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Gaza: eventi, commenti, analisi dal/sul Campo di concentramento e di sterminio di Gaza

di redazionale - 25/01/2009

Dalle macerie di Gaza (19, 22), Hamas (13, 15, 19, 22) emerge più forte di prima. Può legittimamente dire di aver resistito ad uno degli eserciti più potenti del mondo. Al di là di dichiarazioni di circostanza, Tsahal non è riuscito a conquistare militarmente Gaza; non si è riuscito nemmeno a produrre immagini che potessero lasciar intendere un esito positivo dell'aggressione. Hamas, nonostante le perdite (peraltro modeste nel numero), esce politicamente vincitrice. Con un consenso ed una credibilità accresciuti tra i palestinesi. Ancor più di prima non si potrà prescindere da Hamas. I veri sconfitti sono Israele e le componenti collaborazioniste di al Fatah capitanate da Abu Mazen e Dahlan. A poche ore dalla dichiarazione unilaterale israeliana di sospensione delle proprie operazioni militari, la più chiara riprova della sua sconfitta è venuta dall'imponente manifestazione nelle strade di Gaza a sostegno di Hamas. Si è rivisto quel che avvenne per Hezbollah, in Libano, nell'estate 2006, al termine dell'ennesima aggressione sionista, anch'essa contraddistinta da indiscriminati bombardamenti a tappeto con armi di ogni tipo (incluse quelle vietate dalle convenzioni internazionali), risoltasi in una sonora e storica lezione militare ricevuta sul terreno, quando i militari israeliani sono scesi dai loro aerei e si sono scontrati in combattimenti ravvicinati con i resistenti libanesi.

 

Per le strade di Gaza, erano presenti non solo i combattenti di Hamas, ma anche quelli di tutte le organizzazioni (frazione maggioritaria di al Fatah compresa) che hanno partecipato alla Resistenza. La mattanza di civili (13, 15, 16, 22), ennesima cartina al tornasole della natura terrorista del sionismo (10, 12), non ha portato altro che sofferenze. Ha esacerbato una pluridecennale e comprensibile rabbia e prevedibilmente rafforzato la volontà di resistenza (11, 13). Altre generazioni di palestinesi cresceranno avendo negli occhi gli effetti della ferocia sionista, consapevoli della necessità della lotta di resistenza fino alla liberazione. Gli stessi giornalisti asserviti e/o a libro paga sionisti tra le macerie e le sofferenze di Gaza stentano a trovare risentimenti e ribellione contro Hamas. Israele, che ha preparato, voluto e provocato questa guerra (10), perde politicamente (10, 11, 15, 21, 22 ) e non consegue alcun obiettivo militare (14, 22) che non sia stata l'uccisione di civili (quale punizione collettiva per chi ha votato Hamas) e la distruzione sistematica di abitazioni ed infrastrutture per spingere all'esodo questi palestinesi che non si rassegnano ad accettare né la "pulizia etnica" né la vita di apartheid che si vorrebbe per chi non se ne vuole andare. L’opinione pubblica internazionale, compresa parte non marginale del mondo ebraico (10, 15, 16, 21), scioccata dalla brutalità sionista (10, 22), reclama processi per crimini contro l’umanità (10, 22). Anche nel mondo arabo e musulmano (16, 19, 20, 21) e nello stesso partito Fatah (19, 20) l’inevitabilità della resistenza raccoglie ulteriori consensi. Ed intanto USA (11, 18) ed Unione Europea, Italia (16, 21) in prima fila, corrono in aiuto dei massacratori sionisti che ora puntano a ribaltare gli esiti disastrosi della loro sconfitta.

 

P.S: considerati i tempi che corrono, non è superfluo rilevare che gran parte delle fonti di questo notiziario sono israeliane, statunitensi e provenienti dal mondo ebraico.

 

 

