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Obama, l’America virtuale e l’etere velenoso del capitalismo reale. Intervista a Costanzo Preve

di Luigi Tedeschi (a cura di) - 22/01/2009

 

 

1) Con Obama sembra sia nata una nuova America. Chi non ha esaltato Obama quale primo presidente americano di colore, che inaugura una nuova epoca americana, quale demiurgo dei nuovi tempi, immagine volta a riaffermare il primato morale e politico Usa nel mondo? Non a caso si è affermato: “Nulla è impossibile all’America”. I Vangeli affermano altresì: “Nulla è impossibile a Dio”. L’America è quindi identificata con Dio, data la sua vocazione messianica, che sembra rievocare la “nuova frontiera” di kennediana memoria. L’America ha sempre di fronte, nel tempo e nello spazio, una nuova frontiera dai confini globali da superare, quale portatrice di diritti umani, democrazia e liberismo, elargiti spesso a mano armata. La subalternità dell’Europa, sempre in attesa di eventi messianici di provenienza atlantica, è evidente. Forse il filoamericanismo è entrato nel codice genetico europeo: Veltroni ha detto: “Io credo all’insostituibilità dell’America. Il mondo non può accettare l’isolamento degli USA, non può rinunciare alla sua leadership morale”.  L’esaltazione di Obama della sinistra ha reso evidente anche il filoamericanismo della stessa sinistra radicale, rivelatasi tutt’al più anti – Bush, ma non antiamericana. La destra, già dichiaratamente filo – Bush, esterna invece le sue preoccupazioni circa le intenzioni di Obama per un futuribile ritiro americano dall’Iraq, tramite Gasparri che ha detto “Obama? Ora Al Qaeda è più contenta”. La destra identifica l’Europa e l’Occidente con l’America: se Obama non conduce crociate armate contro l’Islam, chi proteggerà l’Europa? A mio avviso l’America, tramite Obama vuole solo ricrearsi una immagine più credibile dinanzi a se stessa e al mondo. Un presidente di colore sarà sufficiente a esorcizzare l’immagine dell’America di Bush quasi sconfitta militarmente, afflitta da una crisi economica devastante e da un mega debito che la rende ricattabile dalle potenze emergenti?

Parlare di Obama come se non fosse il presidente degli USA, ma una sorta di socialdemocratico “abbronzato” di lingua inglese (per usare il termine pittoresco impiegato da Silvio Berlusconi) è un nonsenso in cui non ho alcuna intenzione di cadere. Discuterò invece il problema in tre punti. Primo, se l’America è o meno un impero, o più esattamente una repubblica imperiale, e quindi se questa categoria si possa usare o sia invece impropria e fuorviante. Secondo, se l’America vuole essere un impero, e continuare ad esserlo, da cui nasce l’accusa surreale di “antiamericanismo” rivolta a coloro che affermano che l’America vuole essere un impero, e quindi vengono accusati di diffamazione per aver affermato ciò che gli stessi americani affermano di volere. Terzo, se l’America può continuare ad essere un impero, lo voglia o meno, o sia in decadenza, per cui non potrà più essere un impero neppure volendolo. Dovrò essere forzatamente sintetico, ma in queste cose conta solo l’essersi spiegato chiaramente senza lasciare equivoci di sorta.
In primo luogo, l’America è un impero, oppure non lo è affatto, ed anzi il termine è improprio e spinge ad analogie storiche fuorvianti? L’antichista Giovanni Viansino (cfr. Impero Romano Impero Americano, Editrice Punto Rosso, Milano 2005) ritiene di si, ma ritiene anche che il vecchio impero romano sia stato migliore, perché meno invasivo e più rispettoso delle particolarità culturali nazionali. Il discorso sarebbe lungo, e certo depone a favore dell’impero romano il mantenimento del bilinguismo greco-latino di fronte all’arrogante e ormai insopportabile monolinguismo anglosassone, ma io non seguo Viansino su questo punto, dato il carattere schiavistico ed oppressivo dell’impero romano. Pensatori come Claudio Mutti e Tiberio Graziani (su questo punto in sostanziale convergenza con Alain de Benoist) ritengono invece che gli USA non siano un impero, perché per loro il “vero” impero è una cosa buona, non invasiva e rispettosa delle particolarità dei popoli, mentre gli USA sono un cannibale che promuove nel mondo intero un “primitivismo di massa” (l’espressione è di Adorno nei Prismi), e sono una macchina distruggitrice ed omologatrice. Infine, ci sono posizioni (ad esempio Slavoj Zizek) che affermano che gli USA non sono un impero, ma semplicemente uno stato nazionale aggressivo ed espansionista. Il discorso sarebbe ancora lungo, ma mi limiterò qui ad esprimere brevemente la mia posizione personale, pur senza poterla motivare adeguatamente per ragioni di spazio.
