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Il Grande Inquisitore è l'uomo che vuol strappare il mondo dalle mani di Dio per farlo migliore

di Francesco Lamendola - 24/01/2009


 

La leggenda del Grande Inquisitore è una sorta di romanzo nel romanzo all'interno del capolavoro di Fëdor Dostojevskij «I fratelli Karamazov» (pubblicato nel 1879-80), l'ultima opera e quasi il testamento spirituale del grande scrittore russo.
Una sera, dopo aver cenato insieme in una trattoria e dopo un lungo, affettuoso colloquio fra Alëša e Ivàn Karamazov - i quali, fino a quel momento, si erano quasi evitati - il secondo espone al primo le ragioni del suo atteggiamento di anarchico rifiuto dell'assurdità della vita. Alëša, allora - che ha studiato in seminario ed è uscito nel mondo, su richiesta del suo venerato "staretz", Zosima, per prendersi cura della propria famiglia, portata dagli odi reciproci sull'orlo della tragedia - gli ricorda che Dio può rendere ragione di quella apparente assurdità e che ha fornito agli uomini una risposta e una giustificazione per mezzo di suo figlio, Gesù Cristo.
Ivàn, allora, per tutta risposta gli racconta il contento di un testo letterario che pensa di scrivere, «La leggenda del Grande Inquisitore», di cui diamo qui un breve riassunto.

Un giorno, a Siviglia, ai tempi in cui più incrudelisce la Santa Inquisizione, Gesù torna sulla Terra per vedere che ne è stato del suo divino messaggio di pace e di amore fra gli esseri umani. Una folla si forma intorno a lui; egli la ammaestra, la consola, opera delle guarigioni miracolose: ben presto la voce si sparge.
In quel momento sopraggiunge il Grande Inquisitore, un vecchio di quasi novant'anni, magro, ascetico e temutissimo. In un attimo la folla si disperde e le guardie afferrano Gesù, portandolo nelle carceri, in attesa di essere bruciato sul rogo, l'indomani, come eretico. Quella sera stessa il vecchio si presenta al carcerato e gli domanda cosa sia venuto a fare tra gli uomini, perché sia venuto a turbarli. Gesù gli risponde con un sorriso d'infinita mansuetudine; allora, l'Inquisitore gli ordina di tacere e risponde al suo posto.
Egli sa chi è il suo prigioniero, lo ha compreso fin dal primo istante; ma ha deciso che lo manderà al rogo, perché gli uomini non potrebbero tollerare la verità del suo ritorno. È vero, del suo divino messaggio resta ormai ben poco sulla Terra: ma questo è accaduto perché si trattava di un messaggio troppo sublime per la stragrande maggioranza degli esseri umani, impossibilitati a seguirlo. Perciò alcuni uomini forti, come lui, hanno deciso di venire a un compromesso col mondo e, lasciando sussistere le forme esteriori del cristianesimo, si sono scientemente ed eroicamente votati a Satana, in cambio della pace per l'umanità.
A prezzo del loro sacrificio, gli uomini hanno potuto così convivere con una religione su misura per essi, indulgente verso le loro infinite debolezze; e hanno trovato, se non la felicità, per lo meno una forma accettabile di esistenza, lasciandosi guidare dall'autorità ecclesiastica. Ma adesso la venuta di Gesù rischia di mandare in pezzi le loro certezze e la loro serenità; per questo è necessario che egli muoia una seconda volta.
A queste parole, Cristo non risponde nulla: gli si avvicina e, con un sorriso di amore infinito, lo bacia delicatamente sulle labbra esangui di novantenne. L'Inquisitore si sente commosso fino in fondo all'anima da quel bacio e gli apre le porte della prigione, ordinandogli di allontanarsi e di non farsi vedere mai più. Gesù si allontana silenzioso nella notte di Siviglia e scompare nell'ombra; e il vecchio, benché quel bacio gli bruci in cuore, non cambia idea, ma persiste nella risoluzione di pconservare su di sé il peso del grande inganno, a beneficio degli uomini.