  • 10 gennaio. La CNN conferma: Israele ha rotto la tregua. Il giornalista Rich Sanchez, dopo aver sentito il deputato palestinese Mustafa Barghouti sostenere che era stato Israele a infrangere la tregua, ha promesso agli ascoltatori che avrebbe fatto una ricerca con la redazione internazionale del network, per appurare i fatti. Ed effettivamente, il 6 gennaio Rick Sanchez ha mostrato in trasmissione come Israele abbia violato per prima i termini della tregua, precisamente il 4 novembre. Con l'occasione sono stati fatti vedere i giornali di novembre che riportavano il fatto. Il filmato della CNN, con i sottotitoli in italiano, può essere visto a questo indirizzo: http://www.youtube.com/watch?v=2CMCJHspdbE&feature=channel_page.
  • 10 gennaio. Appello di 105 ebrei inglesi contro l’assedio israeliano del ghetto di Gaza. Scrivono, sul The Guardian, che «quando abbiamo visto la morte e i corpi insanguinati dei bambini, il taglio dell'acqua, dell'elettricità e del cibo, ci è tornato in mente l'assedio del ghetto di Varsavia. Quando Dov Weisglass, consigliere del primo ministro israeliano Ehud Olmert, ha parlato di mettere gli abitanti di Gaza “a dieta” e il viceministro della Difesa, Matan Vilnai, ha detto che i Palestinesi avrebbero sperimentato “una Shoah più grande”, ci hanno ricordato il governatore generale Hans Frank nella Polonia occupata dai nazisti, che parlava di “morte per fame”. La vera ragione dell'attacco a Gaza è che la volontà di Israele è quella di accordarsi solo con i quisling palestinesi. Il maggior crimine di Hamas non è il terrorismo ma il suo rifiuto di accettare di diventare una pedina nelle mani del regime di occupazione israeliana in Palestina». Gli ebrei inglesi deplorano pure «la decisione del mese scorso del Consiglio dell’Unione Europea di incrementare le relazioni con Israele, senza alcuna condizione specifica sui diritti umani», che a loro avviso «ha ulteriormente incoraggiato l'aggressione israeliana». Secondo i firmatari, «la Gran Bretagna deve ritirare il suo ambasciatore da Israele e, come con l'apartheid in Sud Africa, impegnarsi in un programma di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni».

 

  • 10 gennaio. La politica di Israele degli ultimi sessanta anni, dalla “pulizia etnica” del 1948 alla brutale occupazione della Cisgiordania e alla strage di Gaza «è il frutto di un’ideologia razzista chiamata Sionismo». Lo storico israeliano Ilan Pappe, docente all'Università di Exeter, esprime ripugnanza per l’attacco genocida su Gaza, la copertura dei media e l’impunità internazionale di cui gode il regime di Tel Aviv. Il linguaggio dei media in Israele «ricorda i momenti più bui degli anni Trenta in Europa. Ogni mezz'ora un notiziario alla radio e alla televisione descrive le vittime di Gaza come terroristi e il loro omicidio di massa ad opera di Israele come un atto di autodifesa». Rabbia anche verso il razzismo a cui sono sottoposti gli arabi israeliani, «bollati come quinta colonna all'interno dello Stato ebraico». Pappe descrive una società israeliana impermeabile a discorsi sensati, poiché «la convinzione a priori di essere nel giusto è un potente atto di abnegazione e giustificazione». Fronteggiare questa «cieca convinzione morale» significa per il “nuovo storico” israeliano denunciare l’ideologia sionista e le atrocità commesse in suo nome. «Dobbiamo provare a spiegare non solo al mondo, ma anche agli israeliani stessi, che il Sionismo è un'ideologia che appoggia la pulizia etnica, l'occupazione, e ora l'omicidio di massa. Ciò di cui ora si sente il bisogno non è solo di una condanna della strage in corso, ma anche della delegittimazione di un'ideologia che produce quella politica e la giustifica moralmente e politicamente». Pappe rileva che nelle realtà accademiche, grazie all’opera dei “nuovi storici israeliani”, «questo processo è già stato fatto», e bisogna ora «trovare una modalità efficace» per arrivare a coinvolgere l’opinione pubblica.

 

  • 10 gennaio. Delegittimare il sionismo significa pure, secondo Pappe, contrastare l'idea «che la Palestina è solo la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, e che i palestinesi sono unicamente le persone che vivono in quei territori. Noi dovremmo ampliare la rappresentazione della Palestina in senso geografico e demografico, compiendo una narrazione storica degli avvenimenti del 1948 e richiedere pari diritti umani e civili per tutte le persone che vivono, o un tempo vivevano, in quelli che oggi sono Israele e i Territori Occupati». Questa delegittimazione dello Stato d’Israele fornirà altresì «una spiegazione logica e trasparente alla campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni. Sfidare con mezzi nonviolenti uno Stato ideologico che non ammette dubbi circa la propria rettitudine e che si permette, aiutato da un mondo taciturno, di espropriare e distruggere la popolazione autoctona della Palestina, è una causa giusta e morale. Sarebbe inoltre un modo efficace per stimolare l'opinione pubblica, non solo contro l'attuale politica di genocidio a Gaza, ma se tutto va bene anche per prevenire future atrocità».

