona decisamente antitetica ai pregiudizi sottesi al triplice ringraziamento di una preghiera di origine rabbinica, ancora vigente: "Benedetto sei tu Signore… perché non mi hai fatto pagano, perché non mi hai fatto donna, perché non mi hai fatto schiavo". In Cristo, insomma, cessano le discriminazioni, non è più rilevante l'identità etnica o il prestigio sciale, e nemmeno l'essere maschio o femmina.
Questa nuova consapevolezza trovava piena espressione nella prassi liturgica dove uomini e donne, indipendentemente dal loro ceto sociale, si riunivano per celebrare insieme la cena del Signore. Tale consapevolezza della fondamentale uguaglianza e dignità era in se stessa rivoluzionaria e l'Apostolo non l'ha certo soffocata. Egli teneva in grande conto la dignità e i carismi della donna. La "corsa della Parola" non deve forse molto alla capacità femminile d tessere reti di comunicazione? Paolo non è cieco nei confronti della "fatica" delle donne, si rende perfettamente conto del loro prezioso ministero nell'opera di evangelizzazione e lo apprezza. Al riguardo sono eloquenti le sezioni conclusive delle sue Lettere, riservate ai saluti. Non hanno il prestigio dei brani dottrinali, ma sono fonti di prima mano per la ricostruzione storica del ruolo delle donne nelle comunità missionarie del primo cristianesimo. Inoltre dicono chiaramente i sentimenti di stima, di gratitudine e affetto grande per numerose donne che Paolo chiama per nome. Traspare la ricca umanità dell'Apostolo, la sua vasta rete di conoscenze e di relazioni femminili. (…)
La Chiesa nasce essenzialmente come "domus ecclesiae", "chiesa domestica". Il suo ambiente d'origine non è il tempio e neppure la sinagoga, ma la casa (vedi Atti, 2, 46). E all'interno della casa, anche se non menzionata, troviamo la donna. È lei che favorisce un ambiente accogliente e un clima di ospitalità. E talvolta anche un servizio di animazione e una funzione di guida. I missionari del vangelo debbono molto a donne come Lidia, la ricca commerciante di Porpora che a Filippi insiste per accogliere Paolo e compagni: "Li costrinse ad accettare", annota Luca (Attii, 16, 14). La casa di questa donna europea diventa il grembo della chiesa di Filippi e centro propulsore del Vangelo.
Nella Lettera a Filemone l'Apostolo esorta due donne di spicco, Evodia e Sintiche, a trovare un accordo nel Signore. Non sappiamo la ragione del loro dissenso, forse divergenze pastorali. Paolo ricorda che "hanno combattuto per il Vangelo" al suo fianco. Sono dunque missionarie convinte e generose, fino ad esporre la vita per la causa del Vangelo. Mi piace notare un altro dettaglio in questa lettera, unico caso nel Nuovo Testamento, Paolo fa il nome di una donna già nell'intestazione. La lettera non è indirizzata soltanto a Filemone (come abitualmente si dice), ma anche alla "sorella Apfia", probabilmente la moglie di lui. Colpisce il tono caldo e personalissimo di questo scritto e la forza persuasiva delle ragioni affettive: una schietta amicizia lega Paolo a questa casa in cui si raduna la Chiesa e in cui desidera anche lui trovare alloggio appena uscirà dal carcere.»