Con tutte le cautele terminologiche del caso, per me l’America è un impero. L’interpretazione ipocrita ed errata che la assolve, scaricando tutto su di un generico Impero capitalistico globale deterritorializzato contestato da generiche Moltitudini non meglio determinate (e cioè l’interpretazione di Antonio Negri e Michael Hardt, per fortuna tramontata dopo un effimero drogaggio mediatico), deve essere archiviata come sussulto della mafia universitaria globalizzata di “sinistra”, il cui scopo era appunto di assolvere in ultima istanza il ruolo imperialistico USA, annegandolo in un generico impero capitalistico mondiale. Un episodio grottesco, quasi osceno, della comunità universitaria mondiale addomesticata. L’America è un impero in base a due parametri fondamentali, la strategia imperiale all’esterno e la democrazia imperiale all’interno. Che ci sia una strategia imperiale all’esterno è cosa notissima, e basta in proposito consultare una cartina geografica sulle basi militari USA all’estero. In quanto alla democrazia imperiale all’interno, il sistema bipartitico USA è completamente unito sulle linee portanti del dominio mondiale, anche se vi sono fisiologiche differenze tattiche sia per quanto riguarda l’appoggio o meno a determinati gruppi di interesse dentro lo stato statunitense, sia per quanto riguarda la “linea ideologica” da seguire. Obama è estraneo culturalmente e soprattutto generazionalmente alla feccia intellettuale estremistica degli ex-trotzkisti riciclati in falchi interventisti (Horowitz, Berman, eccetera), ma da questo a  parlare di “multilateralismo” ce ne corre. Un impero non è mai multilaterale per quanto concerne i suoi obiettivi strategici. Un impero è sempre unilaterale per sua propria essenza interna. In linguaggio kantiano, un impero è unilaterale in base ad un giudizio analitico a priori. E tuttavia, esistono per fortuna e grazia di Dio nel mondo paesi dotati di armamento strategico nucleare indipendente, che (del tutto indipendentemente dal giudizio sul carattere interno dei loro regimi politici) fanno da freno (katechon) all’impero USA. L’Europa è culturalmente morta, ed è da tempo prona ed inginocchiata nella posizione un tempo chiamata del “missionario”, ma ci sono almeno due zone culturali del mondo in cui l’odioso dominio imperiale USA è respinto dalla grande maggioranza della popolazione (il mondo arabo-musulmano ed il mondo latino-americano). Questi due mondi esercitano lo stesso ruolo contrastivo che al tempo dell’impero romano era esercitato dalle tribù germaniche e dal regno dei Parti.
In secondo luogo, che l’America voglia essere un impero, non mi pare seriamente contestabile. Molti studi dettagliati hanno accertato il carattere messianico ed eccezionalistico dell’identità culturale ed ideologica statunitense, identità culturale assolutamente bipartisan, condivisa integralmente da un Clinton e da un Reagan, da un Bush e da un Obama. Non nego, ovviamente, l’esistenza di linee tattiche parzialmente differenti. Per continuare l’analogia, i senatori ed i cavalieri nell’ultima fase della repubblica romana avevano effettivamente interessi divergenti ed anche profili ideologici alternativi, e questo causò addirittura un secolo di guerre civili a Roma (i Gracchi, Mario e Silla, Cesare e Pompeo, Ottaviano e Antonio, eccetera). Anche negli USA ci fu una sanguinosissima guerra civile fra Nord e Sud (1861 – 1865).
La questione dell’ideologia identitaria USA, messianica ed eccezionalistica, con le sue ripugnanti origini seicentesche nella parte più fanatica del puritanesimo protestante inglese, è in realtà una questione centrale. Fin quando gli americani non accetteranno di essere un paese “normale” e comparabile ad altri nel mondo, abbandonando lo schifoso ciarpame messianico ed eccezionalistico, il tumore non verrà estirpato, ed il mondo sarà sempre sotto minaccia di guerra. E tuttavia, soltanto ristrettissimi gruppi illuminati di americani sono oggi veramente disposti ad abbandonare questo messianesimo eccezionalistico per “rientrare” in un mondo pluralistico normale. Il problema, quindi, può essere riassunto così: abbandonare consapevolmente il ripugnante messianesimo eccezionalistico, ed adottare progressivamente quello che definirei con termine inesistente un “normalismo”, e cioè l’accettazione di essere un paese come gli altri, sia pure ovviamente con caratteristiche storiche e geografiche originali.
È anti-americanismo questo? Bisogna intenderci. Per me non lo è, in quanto si richiede agli USA non certo di non esistere, quanto soltanto di abbandonare la ripugnante pretesa del messianesimo eccezionalistico. Forse che si è antitedeschi se si richiede alla Germania di abbandonare il profilo ideologico di Hitler? Forse che si è antisemiti se si chiede al sionismo politico di abbandonare il progetto di cancellazione del popolo palestinese e di abbandonare l’osceno motto di Golda Meir: “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”?