Ora, l'interpretazione convenzionale della leggenda è che Dostojevskij abbia voluto descrivere il contrasto e l'abisso che si è prodotto, nella storia, fra il messaggio genuino di Gesù e l'edificio eretto dalla cristianità, ossia la Chiesa, e particolarmente la Chiesa cattolica. Si tratta, però, di una interpretazione piuttosto banale.
Molti elementi fanno pensare che Dostojevskij - che pure annoverava la Chiesa cattolica fra i grandi nemici del cristianesimo autentico, assieme al razionalismo occidentale e al socialismo (quest'ultimo già preso a bersaglio nel romanzo «I demoni») attribuisse alla Leggenda del Grande Inquisitore un significato centrale nel proprio pensiero, tanto è vero che lo ha posto giusto al centro de «I fratelli Karamazov», scelta che non può essere considerata casuale. Inoltre, significativi indizi fanno pensare che essa sia la chiave di volta per interpretare il complesso e ambiguo personaggio di Ivàn Karamazov, nel quale si rispecchia anche una parte delle convinzioni e dei sentimenti dello stesso Autore.

Una delle letture più interessanti ed acute di quel testo letterario è stata avanzata, nella seconda metà del Novecento, dal filosofo cattolico Romano Guardini, un pensatore tuttora non adeguatamente conosciuto dal grande pubblico, e del quale abbiamo già avuto modo di occuparci (cfr. F. Lamendola, «La riflessione sul potere nel pensiero di Romano Guardini», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Scrive, dunque, Romano Guardini nel suo libro «Il mondo religioso di Dostojevskij» (titolo originale: «Religiöse Gestalten in Dostojewskij Werk», traduzione italiana di Maria Luisa Rossi, Brescia, Morcelliana Eitrice, 1951, pp. 118-124 passim):

