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Il mesto addio dell'uomo peggiore

di mazzetta - 20/01/2009

 

George W. Bush è il presidente americano che ha protetto il maggior numero di miglia quadrate dallo sfruttamento umano, trasformandole in parchi o “monumenti” nazionali. Sembrerà strano a chi ha memoria di quel George che ha fatto falsificare i rapporti delle agenzie nazionali americane sul clima e sullo stato dell'ambiente, o a chi lo ricorda come il presidente di una “olio-garchia” che si è spesa alla morte per trivellare nei parchi e nelle riserve o, ancora, a chi lo rivede impegnato a decretare lo spostamento dei SUV nella categoria dei furgoni, per esentarli dall'obbligo di ridurre i consumi, o nel ridurre i limiti alle emissioni inquinanti per l'industria. Eppure è vero. La storia di George come recordman della protezione ambientale è paradigmatica di tutta la sua presidenza, perché, pur essendo vera, è una truffa.

L'enorme area che Bush ha “protetto” con uno degli ultimi decreti, pochi giorni prima del suo addio al potere, si trova compresa tra le Isole Hawaii, Guam e le Isole Marshall, si tratta di un parco oceanico. Ovviamente Bush si è guardato bene dall'estendere la protezione alle zone troppo vicine alle coste e dal tutelare un'area più ampia come proposto dagli ambientalisti, giusto l'area più lontana da ipotesi di sfruttamento. Altrettanto ovviamente Bush non ha decretato altro in tema di protezione ambientale durante il suo mandato, ma tanto gli è bastato per inserire nella sua biografia questa benemerenza da ambientalista. C'è chi in questa occasione lo ha descritto come uno che ha trovato una medaglia per terra e se l'è appuntata in petto.

Per un campione delle energie fossili, grande nemico di tutte le ipotesi di limitazione di qualsiasi inquinante, basta è avanza. A George interessa cosa penseranno di lui le generazioni future e sembra tenerci davvero, tanto che i suoi amici si sono messi di buona lena e si sono pure inventati che leggerebbe oltre cento libri all'anno, libri tosti tra l'altro.

La fuga di George nel futuro è comprensibile, visto che il presente gli riserva il titolo di “worst president ever”, un presidente anche peggiore di Nixon, per stare al dopoguerra americano. Proprio da Nixon discende l'ispirazione politica della dirigenza repubblicana che ha portato alla presidenza George, come già vi aveva portato prima Reagan e poi lo stesso padre di George. Un gruppo di potere unitissimo e saldamente collegato alle grandi corporation americane, prime tra tutte quelle petrolifere. Un gruppo che ha messo le sue radici nel partito repubblicano tra la prima e la seconda guerra mondiale e che ancora oggi è in splendida forma: nonostante McCain e nonostante Sarah Palin, non sono poi arrivati troppo distanti da Obama.

George W. Bush è il figlio di un intreccio di amicizie e d’interessi che domina completamente il partito repubblicano, nel quale confluisce l'elite militare economica e religiosa wasp e dal quale si diparte un'organizzazione del consenso che permette di blindare il partito repubblicano. Un blocco di consenso che si perpetua grazie al controllo e all'uso professionale dei media, ma anche grazie al sistema elettorale americano che esclude gran parte dei cittadini dal voto, permettendo di governare rappresentando una minoranza.

Così una mattina di novembre del 2000, George W. Bush, rampollo di una famiglia dell'elite americana, si è svegliato presidente, anche se non ne era del tutto sicuro perché nella Florida, governata da suo fratello Jeb, c'erano contestazioni. Poi Al Gore, il suo sfidante, riconobbe magnanimo la sconfitta e delle irregolarità non si parlò più. Queste vennero poi dimostrate e la signora repubblicana che in California comandava il processo elettorale, venne promossa. George si fece subito notare per le sue assenze, che avrebbero fatto di lui il presidente più assenteista della storia americana, nonostante i suoi due mandati siano stati densi di eventi importanti. Stranamente anche il suo secondo mandato risulterà poi inquinato da brogli elettorali, questa volta in Ohio perché in Florida erano tutti lì a controllare.

Poi una mattina del settembre del 2001, mentre leggeva un libro insieme ai bambini di una scuola, qualcuno disse a George che l'America era under attack. Una seccatura terribile, ma anche una splendida opportunità per chi avesse i mezzi per coglierla e quelli erano tutti attorno a George, che si fida molto del gruppo che lavorò accanto a suo padre. Se ne fida forse troppo, se è pur vero che proprio suo padre fu molto più avaro di consensi verso certe loro idee originali. George allora non trovò nulla di male nel dichiarare che l'America era in guerra, c'è da star sicuri che l'idea di assumere i poteri pressoché illimitati che gli Stati Uniti concedono al comandante in capo gli sia piaciuta fin da subito. Così come gli piaceva sicuramente l'enorme solidarietà che il suo paese riscuoteva all'indomani dell'attacco; peccato poi che abbia fatto tutto il possibile per alienarsela attaccando il buon senso prima ancora che l'Iraq.