Non lo credo proprio. Eppure su questo punto cruciale c’è una reticenza inspiegabile, se non con l’ipotesi che siamo diventati un popolo di schiavi che ha introiettato il dominio anche psicologicamente.
In terzo luogo, l’America può continuare ad aspirare al dominio mondiale, oppure sta entrando in una fase di irreversibile decadenza? Autori come il francese Emmanuel Todd hanno sostenuto la tesi dell’irreversibile decadenza dell’impero americano, e sono molto numerosi i saggisti che sostengono tesi simili. Dico subito che purtroppo non condivido affatto questa tesi ottimistica, che considero “economicistica”, e cioè troppo protesa ad evidenziare elementi economici, tecnologici, concorrenziali, di debito interno, di esposizione debitoria, di avanzamento di nuove superpotenze (Cina, India, Brasile, la stessa Europa Unita, eccetera).
Il dominio imperiale americano non si basa esclusivamente, e neppure principalmente, su basi economiche. Chi ragionava in questo modo pronosticava all’inizio degli anni novanta un dominio mondiale giapponese, ma si sbagliava di grosso, perché il dato essenziale della questione non stava affatto nella tecnologia o nelle esportazioni giapponesi, ma stava invece nel fatto che il Giappone restava militarmente occupato da basi americane, e questo conta mille volte di più di tutte le esportazioni e di tutto il toyotismo del mondo. I sostenitori del declino USA, anche se non lo sanno, sono fratelli gemelli del peggiore economicismo riduzionistico marxista, da Kautsky in poi.
Il potere imperiale USA, che certamente Obama difenderà, perché è su questa base che le oligarchie finanziarie USA gli hanno dato il semaforo verde con i loro giornali e le loro catene televisive, si basa su tre parametri. Primo, la produzione tecnologica ed economica, in cui gli USA continuano ad essere leaders mondiali (mai dimenticarlo), ma in cui c’è veramente una concorrenza da parte delle nuove potenze emergenti. Secondo, il potere di ricatto militare, su cui la sproporzione fra la potenza USA ed il resto del mondo resta schiacciante. Terzo, il potere culturale, ottenuto attraverso il cinema, la televisione, i modelli di vita, la liberalizzazione sessuale, la musica, l’immaginario giovanile colonizzato dal primitivismo di massa, eccetera.
Andiamoci dunque piano a parlare di decadenza imperiale USA. Purtroppo, non è cosi. Chi ne parla, finisce con il sostenere che non è più necessaria una terapia immunitaria, perché la malattia è vinta. Fosse vero! Ma non è affatto così!

2) Gli entusiasmi della prima ora sembrano però spegnersi a poco a poco. Ci si chiede da più parti: ma Obama sarà davvero di sinistra? Non sembra egli abbia mai fatto simili professioni di fede. La cultura del nostrano polically correct sembra comunque esaltarsi dinanzi al successo della cosiddetta e mai definita “altra America”, al successo del primo presidente di colore, alla fine del razzismo, cui corrisponderebbe il trionfo del cosmopolitismo e della società aperta del melting pot. Che poi tutto questo succeda oltre Atlantico, in una realtà storica e politica cioè lontana da noi anni luce, non ha alcuna importanza, dato che il primato americano rende la realtà Usa coestensiva ed identificabile con le sorti globali del pianeta. Se non erro, anche Condoleeza Rice è afro – americana, Segretario di Stato di Bush, la cui politica si è identificata con quella dell’estremismo neocon proprio dei Wasp. E’ afro – americano anche Colin Powell, già assertore della guerre “democratiche” degli Usa, poi dimessosi all’inizio della seconda invasione dell’Iraq. Tali personaggi, anche se afro – americani, non hanno destato entusiasmo. Da quanto precede, si evince che la provincia europea vede in Obama l’apostolo del riscatto dei neri, mentre in America egli è il simbolo, assieme alla Rice e a Powell dell’integrazione di una piccola elite afro – americana nel sistema dei valori politico – religiosi – economici fondanti degli Stati Uniti. Il processo di assimilazione dei neri ai valori della società dei bianchi sembra compiuto. In tale assorbimento dei gruppi etnici già subalterni consisterebbe dunque il “miracolo americano”. Anche se poi, nei fatti, si tratta di un miracolo solo virtuale, date le condizioni di inferiorità economica, sociale e culturale tuttora sussistenti per la stragrane maggioranza degli afro – americani, dei cicanos ecc…

Nella precedente prima risposta abbiamo parlato di cose serie, o se vogliamo di cose tragiche, e cioè in che modo funzioni non una democrazia in generale, ma una democrazia imperiale (cose talmente diverse da essere addirittura incommensurabili), e del se, ed in quale misura, si possa parlare o meno di declino relativo o assoluto dell’impero americano di fronte alle cosiddette “nuove potenze emergenti”. Si può essere d’accordo o in disaccordo con le mie considerazioni, ma è innegabile che si tratti di cose serie, ed anche tragiche, in quanto la superpotenza USA porta con sé, nella sua dinamica di sviluppo, il pericolo di continue guerre, in quanto si “nutre” di continui nemici (il paragone con l’impero romano fatto da Viansino mi sembra nell’insieme pertinente, anche se non bisogna cadere mai nelle facili illusioni comparative dell’analogia storica).