 

  • 10 gennaio. La tesi ufficiale sionista, secondo cui Israele si sarebbe dovuto difendere da un lancio continuo di razzi palestinesi, è passata nei media, dove si discute solo se la «giusta» e «legittima» reazione israeliana sia stata però «sproporzionata». I dati reali mostrano ben altro. Sul The Huffington Post (6 gennaio 2009), Nancy Kanwisher, Johannes Haushofer e Anat Biletzki hanno elaborato i dati forniti dal consolato israeliano a New York riguardante il numero di lanci di razzi e i colpi di mortaio provenienti da Gaza verso Israele. Il risultato è questa tabella:

 

  • Insomma, a partire dalla tregua siglata a giugno i colpi sparati cessano praticamente del tutto, con nessun lancio da parte di militanti di Hamas. A novembre ecco un’improvvisa impennata: infatti proprio il 4 di quel mese gli israeliani rompono la tregua, uccidendo. Un evento seguito da una raffica di colpi di mortaio sparati da Gaza, a cui ha corrisposto un attacco aereo israeliano che ha ucciso altri sei palestinesi. Gli autori hanno poi voluto vedere quale parte, in passato, abbia per primo rotto le tregue. Usando i dati dell’associazione pacifista israeliana B'Tselem per il periodo che va dal settembre del 2000 all'ottobre del 2008, gli autori scoprono che nella stragrande maggioranza dei casi (79%), a uccidere per primo dopo una pausa nel conflitto è stata Israele. Ancor più significativo è il dato di chi sia stato ad uccidere per primo dopo i periodi di tregua ai 9 giorni: Israele nel 100% dei casi.


  • 10 gennaio. «Una guerra non necessaria»: così definisce l’attacco israeliano l’ex presidente statunitense (1977-1981) Jimmy Carter sul Washington Post di due giorni fa. Carter porta la sua testimonianza diretta sui negoziati che portarono lo scorso giugno alla sospensione del lancio di razzi in Israele da parte di Hamas, «il solo mezzo per rispondere al loro imprigionamento e per rendere testimonianza della loro grave situazione umanitaria». L’ex presidente rileva che, nonostante il lancio di razzi fermato da Hamas il 19 giugno, il ripristino degli aiuti umanitari in cibo, acqua, medicinali e combustibile rimase molto al di sotto del livello precedente il ritiro israeliano del 2005. «E questa fragile tregua fu rotta il 4 novembre, quando Israele lanciò un attacco a Gaza». Da qui eccoci ai devastanti bombardamenti israeliani. «Dopo 12 giorni di "combattimento", le Forze di Difesa di Israele resero noto che 1000 obiettivi erano stati presi di mira e bombardati». Ma quali sono stati gli obiettivi del fuoco israeliano? «Diciassette moschee, la Scuola Internazionale Americana, molte case private e molta dell'infrastruttura di base della piccola ma densamente popolata area sono state distrutte. Ciò include i sistemi di fornitura di acqua potabile, elettricità, rete fognaria».

 

  • 10 gennaio. Wall Street Journal: con il pretesto dell’“autodifesa”, Israele sta commettendo immani crimini di guerra. Lo scrive George Bisharat. Il prestigioso quotidiano statunitense ricorda gli avvenimenti che hanno portato all’aggressione israeliana, asserendo che «Israele non ha subìto un “attacco armato” poco prima del suo bombardamento della Striscia di Gaza». Citando il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem, il giornale USA rileva che, dal 2002 in poi, mentre i lanci di razzi e proiettili hanno provocato circa due dozzine di morti israeliane e un panico assai diffuso, «durante circa lo stesso periodo le forze israeliane hanno ucciso 2.700 palestinesi a Gaza, con omicidi mirati, bombardamenti aerei, raid, eccetera». Nonostante la tregua del 19 giugno, «Israele ha rifiutato di allentare il soffocante assedio contro Gaza imposto nel giugno del 2007. Hamas ha permesso sporadici lanci di razzi –generalmente dopo che Israele aveva ucciso o sequestrato membri di Hamas in Cisgiordania, dove la tregua non è stata applicata».

  • 10 gennaio. La tregua è stata rotta da Israele il 4 novembre. «Hamas ha replicato con un lancio di razzi –e anche in questo caso non è stato ucciso nessun israeliano». Israele, dunque, «non può rivendicare il diritto all’autodifesa contro questa escalation, perché essa è stata provocata da una violazione della medesima Israele. Un attacco armato che non è giustificato dall’autodifesa è una guerra di aggressione. In base ai Principi di Norimberga affermati dalla risoluzione n° 95 delle Nazioni Unite, l’aggressione è un crimine contro la pace». Una guerra volta a massacrare i civili palestinesi. «Gli aerei d’Israele F-16, di fabbricazione americana, e gli elicotteri Apache, hanno distrutto moschee, i ministeri dell’educazione e della giustizia, un’università, delle prigioni, tribunali e stazioni di polizia. Queste istituzioni facevano parte delle infrastrutture civili di Gaza. E quando vengono colpite le istituzioni civili, i civili muoiono».