«In questa figura di Cristo il fatto cristiano è sentito come un'esigenza di responsabilità totale e, insieme, come qualcosa di assolutamente fuor del comune. Questo cristianesimo non ha rapporti con la zona intermedia ove vive l'uomo e si svolge la sua esistenza quotidiana. Non che si voglia fare un'apologia della mediocrità. Come potremmo amare Dostojevskij e dimenticare che l'esistenza umana partecipa delle altezze e delle profondità e che perciò la sua regione intermedia ne è, nello stesso tempo, determinata e minacciata? Ma altezza e profondità pura sono valori limite e vita non può esservi senza quella sfera mediana dove tuttavia si è continuamente sollecitati a decidersi per l'una o per l'altra. Una vita priva  di questa zona intermedia diventa irreale poiché qui è il luogo dell'attuazione pratica, qui il teatro e l'officina dell'esistenza. Quelle decisioni alle quali siamo sollecitati debbono tradursi qui in realtà effettiva al fine di mostrarsi valide.
Essa è comunque la sfera dell'attuazione in senso stretto dove ha il suo fondamento tutto ciò che noi chiamiamo misura, disciplina, ordine, salute, stabilità, tradizione - valori decisivi che possono sembrare proprio di una concezione severa e talvolta angusta della vita ma pure sono il fondamento della serietà dell'esistenza, di tutto ciò che intendiamo per "carattere". Forse l'obiezione più forte che si possa muovere al quadro che Dostojevskij ci dà dell'esistenza umana è che vi manca appunto quella zona di mezzo. Per accorgersene basta osservare come i personaggi dei suoi romanzi tutto facciano tranne una sola cosa: lavorare. Il lavoro significa per noi in questo caso tutta l'esistenza quotidiana con le sue tribolazioni, le sue responsabilità e la sua dignità.
Questa sfera di mezzo comprende anche la realtà storica come luogo dove non solo si affrontano rischi e sofferenze ma si pongono anche le basi di un'esistenza umana durevole. Qui le idee si convertono in forze, gli impulsi in istituzioni, le convinzioni in ordinamenti e leggi. Qui la responsabilità è guida alle azioni, se ne accettano le conseguenze e la realtà è virilmente affrontata.
Così questo dominio costituisce anche un aspetto fondamentale del fatto cristiano come realtà storica: la Chiesa. Essa è per natura Chiesta di tutti, non solo degli eletti. Chiesa dell'esistenza quotidiana, non soltanto delle ore eroiche. Anch'essa, come l'uomo., è ordinata, a partire da una zona mediana, sia all'altezza che ala profondità ed è perciò espressione non soltanto di due campi limite ma anche ed essenzialmente delle possibilità medie del fatto cristiano.
Il cristianesimo della leggenda, invece, non ha alcun rapporto con questa sfera mediana e questo lo rende irreale.
Nello stesso tempo e per la stessa ragione s'introduce qui una forma di ribellione molto sottile che consiste nell'ammettere solo un cristianesimo "puro". Identificare, infatti, il "fatto" cristiano con l'ideale cristiano, respingere le gradazioni, le approssimazioni, il "meglio", significa in fondo ribellarsi a Dio, che è il Dio dell'amore e dell'umiltà, ossia, in questo caso, della realtà.
Di qui posiamo spingere lo sguardo più in fondo. Basta aprirsi un poco allo spirito e alla figura di Cristo come egli appare e parla a noi nel Nuovo Testamento per accorgersi com'egli sia ordinato a un determinato piano: quello della creazione. In quanto opera di Dio essa è detta buona; egli la giudica e la condanna soltanto nel suo peccato, come corruzione della realtà originaria. E l'invito alla penitenza è precisamente esortazione a trasformare il mondo reale. La creazione rimane il piano di riferimento della rivelazione - come non può essere diversamente se p vero che il mondo è stato creato dal Logos e proprio questo Logos si è fatto uomo per riscattarlo.
Il mondo non può certamente esser considerato esclusivamente per se stesso. Esso ha un valore solo in quanto Dio l'ha creato per i propri fini e perciò si trova veramente compiuto solo nella Sua grazia. Ma in questo senso esso è davvero qualcosa e, anche, di molto significativo. Neppure dopo il peccato il mondo ha cessato di essere creatura di Dio. Non è divenuto il nulla, un non-senso, e nemmeno il "peccato" in se stesso. Così parla solo una tormentata coscienza nordica. Ma secondo una concezione cristiana dei valori, la creazione è "giudicata", non respinta. Essa non è il nulla e nemmeno semplicemente il male, col quale ciò che viene da Dio non potrebbe esser posto che in un rapporto paradossale. Sebbene corrotto, il mondo rimane opera Sua., causa e fine della redenzione. Tutti i valori cristiani debbono esser compresi in rapporto alla creazione. Essi ci esortano alla vita della "nuova creatura" ma presuppongono come punto di partenza la vecchia creazione, così come l'origine divina di questa è il piano di riferimento mai abbandonato della nuova.
Perciò l'ubbidienza di Cristo al Padre non è tanto di chi si lascia sacrificare per un mondo scivolato nell'assurdo, ma piuttosto l'ubbidienza glorificante del Verbo incarnato che ha assunto nel corpo e nell'anima il vecchio mondo del Padre e lo inserisce nella nuova creazione.
Il Cristo del Grande Inquisitore, invece, non ha questo rapporto col mondo. Non sta in alcun rapporto essenziale al Padre Creatore.  Non può farci credere di essere il Verbo in cui il mondo è stato creato e la cui incarnazione dovrà ora rigenerarlo trasformandolo. Questo Cristo non sta col mondo reale in quel santo rapporto d'amore che lo purifica e lo rinnova; la sua è soltanto compassione che invita a uscire dal mondo.
È un Cristo distaccato. Un Cristo che esiste solo per sé,. Egli non viene al mondo dal Padre e non va dal mondo al Padre. Non ama il mondo così com'esso è fatto e non lo riconduce veramente "a casa". Non è inviato e non è redentore. Non è mediatore fra il vero Padre celeste e il vero uomo. Quale sia il suo vero posto in realtà non si vede. Egli ci tocca, ma per lasciarci nell'incertezza. Il turbamento che suscita in noi ci rende perplessi e toglie in ultimo ogni speranza. (…)
Qual è dunque la "variazione" che il Grande Inquisitore vuole introdurre nel messaggio del Cristo del poema? Questa: egli fa valere l'uomo della realtà, con i suoi limiti e le sue debolezze, l'uomo della mediocrità insomma. Ma tutto questo è posto poi come assoluto e in tal modo profondamente falsato. In luogo del giusto mezzo cristiano ne vediamo la caricatura insieme banale e diabolica e al termine di questo processo appare la maschera terrificante dell'uomo della massa. Questa è certamente opera anticristiana, satanica. Ma Satana non può falsare nulla che non sia, almeno in origine, vero, in questo caso l'elemento che manca al cristianesimo della legenda., Esso è irreale e irreale è l'uomo a cui si rivolge. Il Grande Inquisitore, dunque, ristabilisce il diseredato nei suoi diritti. Riconosce che l'uomo è quello che è e gli dà un segno d'amore affermando che l'esigenza cristiana deve partire da quello che l'uomo è, non da ciò che dovrebbe essere.  Egli ha pazienza. Conosce il significato dell'ubbidienza, il valore costruttivo dei fattori dell'ordine e della realtà. E solo perché sa intervenire con tanta efficacia in aiuto di un'umanità misconosciuta, riesce poi a corromperla così profondamente e a farne il sistema demoniaco del suo mondo.
Tornando ora a Ivàn, che cosa può spingerlo a darci una simile immagine del Cristo? Questo, che egli pure si trova in un falso rapporto col mondo.
Lo tormenta una profonda ma negativa compassione della miseria umana. Essa è tutta istintiva, non purificata e mossa da un principio etico. E non vi può esser dubbio sulla natura di questa compassione appena si ascolti Ivàn parlare della sofferenza dei bambini, del ragazzo fatto sbranare dai cani sotto gli occhi della madre, della bambina seviziata dai genitori sadici. Mi si perdoni se parlo chiaro, ma la leggenda ha le sue origini proprio qui. Leggiamo ad esempio la descrizione dei turchi che accarezzano il bimbo in braccio alla mamma per indurlo a sorridere e a questo punto gli sfracellano la testolina con un colpo di pistola. Egli si affretta poi ad aggiungere che i turchi "amano molto i dolci". Compassione, dunque, istintiva e morbosa. Di qui anche la fremente curiosità con cui egli guarda alle sofferenze del mondo, il tormento di non saper rinunciare a immergervisi sempre di nuovo.»

