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L'origine della crisi globale

di Mauro Tozzato - 22/01/2009

 

 

Sul Corriere del 21.12.2008 è apparso un articolo di Fareed Zakaria (1), autore di un noto libro tradotto recentemente anche in italiano, intitolato The Post-American World (L’era post-americana, Milano, 2008). Zakaria scrive:

 

<<Quando esamineranno la crisi, gli storici futuri ne vedranno probabilmente la causa nei successi dell’economia. Mi rendo conto che è strano parlare in questi termini di eventi caratterizzati da panico, inesigibilità dei crediti e crollo delle Borse. Si considerino però le condizioni che hanno determinato questo stato di cose. Negli ultimi vent’anni il mondo ha avuto stabilità politica, un basso tasso di inflazione e una massiccia espansione economica che ha coinvolto quasi 3 miliardi di persone. Molti paesi del pianeta sono cresciuti a livelli inimmaginabili in precedenza (nel 2006 e 2007, sono stati 124 i Paesi cresciuti a un ritmo superiore al 4% annuo). Guerre, conflitti civili e terrorismo hanno causato meno traumi politici che nei decenni – forse addirittura nei secoli – passati.>>

Nel ragionamento dello studioso indiano sembra emergere una sorta di elogio della fase monocentrica emersa dopo l’implosione del “blocco sovietico”. In realtà dopo pochi anni si è assistito ad un aumento del disordine globale e all’inizio di quell’evoluzione verso il multipolarismo che potrà portare nei prossimi decenni all’emergere di una fase propriamente policentrica. D’altra parte però Zakaria nega anche, penso giustamente, che l’attuale grave crisi abbia la sua origine nell’incapacità “assoluta” del sistema economico-politico guidato dagli USA – ridivenuto “mondiale” dopo il 1989-91 - di superare la cosiddetta stagflazione iniziata a metà degli anni Settanta del secolo scorso. Questa ipotesi infatti, prima di tutto, parte dalla sola osservazione di quello che veniva chiamato in quell’epoca Primo Mondo (l’Occidente a guida USA) e in secondo luogo nega che le politiche economiche che si sono susseguite da allora, pur attraverso molti “fallimenti”, abbiano comunque rilanciato – per un periodo relativamente lungo - lo sviluppo nelle aree centrali a guida americana; un rilancio determinato, oltre che dalla cosiddetta  “ristrutturazione produttiva”, soprattutto da alcune significative innovazioni di prodotto (come quelle relative all’informatica e alla robotica).

Passando a considerare la genesi della crisi attuale - sempre in riferimento agli ultimi venti anni - così poi si esprime Zakaria:

<<In campo economico, prosperità e tasso di inflazione contenuti hanno dato luogo a due importanti fenomeni: crediti a basso costo e nuove ingenti concentrazioni di capitali. Le economie emergenti dell’Asia (e poi i paesi produttori di petrolio del Medio Oriente) hanno accumulato un’eccedenza di denaro senza precedenti. Si aggiungano ancora due vecchi vizi del genere umano, l’avidità e la stupidità, e si comincerà a capire come si sia potuta verificare la crisi attuale. Certo, il problema è che gli Stati Uniti e qualche altra economia occidentale consumavano troppo  - molto di più di quel che producevano – e compensavano la differenza indebitandosi. Ma se l’America spendeva troppo, l’Asia risparmiava troppo. Tutti quei risparmi – qualcosa come 10.000 miliardi di dollari – dovevano andare da qualche parte, e per vent’anni sono finiti soprattutto negli Stati Uniti, che erano considerati, con qualche ragione, il luogo migliore e più sicuro per investire. Questo ha portato al credito facile e ai vari crac che si sono susseguiti negli Stati Uniti.>>

Zakaria ritorna qui  a riproporre alcune delle spiegazioni più diffuse dell’attuale crisi: gli IDE verso gli Stati Uniti fino ad un certo punto hanno compensato il deficit della bilancia commerciale ma poi le cose sono cambiate; la speculazione in Borsa e il credito “a ogni costo” erano diventate le forme di investimento più facili e remunerative; la bolla immobiliare negli USA e in Europa si era gonfiata a dismisura. In effetti  si può convenire che si era creata una sorta di domanda globale fittizia la quale alimentava anche molte attività economiche reali con la conseguenza che l’implosione finanziaria sta ora producendo una recessione e una deflazione violenta soprattutto nell’economia reale; negli anni Settanta la crisi finanziaria e la recessione non erano risultate della dimensione attuale mentre il sistema e la “leva” monetaria che erano andate “in tilt” (malgrado gli esorcismi di Milton Friedmann) avevano fatto impazzire la dinamica dei prezzi producendo, appunto, la già ricordata stagflazione. La politica dei redditi - in una situazione di stagnazione e praticata quasi esclusivamente dal lato del lavoro salariato - ha comunque prodotto un rallentamento della dinamica inflattiva ma giunti a questo punto finiscono le spiegazioni economicistiche e bisogna passare ad altre considerazioni. La fine dell’”età dell’oro”, per lo sviluppo economico, del “secondo dopoguerra” non era stata accompagnata, infatti, da un vero declino di quella sorta di monocentrismo bipolare che ha caratterizzato il periodo della cosiddetta Guerra Fredda mentre la gravità della crisi attuale risulta essere - come da sempre sosteniamo in questo blog – legata fortemente al livello di disordine politico e geostrategico globale raggiunto in questa fase. Proseguendo nel suo discorso l’allievo di Huntington mette in luce l’importanza che, secondo lui, rivestono i governi e le istituzioni politiche e economiche nel combattere le crisi:

<<… gli interventi governativi combinati alla fine funzioneranno. Perché lo dico?Perché i governi sono più potenti dei mercati. Possono chiudere i mercati, nazionalizzare le società e stabilire nuove regole. Inoltre Washington ha un altro potere particolare, quello di stampare denaro. Gli interventi governativi sono valsi a stabilizzare il capitalismo già in altri casi. […]Tra il 1854 e il 1919 l’economia degli Stati Uniti aveva una fase di contrazione ogni 49 mesi, negli ultimi vent’anni le contrazioni si sono verificate ogni 100 mesi. Molti fattori hanno contribuito a questi cambiamenti, ma la ragione principale va cercata nella politica monetaria e fiscale di Washington.>>

Una delle frasi sopra riportate sembra far riferimento alla questione del presunto “signoraggio” del dollaro. Non avendo approfondito questa tematica mi limito a fare una breve osservazione. L’idea del “signoraggio” rimanda ad una visione del sistema economico globale in cui la potenza dominante viene presentata come l’unico Stato-Impero rispetto al quale tutti gli altri stati appaiono delle semplici “province”: in questa condizione l’unica divisa a corso forzoso con capacità e validità liberatoria assoluta è quella che proviene dal centro. In una fase storica caratterizzata da un monocentrismo “forte” una visione del genere - che noi riteniamo comunque errata - può apparire relativamente plausibile; al contrario in una fase multipolare che tende al policentrismo essa risulta del tutto fantasiosa e irrealistica. Per quanto riguarda le politiche dei governi e degli stati e il loro rapporto con le crisi sistemiche, Zakaria è consapevole che per risultare efficaci esse devono strutturarsi in modo fortemente coordinato da una “forza” statuale centrale dominante ed, infatti, così l’economista indiano si esprime:

<<L’attività economica e sociale è globale, ma il potere politico è locale. I problemi economici, sociali e politici spesso superano i confini, ma le soluzioni tendono a essere trovate dai governi nazionali, che salvaguardano gelosamente la loro sovranità. Se non risolveremo questo problema di fondo, dovremo aspettarci altre crisi, di vario tipo. E dovremo aspettarci risposte limitate e inefficaci, che a lungo andare potrebbero indurre i Paesi a muoversi in modo miope e nazionalistico, creando una maggiore instabilità globale e minando la pace e la prosperità.>>

La Grassa e il nostro blog auspicano proprio l’opposto di quello che spererebbe Zakaria però si può apprezzare il fatto che egli abbia imparato in buona parte la lezione della scuola realistica (in economia e politica) americana e che, guarda caso, nella maggior parte dei casi fa riferimento alla tradizione dei conservatori. Per concludere mi pare utile citare un ultimo estratto del suo articolo che si può in buona parte condividere:

<<Il vero problema che oggi abbiamo dinanzi non è la crisi del capitalismo, ma la crisi della globalizzazione. Il nuovo mondo che sta nascendo non scomparirà. Non ritorneremo a un sistema dominato da un piccolo gruppo di Paesi raccolti attorno all’Atlantico. I fenomeni responsabili dell’avvento dell’economia globale, e quindi della crescita del resto del mondo, hanno carattere strutturale e sono in atto da decenni.>>

(1)   Fareed Zakaria (Mumbai, 20 gennaio 1964) è un giornalista indiano che si è specializzato nei rapporti di politica ed economia internazionale.
Esquire lo ha descritto come «il consigliere più influente di politica estera della sua generazione» e come «una delle 21 persone più importanti del ventunesimo secolo». Figlio di Rafiq, scrittore e politico indiano, Zakaria si è laureato in
storia all'Università Yale e dopo aver studiato politica internazionale ad Harvard, sotto Samuel P. Huntington, è diventato a sua volta libero docente. Dal 1992, all'età di 28 anni, fino al 2000, Zakaria è stato redattore incaricato del giornale Foreign Affairs, il principale giornale di politica internazionale e di economia. Dal mese di ottobre del 2000, è redattore di Newsweek International, rivista che raggiunge un pubblico di 3,5 milioni di persone in tutto il mondo. Vive a New York con la moglie, Paula Throckmorton-Zakaria, il figlio e la figlia.