Qui invece si passa alla commedia, o per meglio dire, al dramma satiresco ateniese. La mania per Obama, infatti, non riguarda soltanto quel vero e proprio personaggio della commedia dell’arte che è Walter Veltroni, ma riguarda pressoché tutto l’arco della cosiddetta “sinistra”, che si è inventata nella sua pittoresca ignoranza un Obama pacifista, socialdemocratico, filo-europeo, eccetera, seguendo la sua ben nota abitudine di vivere drogandosi di illusioni esotiche. Obama è infatti “esotico” come Stalin, Mao, Che Guevara, eccetera. Il momento della smentita e della delusione verrà presto. Nel frattempo, questa “sinistra” avrà rimandato ancora per qualche anno la necessità di diventare adulta, e di organizzare un insieme di tattiche e di strategie basandosi sulle proprie forze. Ma chi non ha forze materiali, spirituali e morali, e presenta la signora Luxuria come modello antropologico di avanguardia e non come semplice rispettabile caso umano particolare del tutto privo di ricadute universalistiche fa parte del problema, non della soluzione. E mentre allora nel caso della risposta precedente mi sono sforzato di prendere la domanda sul serio, in questo caso avrò difficoltà a mascherare il mio fastidio ed il mio disgusto di dover parlare di una simile feccia umana ed intellettuale. Cerchiamo però almeno di risalire geneticamente alle fonti storiche di questa obama – mania provinciale per deficienti. Essa è infatti soltanto un sintomo superficiale e grottesco di una perdita di sovranità intellettuale che semplicemente raddoppia nel rarefatto mondo delle ideologie la ben più importante e strutturale perdita di sovranità militare causata dalle basi militari USA in Italia.
Alla base, a mio avviso, ci sta il mantenimento drogato ed artificiale dell’antifascismo in assenza totale e conclamata di fascismo dopo il 1945. Questo mio rilievo non ha ovviamente nulla a che vedere con un problema ben distinto, e cioè la valutazione storica, politica, morale, sociale e storiografica del fascismo storico in Italia (1919–1945), ed anche del fascismo come fenomeno europeo complessivo (Germania, Spagna, eccetera), ed infine del fascismo come fenomeno extra-europeo (ammesso che in questo caso non sia impropria l’estensione del concetto a fenomeni come il populismo argentino o l’imperialismo giapponese – cosa che personalmente ritengo impropria e fuorviante). Ho espresso la mia valutazione storiografica sul fascismo in molte sedi (cfr. La quarta guerra mondiale, All’insegna del Veltro, Parma 2008), e qui non mi ripeto. Sono per molti aspetti un antifascista retroattivo, ma così come sono un seguace retroattivo dei Gracchi, e cioè una sostanziale assurdità. Ciò che invece è sicuro, e che la “sinistra” italiana dopo il 1945 ha mantenuto in vita un morto, lo ha disseppellito ed ha costruito la sua (miserabile) identità non su di un insieme vivente di contraddizioni culturali, politiche e sociali, ma su di un passato interamente trascorso e sacralizzato in modo religioso. L’antifascismo in assenza completa di fascismo è diventato una religione atea per senzadio, con riti di esclusione, demonizzazione, esorcizzazione, infiltrazione, contaminazione, eccetera.
Ma perché questo è avvenuto? Anche le follie hanno una loro logica. Ed in questo caso la logica deve essere diagnosticata in una carenza strutturale di legittimazione politica e culturale complessiva. Il modello sovietico di socialismo dopo il 1956 appariva portatore di un deficit di credibilità addirittura palese, ed allora la sacralizzazione dell’antifascismo in assenza completa di fascismo, in particolare dopo i fatti del 1960 a Genova e Reggio Emilia, finì con l’essere la via più facile per una rilegittimazione simbolica integrale del comunismo italiano. Il comunismo italiano non avrà magari avuto una strategia ed una tattica per la rivoluzione, se non la beota attesa storicistica della presunta (ed ovviamente del tutto inesistente) incapacità dell’economia capitalistica di sviluppare le mitiche forze produttive, ma almeno adempiva al compito storico di impedire il temuto “ritorno del fascismo”. Tenere in vita il fantasma di un onnipresente pericolo fascista diventava così una funzione ideologica strutturale di compattamento simbolico e soprattutto elettorale. Ma l’inganno non poteva durare per sempre.