  • 10 gennaio. Così si conclude l’articolo: «gli attacchi deliberati contro i civili compiuti senza una rigida necessità militare sono crimini di guerra. Le violazioni attuali da parte di Israele del diritto internazionale prolungano una lunga sequenza di violazioni dei diritti dei palestinesi di Gaza. L’80% del milione e mezzo dei residenti di Gaza sono profughi palestinesi che vennero cacciati dalle proprie case o che fuggirono nel 1948 per paura degli attacchi terroristici ebraici. Per 60 anni, Israele ha negato il diritto dei profughi palestinesi, riconosciuto a livello internazionale, di ritornare nelle proprie case –perché non sono ebrei. Sebbene Israele abbia ritirato i propri coloni e i propri soldati da Gaza nel 2005, essa continua a regolare strettamente la costa, lo spazio aereo e i confini di Gaza. Così Israele rimane una potenza occupante con il dovere legale di proteggere la popolazione civile di Gaza. Ma l’assedio di 18 mesi della Striscia di Gaza che ha preceduto l’attuale crisi ha violato in modo madornale questo obbligo. Esso ha portato l’attività economica alla paralisi, lasciando i bambini affamati e denutriti, e ha negato agli studenti palestinesi l’opportunità di studiare all’estero. Israele dovrebbe essere ritenuta responsabile dei propri crimini, e gli Stati Uniti dovrebbero cessare di appoggiarla con il proprio incondizionato sostegno militare e diplomatico».

 

  • 10 gennaio. Un bagno di sangue palestinese, per annientarne la resistenza e ristabilire la paura di Israele fra gli Stati arabi della regione. Sono gli obiettivi principali dei massacri sionisti, afferma l’ebreo e docente statunitense Norman Finkelstein, figlio di sopravissuti dell'Olocausto ed autore di opere come “Immagine e realtà del conflitto palestinese” e “L’industria dell’Olocausto: riflessioni sullo sfruttamento della sofferenza ebraica (la sua pagina web è www.NormanFinkelstein.com). Intervenuto l’8 gennaio scorso durante il programma di Amy Goodman “Democracy now”, al quale partecipò anche l’ex ambasciatore statunitense di Israele, Martín Indyk, ed intervistato il 2 gennaio a New York dalla Press TV, Finkelstein richiama i fatti. Innanzitutto, «molto prima che Hamas cominciasse i suoi attacchi con missili contro Israele in rappresaglia per gli attacchi di quest’ultima ai palestinesi, a Gaza si era già in una crisi umanitaria dovuto al blocco. L’ex Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Mary Robinson, descrisse che quello che stava succedendo in Gaza era la distruzione di una civiltà. Questo succedeva durante il periodo di tregua», in cui, secondo Jean Ziegler, relatore speciale per le Nazioni Unite sul diritto al cibo, si è assistito alla denutrizione del milione e mezzo di abitanti di Gaza, con più della metà delle famiglie palestinesi che mangiavano solo un pasto al giorno. Il lancio di razzi di Hamas, dopo la rottura della tregua da parte di Israele, è stato in questo contesto il pretesto che Tel Aviv cercava per avviare un massacro che, secondo il quotidiano israeliano Ha'aretz (09.01.09), il ministro della difesa israeliano Ehud Barak aveva cominciato a preparare nel marzo scorso, addirittura prima che iniziasse la tregua di giugno. «Il 4 novembre gli israeliani hanno violato il cessate il fuoco con Hamas, sapendo benissimo –e se si leggono i giornali israeliani si nota che lo hanno anche detto esplicitamente– che dopo l’uccisione di sei militanti a Gaza i palestinesi avrebbero reagito e allora Israele avrebbe avuto un pretesto per l’invasione».

 

  • 10 gennaio. Secondo il docente statunitense, con il massacro palestinese Tel Aviv ritiene di poter «aumentare quello che l’Israele chiama la sua capacità di dissuasione –ossia questo significa semplicemente aumentare la capacità d'Israele di terrorizzare la regione fino alla sottomissione. A seguito della sua sconfitta in Libano nel luglio 2006, Israele considerava importante trasmettere il messaggio che ancora è una forza militare, in grado di terrorizzare chi osi sfidare i suoi ordini». L’Olocausto di civili palestinesi è una componente essenziale della strategia. «Gli israeliani, dopo l’attacco al Libano del 2006, hanno compreso che il loro errore era stato quello di non scatenare fin dai primi giorni il pieno potenziale delle forze aeree. Nei primi due giorni della guerra del Libano hanno ucciso circa 55 libanesi e poi hanno preso di mira il quartiere Dahia di Beirut. Dopo la guerra, hanno iniziato a discutere della strategia di Dahia, cioè di annichilire qualunque cosa si opponga al loro dominio. Ciò che avete visto nei primi due giorni a Gaza è l’applicazione della strategia di Dahia: perpetrare un bagno di sangue e un massacro di dimensioni tali da sconsigliare gli arabi dallo sfidare in futuro il dominio israeliano».