La conclusione è chiara: Ivàn - come lo saranno, quasi un secolo dopo, gli esistenzialisti - è profondamente convinto che il mondo sia assurdo; e - proprio come gli esistenzialisti - si ribella ad un Dio che permette questa assurdità, che tollera le mostruose crudeltà di cui l'uomo è capace di macchiarsi contro i propri simili (cfr. il nostro precedente saggio «Albert Camus: l'uomo in rivolta», anch'esso consultabile sul sito di Arianna Editrice).
Questo è il motivo per cui Ivàn, per adoperare la sua espressione, «restituisce il biglietto d'ingresso» nel mondo di Dio e preferisce strappare a Dio la creazione dalle mani,  per dargli un ordine diverso e migliore. Questo è ciò che fa il Grande Inquisitore: ritenendo troppo imperfetta la creazione divina, egli vuole rifarla in maniera più acconcia alle esigenze dell'uomo medio, dell'uomo-massa, che ha fame e sete non di verità e di amore illimitato, ma di stabilità, di sicurezza, di certezze che siano alla sua portata: semplici e terra terra.
Pure, nel Grande Inquisitore si riflette il rapporto falsato col mondo di Ivàn - e, controluce, dello stesso Dostojevskij: falsato dal fatto che il mondo non è amato e accettato per quello che è, e sia pure come punto di partenza per la sua redenzione a partire dalla conversione dell'uomo; ma che è considerato il male assoluto e, al tempo stesso - paradossalmente, ma non troppo - segretamente amato proprio per quella componente di male e non a dispetto di quella componente di male, che lo sfigura e lo deturpa.
Vi è, dunque, nella morbosa sensibilità di Ivàn-Dostojevskij, una segreta componente di attrazione e perfino di compiacimento; e il tentativo di «depurare» il cristianesimo,  assumendolo in una purezza astorica e atemporale, non è che il rovescio della medaglia di questo falso rapporto col mondo. Guardini vede poi nella frase pronunciata da Ivàn nel momento culminante del processo a Dimitrij  per l'uccisione del loro padre, Fëdor Pavlovič, la prova (che anticipa le analoghe teorie della psicanalisi freudiana) che con l'odio per il mondo di lui è intrecciato indissolubilmente l'odio per colui che l'ha fatto, dunque per Dio.
Il dramma di Ivàn Karamazov è, allora, il dramma di una rivolta contro Dio, in nome di un mondo nuovo e migliore, dal quale siano aboliti per sempre - in una rigenerazione irrealistica ed illusoria - il male e il dolore; e, in questo senso - aggiungiamo noi - Ivàn è anche l'archetipo di tutti quei filosofi e quegli uomini politici che hanno voluto costruire il paradiso in terra abolendo il vecchio mondo e sostituendosi a un Dio che aveva sbagliato  i suoi calcoli - salvo pi creare essi stessi, l'uno dopo l'altro, degli autentici Inferni.