Fin dal 1964, nel Problema dell’Ateismo, Augusto del Noce diagnosticò il cuore della questione: fondare la legittimità storica del comunismo sul puro scorrimento progressistico della storia significa accettare il mito della modernizzazione dei costumi e dei rapporti sociali come “avvicinamento” alla prospettiva socialistica, ma il puro storicismo progressistico porta solo prima al relativismo e poi al nichilismo, e da Teresa Noce si arriverà ad Emma Bonino, e da Antonio Gramsci a Marco Pannella. In una prospettiva storica cinquantennale, possiamo dire che il keynesismo in economia adempiva alla stessa funzione simbolico-illusoria della modernizzazione liberalizzata dei costumi in sociologia. Sia Keynes che Luxuria erano visti come momenti di “avvicinamento” ad una società più giusta.
Il comunismo italiano era già culturalmente morto fin dall’inizio degli anni ottanta. Il mantenimento dell’antifascismo in assenza completa di fascismo non poteva che sfociare in un filo-americanismo onirico, dal momento che l’America buona (quella di Roosevelt, dello sbarco in Sicilia ed in Normandia, ed anche del deplorevole “errore” di Hiroshima, da non confondere comunque con l’imparagonabile Male Assoluto di Auschwitz) ci aveva liberati dal Fascismo, anch’esso ormai definito Male Assoluto.
Solo i cretini, peraltro statisticamente numerosissimi, possono non capire che il mantenimento simbolico del Passato Sacralizzato come Male Assoluto è funzionale alla rimozione dei mali assoluti (o relativi) attuali. Ed infatti solo il Cretino, personaggio fondamentale della Storia Universale, può non capire che se l’unico Male Assoluto è stato quello terminato nel 1945, e da allora non ce ne sono mai più stati (di “assoluti”, almeno), allora ne consegue che tutti i mali posteriori (ad esempio la criminale invasione USA in Iraq del 2003) sono non soltanto mali relativi, ma addirittura errori che non sono stati commessi dagli USA in quanto tali, ma soltanto dalla parte cattiva degli USA, e cioè dai neoconservatori di Bush. Gli USA sono sempre per principio innocenti. Come nel gioco delle tre carte ad uso dei deficienti delle stazioni ferroviarie, nello stesso modo c’è sempre una carta cattiva e una carta buona a stelle e strisce.
Il mito dell’altra America è quindi derivato, anche se non direttamente, dal mantenimento artificiale dell’antifascismo in assenza completa e conclamata di fascismo. Il fascismo deve perdere ogni caratteristica storica (a partire dalla quale, ad esempio, si origina la mia disapprovazione e la mia condanna, soprattutto per i fatti coloniali in Libia ed in Etiopia), per diventare un Male Assoluto. Quando i vari Fini ed Alemanno sacrificano al Male Assoluto, non c’è qui alcun tradimento, ma solo un adattamento ideologico funzionale ad un sistema organico di subordinazione dell’Europa asservita al dominio imperiale USA.
Nonostante tutti i tentativi degli intellettuali pentiti e dei sessantottini rinnegati di equiparare Hitler e Stalin la demonizzazione esclusiva di Hitler permane, in particolare a causa della sostituzione della religione civile olocaustica alle vecchie religioni monoteistiche europee, troppo invasive e prescrittive nella gestione psicologica complessiva della vita privata, che deve essere interamente liberalizzata per non creare intralci precapitalistici al consumo illimitato del corpo e dello spirito. Il senso di colpa indotto dalla nuova religione olocaustica, infatti, è funzionale ad almeno tre dimensioni storico-sociologiche. Primo, legittima i progetti genocidi del sionismo verso il popolo martire palestinese, che deve pagare con il suo sacrificio espiatorio la colpa dell’Europa di non aver saputo impedire Hitler, ma anzi di averlo “prodotto” essa stessa. Secondo, legittima la permanenza illuminata ed indeterminata di basi militari USA in territorio europeo, sulla base del fatto che, senza un guardiano ed un protettore, noi europei potremmo sempre ricadere nella tentazione populista a due facce, fascista-comunista (a questo serve la mascalzonesca teoria del cosiddetto “totalitarismo unico”). Terzo, non essendo una religione invasiva sui comportamenti familiari e sessuali, permette la sostituzione integrale di Gramsci con Luxuria.