  • 10 gennaio. L’attacco è stato eseguito in una congiuntura particolare, non soltanto per l’insediamento della nuova amministrazione Obama negli USA, ma anche perché i dirigenti di Hamas avevano espresso a più riprese disponibilità ad un accordo con Israele per l’istituzione di uno Stato palestinese sulla base dei confini del 1967. «Ciò significa che Hamas ha dato segnali di voler fare ciò che la comunità internazionale chiede ad Israele di fare da 30 anni a questa parte (…) Così Israele avrebbe dovuto affrontare quella che gli israeliani chiamano “l’offensiva di pace palestinese”. E per sconfiggere l’offensiva di pace, ha cercato di smantellare Hamas». Tel Aviv, infatti, rifiuta nella pratica la soluzione dei “due Stati” «perché vuole che continui il suo controllo sulla West Bank. Quindi per Israele un “palestinese moderato” è uno che rifiuta tutte le condizioni proposte dalla comunità internazionale, un palestinese che rifiuta le posizioni di Hamas. Per Israele un palestinese moderato è un palestinese disposto a fare tutto ciò che Israele desidera: un palestinese pronto ad eseguire ogni ordine israeliano».


  • 10 gennaio. Finkelstein ricorda che «ogni anno, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite vota una risoluzione intitolata "Sistemazione pacifica della questione Palestinese", ed ogni anno il risultato della votazione è sempre lo stesso: il mondo intero da un lato e dall’altro Israele, Stati Uniti, alcune isole del Pacifico Meridionale ed Australia». La soluzione dei “due Stati”, Israele e Palestina secondo i confini esistenti nel giugno1967, è nei fatti rifiutata solo da Israele (appoggiata dagli USA). «Questo è il problema». Finkelstein ricorda pure una sentenza della Corte internazionale di giustizia, la più alta istanza giuridica mondiale. «Nel luglio di 2004 (…) disse che Israele non aveva alcun diritto sui territori di Cisgiordania e Gaza, né tantomeno su Gerusalemme. Secondo la più alta istanza giuridica mondiale, Gerusalemme Est è territorio palestinese occupato. Secondo la Corte Internazionale di Giustizia tutti gli insediamenti israeliani in Cisgiordania sono illegali in base al Diritto Internazionale». La questione è per Finkelstein piuttosto semplice: «se Israele non rispetta il Diritto Internazionale, la si deve rendere responsabile delle sue azioni, esattamente come qualsiasi altro Stato del mondo».

 

  • 10 gennaio. L’attacco contro Gaza è un «crimine contro l'umanità». Pesanti, anche in senso geopolitico, sono le dichiarazioni del primo ministro turco Tayyip Erdogan ad al-Jazeera (5 gennaio). «La tragedia di Gaza non è iniziata con l'offensiva israeliana, ma con i mesi di fame e con l'assedio». Erdogan ha anche svelato come pochi giorni prima dell'attacco israeliano si fosse incontrato ad Ankara con il primo ministro israeliano, offrendosi come mediatore con Hamas. «I dirigenti di Hamas ci hanno assicurato che hanno fiducia completa nel nostro paese. Quindi, siamo pronti a farci portavoce delle loro richieste e punti di vista davanti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite [dove la Turchia vanta attualmente un seggio come membro non permanente, ndr]. Hamas ha due richieste principali: la prima è il cessate il fuoco, la seconda è la fine dell'assedio».