Che dire di questa interpretazione della Leggenda del Grande Inquisitore da parte di Romano Guardini?
Ci sembra che essa abbia sostanzialmente colto nel segno, offrendo, al tempo stesso, una fondamentale chiave di lettura dell'intera opera dello scrittore russo, oltre che di quel grandioso romanzo cui egli ha affidato il suo testamento spirituale, le sue angosce, gli abissi di perdizione nei quali ha osato rivolgere lo sguardo, ma anche i nuovi cieli che si è sforzato di intravedere e i liberi orizzonti di speranza che si ha cercato di indicare all'uomo moderno, nel momento della massima confusione del massimo smarrimento.
Il Cristo della "leggenda" è un Cristo che desta ammirazione e che commuove, ma che non convince, perché non si pone in un rapporto essenziale né col Padre, né col mondo; e il Grande Inquisitore non è che la maschera di un orgoglio smisurato, diabolico, di cui si veste l'uomo moderno dietro il pretesto di una ingannevole compassione per il male e l'ingiustizia presenti nel mondo.
Dobbiamo a questo punto rinviare il lettore a quanto già dicemmo in alcuni scritti precedenti, e particolarmente in «Il mistero del Male è essenzialmente il mistero della sua trasformazione nel Bene» e «La sofferenza è una parte essenziale della vita o qualcosa che bisogna puntare a eliminare?», sempre sul sito di Arianna). Coloro i quali si propongono di eliminare il male dal mondo, ritenendo intollerabile la sua imperfezione, muovono dall'implicita prospettiva di volersi sostituire a Dio e finiscono per lasciarci trasportare da forze demoniache, tanto più insidiose quanto più, in apparenza, le loro motivazioni sono nobili e altruistiche.
È sempre l'antica tentazione di volersi sostituire a Dio in none di una «giustizia» e di una «felicità» tutte umane e immanenti; la tentazione che Gesù stesso dovette affrontare nel deserto, da parte del grande Tentatore, e che respinse con estrema fermezza.
Una tentazione che, spesso, gli uomini non sanno respingere, perché non la sanno riconoscere; con quali esiti funesti per se stessi e i propri simili, tutta la storia del XX secolo sta a mostrarlo chiaramente: né quella del secolo presente sembra essere incominciata, purtroppo, sotto migliori auspici.