Chi mi conosce sa bene che non coltivo un solo grammo del cosiddetto “antisemitismo”, che anzi mi ripugna umanamente e filosoficamente. Ma se non si comincia ad avere il coraggio di mettere su carta certe spiacevoli verità è inutile continuare a stupirci dell’egemonia di una “sinistra americana” adoratrice provinciale della cosiddetta “altra America”, come se si fosse continuato a sostenere Hitler con la scusa che c’era sempre un “altra Germania” (Goethe, Hegel, Mozart, eccetera). Siamo a questo punto. Non ne usciremo certamente presto. Gli idioti sono fra noi, e gli idioti sono più pericolosi dei lupi.


3) Da questa America decedente si aspetta paradossalmente l’innovazione. Obama viene definito clintoniano. Ma Clinton non perseguì politiche sociali. Occorre ricordare che la fine del suo secondo mandato coincise con una grave crisi finanziaria, quella della implosione della bolla speculativa generata dalla new economy, che diede inizio ad una crisi strutturale dell’economia americana da cui non è più uscita. Clinton non fu né pacifista né multilateralista, fu responsabile della guerra di aggressione contro la Serbia e dell’aggressione al Sudan. Obama ha annunciato misure a sostegno all’economia e al lavoro di stampo keynesiano, ma l’intervanto dello Stato non rappresenta un mutamento del sistema liberista americano: anche i precedenti presidenti, da Reagan in poi, hanno fatto uso della finanza pubblica allo scopo di far fronte ai disastri del liberismo finanziario. L’intervento pubblico in America ha una funzione assistenziale e restauratrice del sistema liberista in crisi, non comporta lo stato sociale. In politica estera Obama ha annunciato il ritiro dall’Iraq, ma anche il proseguimento della guerra afgana e la chiusura verso l’Iran. Tra i suoi collaboratori spiccano i nomi di Illary Clinton, Brzezinski, Kerry, Rahm: tali scelte preludono a politiche interventiste nel mondo, eventualmente armate.
Quanto al ritiro dall’Iraq, è da dimostrarsi con quali modalità gli Usa lasceranno tale Paese, senza incorrere in una ritirata – disfatta simile a quella vietnamita. Da quanto precede, al di là di una innovazione virtuale – mediatica, emerge una sostanziale continuità della politica americana all’interno e nel mondo, tesa a conservare il proprio primato.

Il mito del clarinettista Clinton come capo dell’Ulivo Mondiale, (la demenziale espressione, ad un tempo surreale e servile, fu veramente usata da Romano Prodi, l’uomo che voleva ritrovare il nascondiglio di Moro nel 1978 facendo ballare i tavolini!) è ovviamente una variante dell’americanismo onirico della sinistra italiana, di cui ho già discusso nella risposta precedente. La guerra di aggressione contro la Serbia nel 1999 fu “venduta” come una campagna mediatica che strillava su di un (inesistente) genocidio della popolazione albanese del Kosovo e su di una (altrettanto inesistente) “pulizia etnica” di quest’ultima. Si trattò in realtà di una guerra contro l’Europa (cfr. Romolo Gobbi, Guerra contro l’Europa, Editrice Settimo Sigillo, Roma 2000), cui l’Europa si sottomise con il sorriso ebete del masochista che si sottomette alla virago in bustino e calze nere che lo frusta sulle rosee chiappe. L’Italia, paese cialtrone ed ipocrita, la fece violando la costituzione che l’impediva esplicitamente, in base all’ipocrisia tartufesca per cui non si trattava di guerra, ma soltanto di una “operazione di polizia internazionale”. L’ONU, peraltro, non l’aveva consentita, e quindi si trattò soltanto di una guerra unilaterale NATO. La NATO è oggi la peste dell’Europa, e sempre più lo sarà nel prossimo futuro, fino a provocare un’inutile tensione con la Russia post-comunista. In proposito Putin è stato una benedizione rispetto all’osceno ubriacone Eltsin, anche se purtroppo è ancora al di sotto della necessità minima di deterrenza, a causa anche della natura criminale della nuova borghesia russa, che non può fare da base politica e culturale per nulla di serio. Ma per il momento teniamoci quello che passa il mercato, anche se è di scarsa qualità!
Quando scoppiò la crisi della bolla speculativa nell’ottobre 2008 cercai di capirne qualcosa, data la mia relativa incompetenza in economia. In generale compro il Sole 24 Ore la domenica mattina esclusivamente per l’inserto culturale, e butto via immediatamente nel cestino il resto del giornale. Questa volta, però, fui incuriosito da un titolo di un inserto sulle “cause della crisi”, ed allora me lo sono diligentemente letto, sperando di poter capire le “cause della crisi”.