 

  • 11 gennaio. Hamas vincerà, ed i massacri israeliani costituiscono un crimine anche nei confronti dello stesso Stato sionista. Non lo afferma un leader del movimento islamico, bensì il pacifista (Gush Shalom) ed ex combattente israeliano Uri Avnery sul sito Gulfnews. Avnery inizia l’articolo deplorando la “guerra dell’informazione” dei media “occidentali”, diffusori della propaganda israeliana. «Essi ignoravano quasi del tutto le ragioni dei palestinesi, per non parlare delle dimostrazioni quotidiane del campo della pace israeliano. La logica del governo israeliano (“Lo Stato deve difendere i suoi cittadini contro i razzi Qassam”) è stata accettata come se quella fosse tutta la verità. L'altro punto di vista, per cui i Qassam sono una rappresaglia per l'assedio che affama il milione e mezzo di abitanti della Striscia di Gaza, non è stato riportato affatto». Lo scrittore israeliano si sofferma poi sul movimento di Hamas, vincitore nel 2006 delle elezioni legislative in Cisgiordania, a Gerusalemme Est e nella Striscia di Gaza. «Ha vinto perché i palestinesi erano giunti alla conclusione che l'atteggiamento pacifico di Fatah non avesse ottenuto nulla da Israele –né un congelamento degli insediamenti, né il rilascio dei prigionieri, né un qualunque passo significativo verso la fine dell’occupazione e la creazione dello Stato palestinese. Hamas è profondamente radicato nella popolazione –non solo come movimento di resistenza che combatte l’occupante (…)– ma anche come organismo politico e religioso che fornisce servizi sociali, scuola e sanità. Dal punto di vista della popolazione, i combattenti di Hamas non sono un organismo straniero, ma figli di ogni famiglia della Striscia e delle altre regioni palestinesi. Essi non si “nascondono dietro la popolazione”: la popolazione li vede come i suoi unici difensori. Perciò, l’intera operazione si basa su presupposti errati. Trasformare la vita in un inferno sulla terra non fa insorgere la popolazione contro Hamas ma, al contrario, essa si stringe dietro Hamas e rafforza la propria determinazione a non arrendersi. La popolazione di Leningrado non si sollevò contro Stalin».

 

  • 11 gennaio. Avnery prende atto che la guerra è stata impostata per ridurre al minimo le perdite tra i soldati israeliani, in modo da non alienarsi il sostegno dell’opinione pubblica in particolare alla vigilia della campagna elettorale, dove il laburista ed attuale ministro della “difesa” Ehud Barak sale nei sondaggi. «Perciò, si è fatto ricorso a una nuova dottrina: evitare perdite tra i nostri soldati mediante la distruzione totale di tutto ciò che incontrano sulla loro strada. Per salvare un soldato israeliano si era disposti a uccidere non solo 80 palestinesi, ma anche 800». Ma, rileva l’ex membro della formazione terrorista israeliana “Irgun”, questa scelta implica un massacro dei civili palestinesi. I pianificatori israeliani pensavano che sarebbe bastato impedire la presenza dei media nel campo di battaglia per occultare i massacri. Invano. «Aljazeera trasmette le immagini a tutte le ore, e arriva in tutte le case», mostrando «l'uccisione di intere famiglie, la distruzione di case sulla testa dei loro abitanti, le file di bambini e bambine in sudari bianchi pronti per la sepoltura, le notizie di persone lasciate a morire dissanguate per giorni perché non si consentiva alle ambulanze di raggiungerle, l'uccisione di dottori e medici impegnati a salvare vite umane, l'uccisione di autisti dell’ONU che trasportavano cibo. Le immagini degli ospedali, con i morti, le persone in fin di vita, i feriti stesi tutti insieme sul pavimento per mancanza di spazio hanno scioccato il mondo».

 

  • 11 gennaio. La strategia del sangue contiene dunque dentro di sé un “tallone d’Achille”. «La battaglia per il teleschermo è una delle battaglie decisive della guerra. Centinaia di milioni di arabi dalla Mauritania all'Iraq, più di un miliardo di musulmani dalla Nigeria all'Indonesia vedono le immagini e sono orripilati. Questo ha un impatto forte sulla guerra. Molti spettatori vedono i governanti dell'Egitto, della Giordania, dell'Autorità palestinese come collaboratori di Israele nell'attuazione di queste atrocità ai danni dei loro fratelli palestinesi. I servizi di sicurezza dei regimi arabi stanno registrando un fermento pericoloso tra le popolazioni. Hosny Mubarak, il leader arabo più esposto per aver chiuso il valico di Rafah in faccia ai profughi terrorizzati, ha cominciato a premere sui decisori di Washington, che fino ad allora avevano bloccato tutti gli inviti a cessare il fuoco. Questi hanno cominciato a capire che i vitali interessi americani nel mondo arabo erano minacciati e improvvisamente hanno cambiato atteggiamento –nella costernazione dei compiacenti diplomatici israeliani». Gli strateghi israeliani sembrano dunque incapaci di cogliere la portata degli effetti delle loro avventate scelte belliche. «Non solo Israele non è in grado di vincere la guerra: Hamas non può perderla. Anche se l'esercito israeliano dovesse riuscire a uccidere ogni combattente di Hamas fino all'ultimo uomo, anche allora Hamas vincerebbe. I combattenti di Hamas sarebbero visti come i modelli della nazione araba, gli eroi del popolo palestinese, i modelli da emulare per ogni giovane del mondo arabo. La Cisgiordania cadrebbe nelle mani di Hamas come un frutto maturo, Fatah affogherebbe in un mare di disprezzo, i regimi arabi rischierebbero di crollare». Secondo Avnery, se dopo la guerra Hamas esistesse ancora, «sanguinante ma non sconfitto, a fronte della possente macchina militare israeliana, ciò apparirebbe come una vittoria fantastica», mentre in particolare nel mondo arabo «resterà impressa a fuoco l'immagine di Israele come un mostro lordo di sangue, pronto in qualunque momento a commettere crimini di guerra e non intenzionato a rispettare alcun freno morale. Questo avrà gravi conseguenze a lungo termine per il nostro futuro, per la nostra posizione nel mondo, per la nostra chance di raggiungere la pace e la tranquillità. In fondo, questa guerra è anche un crimine contro noi stessi, un crimine contro lo Stato di Israele».