Bisogna osservare, inoltre, che la psicologia di Paolo, e specialmente la sua affettività, rivelano traccia di una sensibilità femminile, e più specificamente materna, specialmente nella estrema, amorevole sollecitudine e nella dolcezza protettiva che dispiega nei confronti delle sue creature, le prime comunità cristiane di origine pagana da lui fondate in Asia Minore, in Grecia e in Macedonia (e molte delle quali, ironia della storia, dopo essere state il nucleo originario della nuova religione destinata a conquistare l'Impero Romano, sono poi scomparse per sempre, travolte dall'ondata islamica di sette secoli successiva).
Paolo è un emotivo, un affettivo, un entusiasta; e si distacca, in ciò, da tutti gli altri autori del Nuovo Testamento, i quali non lasciano trapelare facilmente i propri sentimenti, nemmeno nelle circostanze che più vi si presterebbero, come è il caso di una lettera pastorale; nessuno come lui fa sentire il lato femminile del Dio predicato da Gesù, accanto a quello tradizionale maschile di origine ebraica. Yahvé è decisamente un Dio virile, mentre il Dio dei cristiani possiede sia caratteri paterni che materni: cosa che risulta perfettamente coerente se si riflette che l'attributo predominante in Yahvé è la giustizia, non di rado implacabile; mentre quello del Dio dei cristiani è, senza dubbio, l'amore, e quindi la disposizione alla compassione e al perdono (cfr. le parabole del figlio prodigo, del buon samaritano, della pecorella smarrita).
Ebbene, Paolo è perfettamente su questa linea teologica e non solo per motivazioni d'indole dottrinale, ma anche per la costituzione del suo carattere, come è stato bene osservato da Albert Vanhoye, già rettore del Pontificio Istituto Biblico, nel suo libro «Pietro e Paolo» (Casale Monferrato, Piemme Edizioni, 1996, pp. 113-114):

«… Lungi dall'essere lasciata fuori e dall'atrofizzarsi, l'affettività dell'apostolo è stata sviluppata, amplificata in tutte le direzioni., è una cosa meravigliosa, nelle lettere dell'Apostolo. Paolo, cioè, non ha sviluppato soltanto la sua affettività maschile, nel senso paterno, nel senso fraterno e nel senso maritale, ma ha sviluppato anche in se stesso l'affettività femminile, di una madre. Egli si sentiva padre dei suoi cristiani e, al tempo stesso, fratello loro nella fede; si presenta come un innamorato geloso, e in più come una madre piena di tenerezza e di generosità. In Galati, 4, 19 (…) giunge a scrivere che sta provando i dori del parto: "Figliuoli miei, che io d nuovo partorisco nel dolore, finché non sia formato Cristo in voi". Non era possibile adottare più completamente l'affettività femminile materna.
In tutto questo, la cosa più ammirevole è che questa affettività, forte e appassionata, non si applica a poche persone, le più care, ma a comunità intere. D solito, sentimenti così intensi si provano solo nell'ambito di una relazione interpersonale ristretta, più spesso tra due persone -un ragazzo e una ragazza -; o tra una persona e poche altre - la madre e i figli. Se cresce molto il numero delle persone, per forza diminuisce l'intensità dei sentimenti. Non è possibile innamorarsi di un gruppo di cento persone.. Eppure Paolo se ne mostra capace. (…)
L'amicizia è un bel dono di Dio, ma il casi di paolo è diverso: paolo dimostra un amore intenso, non per questa o per quella persona più cara, ma per l'intera comunità. In questo si manifesta, mi pare, una purificazione straordinaria dell'affettività, nel senso di un'apertura sconfinata che presuppone il superamento completo dell'egoismo affettivo, che ci è spontaneo.(…) Ha superato il dilemma, nel quale di solito siamo rinchiusi, tra amare molto e amare molti, cioè tra affetti intensi e ristretto a poche persone e affetti largamente aperti, ma poco intensi.»

Sono osservazioni pertinenti, indipendentemente dal giudizio che si voglia dare su altri aspetti del carattere di Paolo; lo stesso Vanhoye, del resto, non nasconde né minimizza quelli meno spirituali, a cominciare da una certa tendenza a porsi al centro della scena e a vantarsi delle proprie umane fatiche, a volte con un candore addirittura disarmante.
In conclusione, ci sembra che un uomo dotato di una tale ricchezza affettiva e di una sensibilità così intensa, addirittura materna, non potesse disprezzare la donna in quanto tale; pur condividendo, per determinati aspetti, la mentalità dominante del suo tempo, che non era certo favorevole a un riconoscimento integrale della parità tra i sessi.
Ma è giusto e storicamente plausibile fargliene carico, come se tale atteggiamento dipendesse proprio da lui, quando nella civilissima Svizzera, ancora pochi ani addietro, le donne erano escluse dall'esercizio del diritto di voto?