Canaglie! Le cause della crisi erano individuate da costoro nella scarsa vigilanza attuata dagli organi a ciò preposti! Sfacciati ipocriti! Il processo sociale di arricchimento globale provocato nell’ultimo ventennio dalla finanziarizzazione dell’economia, con relativo impoverimento non solo dei cosiddetti “poveri” del Terzo Mondo ma anche del ceto medio metropolitano, consegnato all’insicurezza esistenziale ed al lavoro flessibile, incerto e precario, era definito in termini di “insufficiente controllo da parte degli organi a ciò preposti”, come se gli addetti al controllo fossero stati sessantottini analfabeti promossi con il voto unico e non boriosi managers anglofoni roteanti la loro pipa-totem con masters nelle più costose facoltà di economia!
La sfacciataggine delle canaglie neoliberali è inaudita! Il problema però non si risolve gettando nella pattumiera questi inserti color rosa. La questione è la natura dell’intervento pubblico. Su questo, lo ammetto, non ho affatto le idee chiare. Mi è chiaro, naturalmente, che il “salvataggio delle banche” non ha nulla a che fare con il ritorno allo “stato sociale”, che negli USA non c’è mai stato, ma in Europa invece si, addirittura prima dei famosi “trenta anni gloriosi” (1945 – 1975) del troppo lodato Hobsbawm, un cattivo storico che riduce le nazioni a “comunità immaginarie”, contribuendo cosi ad incrementare le banalità postmoderne sulla fine degli stati nazionali e l’avvento di un multiculturalismo sradicato adatto per gruppi intellettuali in crisi di orientamento.
Non mi è invece chiaro, in quanto appartiene ad un futuro non prevedibile anche se imminente, se vi saranno movimenti sociali in grado di reimporre, magari con un saggio uso misurato della violenza necessaria (la manifestazione belante – pecoresca non ottiene mai nulla per sua stessa natura, ma è soltanto una autocelebrazione narcisistica per impotenti cronici), la restaurazione di forme di stato sociale, al di là di elemosine oligarchiche tipo social card. Io non lo escluderei a priori. Il ceto medio, fino ad ora, ha mangiato merda per vent’anni senza protestare, accettando insicurezza, declassamento e quello che si chiama in linguaggio sociologico “aspettative decrescenti”. Esso non può aspettarsi nulla dalla “sinistra” di Luxuria e dallo sgombero dei crocifissi nei luoghi pubblici. Certo, si tratterà probabilmente di ciò che i politologi corrotti di regime chiameranno “populismo”. Io sono diventato personalmente un amico di questo concetto. Se al circo mediatico delle oligarchie finanziarie dominanti la parola “populismo” fa schifo, sospetto automaticamente che si tratti di una buona parola. Ma chi vivrà vedrà, e perciò mi fermo qui.

4) La crisi devastante americana, che ha colpito l’economia finanziaria, determinato una grave recessione dell’economia reale, moltiplicato oltre ogni limite il debito estero, sembra preludere alla decadenza progressiva del primato economico e politico globale americano.
La crescita esponenziale delle potenze asiatiche, il ritorno sulla scena mondiale della Russia, un Sudamerica sempre più affrancato dall’influenza americana, un’Europa, che pur carente di sovranità politica, è pur sempre un fattore condizionante, fanno presagire la fine dell’unilateralismo americano a favore di un mondo multipolare, composto da potenze continentali. Tuttavia c’è da osservare che la crescita delle potenze asiatiche e la rivitalizzazione della Russia, derivano dalla delocalizzazione produttiva operata dall’Occidente e dal coinvolgimento di tali stati nella finanza globale. La recessione produttiva, unita al decremento dei consumi in Occidente, potrebbe portare al rallentamento dello sviluppo anche di Cina e India. Il debito americano, le ripetute insolvenze, i crack finanziari, l’instabilità del dollaro, potrebbero pregiudicare gravemente il ruolo sia politico che economico dei Paesi asiatici e della Russia nel mondo. Inoltre gli interventi statali a pioggia nelle economie occidentali comportano necessariamente un accrescimento del ruolo delle banche centrali (private) e dei fondi sovrani degli emirati arabi, con conseguente incremento e del debito pubblico americano e occidentale. Ai fallimenti bancari e ai crolli dell’industria, fanno seguito fusioni, incorporazioni, nuovi flussi di capitale transnazionale volto all’accaparramento oligarchico dell’economia mondiale.
E’ da prevedere una trasformazione oligarchico – dirigista del capitalismo globale, strutturato in concentrazioni di capitale transnazionale sempre più ristrette.
In tale ottica, è prevedibile per il prossimo futuro l’avvento di un capitalismo pianificatore dell’economia a livello mondiale, che rivela una paradossale somiglianza al sistema di pianificazione economica fallimentare di memoria sovietica.