  • 11 gennaio. Perché il massacro di civili a Gaza? Secondo Thierry Meyssan, fondatore di Réseau Voltaire (rete Voltaire), l’attacco israeliano, avviato il 27 dicembre con i bombardamenti e proseguito il 3 gennaio con un’offensiva terrestre, è stato preparato da lungo tempo ed attuato con il sostegno economico e logistico di Arabia Saudita ed Egitto (interessati per ragioni di potere ad eliminare un movimento politico sunnita “indipendente”) per mettere di fronte al fatto compiuto la nuova presidenza statunitense. In tale contesto i bombardamenti non sono concepiti per eliminare Hamas, opzione definita impossibile, ma allo scopo di paralizzare la società palestinese nel suo insieme. Meyssan scrive che gli obiettivi sionisti sono «di appropriarsi di questa terra e di procedere alla sua pulizia etnica o, in alternativa, di imporvi un sistema di apartheid. I Palestinesi vi sono quindi rinchiusi in riserve sul modello dei bantustan sudafricani; attualmente, la Cisgiordania da una parte, la striscia di Gaza dall'altra. Ogni 5 o 10 anni, un'importante operazione militare deve essere dispiegata per spezzare le velleità di resistenza della popolazione. Da questo punto di vista, l'operazione "Piombo fuso" non è che un ulteriore massacro, perpetrato da uno Stato che da sessant'anni gode di una totale impunità. Come ha rivelato Haaretz, il ministro della Difesa, Ehud Barak, ha accettato la tregua di sei mesi solo per spingere i combattenti di Hamas ad uscire dall'ombra. Ha approfittato di questo periodo per monitorarli col fine di annientarli alla prima occasione».


  • 11 gennaio. Non è però casuale, secondo Meyssan, che questa operazione sia stata attuata durante il periodo di transizione della presidenza statunitense. L’eterogeneo blocco di potere che ha trascinato Barack Obama alla Casa Bianca non ha, ad avviso di Meyssan, «una posizione definita sul Medio Oriente». La “squadra” di Obama comprende anche i sostenitori dell’Iraq Study Group, istituito nel 2006 da Bush per esaminare la fallimentare situazione in Iraq e proporre vie d’uscita, co-presieduto dall’ex segretario di Stato repubblicano James Baker III e dall’ex parlamentare democratico Lee Hamilton. «I generali in rivolta e i sostenitori della Commissione Baker-Hamilton insieme al loro maître-à-penser, il generale Brent Scowcroft, ritengono che gli Stati Uniti abbiano sovraimpiegato il proprio esercito e debbano assolutamente limitare gli obiettivi e ricostituire le forze. Si sono opposti ad una guerra contro l’Iran e, al contrario, hanno affermato la necessità di ottenere l’aiuto di Teheran per evitare la disfatta in Iraq. Deplorano i tentativi di rimodellamento del Medio Oriente (cioè una modifica delle frontiere) ed invocano un periodo di stabilità. Alcuni di essi arrivano al punto di raccomandare di portare la Siria e l’Iran nel campo atlantico costringendo Israele a restituire il Golan e a una parziale risoluzione della questione palestinese. Propongono di indennizzare gli Stati disposti a naturalizzare i profughi palestinesi e d'investire in maniera massiccia nei Territori per renderli economicamente vivibili».