Con poteri eccezionali si presentò l'occasione di compiere abusi eccezionali e così l'elite statunitense si fece un po' prendere la mano. Mentre il complesso militar-industriale invadeva l'Afghanistan e fabbricava pretesti per l'invasione dell'Iraq, le grandi corporation stendevano le loro ali sui mercati e sulle istituzioni internazionali: Fondo Monetario Internazionale, World Bank e, qualche anno dopo, anche l'ONU, dove il docile Ban Ki Moon non attirerà nemmeno una delle critiche con le quali la Casa Bianca ha bombardato per anni Kofi Annan. L'unilateralismo dell'unica potenza mondiale divenne ben presto prepotenza e sopraffazione, la persecuzione nei confronti del capo dell'AIEA (Agenzia Atomica Internazionale) El Baradei è stato il punto oltre il quale gli Stati Uniti sono entrati in guerra con le leggi e le istituzioni internazionali.

Tutto doveva cedere di fronte ai poteri eccezionali, tanto che lo stato dell'eccezione diventò la regola. Enumerare i momenti nei quali l'amministrazione di George ha fatto stracci delle leggi americane ed internazionali sarebbe esercizio non meno lungo e tedioso di quello di fare l'elenco dei suoi misfatti contro l'ambiente o contro l'economia; molto più interessante è invece cercare di ricostruirne la ragione fondante. Esercizio non difficile, perché se c'è in filo rosso che lega tutte le decisioni di George è quello di far guadagnare i propri amici. Nessun'altra amministrazione americana è mai stata tanto lassista nel tenere i conti, mai nessuna è stata tanto arrogante, mai nessuna amministrazione americana ha mai promosso una tale massa d’incompetenti a funzioni pubbliche sulla sola base della fedeltà alla stessa.

Nei fatti l'amministrazione Bush si è mossa come si muoverebbe una cosca mafiosa che avesse la ventura di prendere il potere in un qualsiasi paese. Come una mafia ha parassitato l'apparato statale, si è alleata con tutti i poteri costituiti e ha fatto della violenza e dell'inganno le chiavi per arricchirsi e per esercitare il comando. Di tutto questo George non deve aver capito molto, ma abbastanza per sapere che certe cose non si dovevano fare. Sapeva che la tortura non è legale, sapeva che l'Iraq non era una minaccia, sapeva che l'astinenza sessuale non è una strategia vincente contro il contagio da AIDS o la piaga delle minorenni incinte.

Ma George è un uomo che questi pensieri li trattiene malvolentieri e alla fine il suo momento di autocritica non è stata una gran cosa, gli è venuta in mente solo l'esibizione sulla portaerei con lo striscione “Mission Accomplished” da mettere tra le cose che non rifarebbe. A quelli che gli hanno ricordato cosucce come l'Iraq, l'uragano Katrina o il disastro economico, la sua risposta è stata sfacciatamente lunare. Ha detto che la guerra in Iraq è stata vinta con il “surge”, che ha risposto bene a sette uragani e mezzo su otto e che l'economia è andata benissimo per due anni e male solo per un quadrimestre.

Che sia uno sciocco in buona fede non lo crede nessuno, ma sono ancora meno quelli che lo ritengono meno di un disastro, una piaga biblica che si è abbattuta sull'inizio del secolo. Tra questi c'è il nostro Silvio Berlusconi, che ha sempre desiderato comparirgli accanto in fiera lotta con lo staff americano che non lo voleva vicino a George perché ne avrebbe indebolito l'immagine. Berlusconi è stato l'unico leader che negli ultimi tempi ha ritenuto opportuno coprire servilmente Bush di complimenti e il governo italiano è uno dei pochi che non manderà un rappresentante all'insediamento di Obama.

Ora per George si apre un capitolo denso d’interrogativi; anche se nessun presidente americano è mai finito in prigione, lui e i suoi hanno fatto troppi danni agli Stati Uniti per pensare che non ci possano essere strascichi. Mentre Obama seguirà a ritroso le sue orme per ottenere consensi, negli Stati Uniti c'è un sacco di gente che coltiva l'idea di disturbare il futuro di George e dei suoi amici. E sono tanti, perché alla fine della giostra sono molti di più quelli che nei due mandati della banda di Bush ci hanno rimesso di quelli che ci hanno guadagnato. Purtroppo per George sono la maggioranza anche al Congresso degli Stati Uniti e sarebbe davvero curioso che decidessero di “forgive and forget”, perdonare e dimenticare in nome della solidarietà di classe.

A dispetto di quello che sostiene il Wall Street Journal di Murdoch, che ha addirittura chiesto il perdono di Lewis “Scooter” Libby, dipingendolo come “un martire della guerra all'Iraq e sostenendo che la questione del suo perdono sia più importante della crisi economica, ci sono molti americani che credono che non perseguire l'amministrazione Bush equivarrebbe a costituire un precedente che impedirebbe in futuro di punire qualsiasi malversazione e delitto da parte del governo.

George Walker Bush se ne va. Dietro di lui restano macerie in ogni parte del mondo e il risentimento di quasi tutti gli abitanti del pianeta, che l’ha reso l'uomo più disprezzato del secolo appena cominciato. Chi l’ha incensato e sostenuto, tace da tempo il silenzio della colpa e della vergogna.