Dei molti stimoli contenuti in questa quarta domanda credo sia opportuno concentrarsi su uno solo, e cioè “se sia prevedibile o meno per il prossimo futuro l’avvento di un capitalismo pianificatore dell’economia a livello mondiale, che rivelerebbe una paradossale somiglianza con il sistema di pianificazione economica fallimentare di memoria sovietica”. Il discorso richiederebbe cento pagine, ma ritengo lo si possa telegraficamente compendiare in tre punti.
In primo luogo, io non credo affatto alla cosiddetta pianificabilità della riproduzione capitalistica complessiva. Provvedimenti dirigistici anticrisi vengono certamente presi di tanto in tanto, l’apparato statale viene messo al servizio del sistema capitalistico in molti modi, alternando ciclicamente momenti protezionistici e liberalizzazioni economiche ultraliberistiche, eccetera, ma non bisogna confondere tutto questo con la vera e propria pianificabilità del sistema. Il capitalismo vive strutturalmente della concorrenza strategica, diplomatica, militare e geopolitica di gruppi capitalistici rivali (Gianfranco La Grassa), e non esiste nessuna pianificazione centralizzata dell’estorsione del plusvalore (errore di Raniero Panzieri e di tutto l’operaismo italiano fino ad Antonio Negri). È per questo che il capitalismo è tanto forte. Se ci fossero organi pianificatori centralizzati sarebbe immensamente più debole, e ci sarebbe una fortezza della Bastiglia o un Palazzo d’Inverno da assaltare, che purtroppo non ci sono. Il capitalismo è assimilabile a un etere velenoso che avvolge tutta l’atmosfera, non ad una fortezza da assediare. Se fosse una fortezza, i popoli del mondo l’avrebbero già conquistata da tempo, e le ridicole distinzioni fra “destra” e “sinistra” farebbero già parte di un museo di archeologia comica per bambini.
In secondo luogo, il superamento del capitalismo, niente affatto sicuro ma solo potenzialmente possibile, potrà avvenire soltanto con un insieme di comportamenti soggettivi coscienti ed organizzati, all’interno di una “finestra storica di opportunità”, che può avvenire o in conseguenza di una crisi profonda oppure (Dio non voglia!) in conseguenza di una guerra o di un insieme di guerre. I cosiddetti “comunisti” hanno da tempo rimosso un fatto storico elementare, e cioè che il comunismo russo è nato sulla base della prima guerra mondiale ed il comunismo cinese sulla base della guerra sino-giapponese. Non mi si fraintenda. Non intendo affatto “auspicare” questa situazione catastrofica. Semplicemente, rilevo un dato storico che i pecoroni belanti del pacifismo narcisistico di regime rimuovono continuamente.
In terzo luogo, il comunismo storico novecentesco (1917 – 1991) non è fallito a mio avviso perché la pianificazione economica era inefficiente, anche se alla fine lo era. Lo era, ma era anche in via di principio migliorabile con provvedimenti di politica economica ad hoc. Il comunismo storico novecentesco è stato un grande esperimento di ingegneria sociale dall’alto esattamente l’unica fattispecie che Marx aveva esplicitamente esclusa, considerandola “utopistica”. Secondo Fredric Jameson, che secondo me ha colto il nocciolo della questione, l’esperimento comunista di ingegneria sociale socialista ha potuto svilupparsi soltanto sotto una “cupola geodesica”, e non appena si è aperto al mercato mondiale è subito crollato. La ragione, a mio avviso, è totalmente spiegabile in base alla teoria generale di Marx, sulla base della centralità della lotta di classe all’interno dei rapporti sociali di produzione ingannevolmente “socialisti”. Si è trattato di una maestosa controrivoluzione di massa dei ceti medi cresciuti all’interno della società sovietica, stanchi e nauseati dell’egualitarismo livellatore che pagava un medico meno di un operaio, controrivoluzione interna che ha avuto poi un appoggio esterno in circoli capitalistici, soprattutto sionisti (vedi la maggior parte degli odierni “baroni ladri” che impestano la società russa criminale di oggi).
Volesse il cielo che il sistema capitalistico fosse fragile e debole come l’esperimento fallito di ingegneria sociale sotto la cupola geodesica chiamato comunismo storico novecentesco (da non confondere – per carità di Dio – con il comunismo utopico – scientifico di Marx – l’ossimoro è ovviamente del tutto volontario)! La sua forza sta proprio nella sua capillare invasività, e questo esclude sia la teoria del crollo econimoco del sistema (Grossmann), sia la teoria del capitalismo politicamente organizzato e pianificato a livello mondiale (Pollock). Se le cose stessero alla Grossmann e/o alla Pollock sarebbero in fondo facili. Purtroppo non stanno così, ed ecco perché appaiono tanto difficili. È tuttavia, una “breccia”, prima o poi, si troverà, anche se non certo nel corso della nostra vita terrena.