 

  • 11 gennaio. Un esame dei componenti dell’amministrazione Obama è importante per prevedere quali linee strategiche intraprenderà la politica estera USA. In sintesi, Meyssan ritiene che le nomine continuano ad assicurare ad Israele l’appoggio diplomatico degli Stati Uniti, ma non più il suo massiccio aiuto militare. «Il Consiglio nazionale di sicurezza tocca a degli atlantisti preoccupati che le provocazioni israeliane portino a un turbamento delle forniture energetiche per l'Occidente, il generale Jones e Tom Donilon. Jones, che era incaricato dell'iter successivo alla conferenza di Annapolis, ha manifestato più volte la sua irritazione di fronte alle controfferte israeliane. La segreteria della Difesa resta nelle mani di Robert Gates, ex vice di Scowcroft e membro della Commissione Baker-Hamilton. Si appresta a ringraziare i collaboratori che ha ereditato da Donald Rumsfeld e che non ha potuto silurare prima come ha già fatto con due fanatici anti-iraniani, il segretario all'Aeronautica Michael Wynne e il suo capo di stato-maggiore il generale T. Michael Moseley». Di rilievo è comunque la presenza di sostenitori d’Israele nell’amministrazione Obama. Vedasi il segretario di Stato Hillary Clinton, convertita al sionismo cristiano e aderente alla Fellowship Foundation; oppure il capo di gabinetto Rahm Emanuel, «doppia nazionalità israelo-statunitense e ufficiale del servizio informativo militare israeliano (Rahm Emmanuel è stato un ex soldato dell’esercito israeliano, ed è da alcuni sospettato di essere un agente israeliano, ndr). Alla segreteria di Stato (il “ministero degli Esteri” USA) posti di rilievo saranno affidati a protetti di Madeleine Albright e di Hillary Clinton. I due segretari di Stato aggiunti, James Steinberg e Jacob Lew, sono dei sionisti convinti. Il primo è stato il redattore del discorso di Obama all'AIPAC, l'American Israel Public Affairs Committee (AIPAC)», associazione che si definisce la "lobby statunitense pro-Israele" e che raccoglie trasversalmente componenti democratici, repubblicani e indipendenti. Il progetto di queste frazioni di classe dominante è completare la trasformazione dei Territori Occupati in bantustan. «Se si arrivasse a debellare la Resistenza, alla fine si fonderebbero nel paesaggio come le riserve indiane negli Stati Uniti».

 



Rahm Benjamin Emanuel, capo di staff di Barack Obama, figlio di genitori emigrati da Israele negli anni ’60. Lo scorso novembre il quotidiano Maariv lo ha definito «il nostro uomo alla Casa Bianca», riferendo che il padre di Rahm, Benyamin, è stato in gioventù membro dell’Irgun, organizzazione sionista protagonista di svariati attentati terroristi.

 

  • 12 gennaio. “Pace” con Israele? A leggere le dichiarazioni di ex primi ministri israeliani, il solo tipo di “pace” che i sionisti prefigurano per i palestinesi è quella del cimitero. Dopo la fine del mandato britannico nel maggio 1948, l’ONU propose di dividere la Palestina in uno Stato sionista (56% della superficie) ed uno arabo (43%), con Gerusalemme da dichiarare "Zona Internazionale" sotto controllo dell’ONU. Il 9 aprile 1948, una banda dell’Irgun assalì il villaggio di Deir Yassin massacrando 250 abitanti su 300, in maggioranza donne e bambini. Di proposito la notizia fu sparsa in tutti i villaggi, utilizzando i pochi superstiti, organizzando conferenze stampa, riproduzioni fotografiche del villaggio distrutto, volantini incitanti a fuggire. Iniziò allora l’esodo in massa dei palestinesi. Menachem Begin, capo dell’Irgun, dichiarò: «Gli arabi, spaventati, cominciarono a fuggire. L'Haganah compiva attacchi vittoriosi su altri fronti, mentre le forze ebraiche continuavano ad avanzare verso Haifa come un coltello nel burro. Presi dal panico, gli arabi scappavano gridando: "Deir Yassin"» (M. Begin, The Revolt: Story of the Irgun, Hadar Publishing Co. 1964). David Ben Gurion, primo ministro e presidente del neonato Stato di Israele, nel maggio del 1948, rivolto agli ufficiali del suo Stato maggiore, disse: «Dobbiamo usare il terrore, l'assassinio, l'intimidazione, la confisca delle terre e l'eliminazione di ogni servizio sociale per liberare la Galilea dalla sua popolazione araba» (Ben-Gurion, “A Biography”, by Michael Ben-Zohar, Delacorte, New York 1978). Non è stata la prima volta. «Noi dobbiamo espellere gli arabi e prenderci i loro posti» (1937, Ben Gurion and the Palestine Arabs, Oxford University Press, 1985). « I villaggi ebraici sono stati costruiti al posto dei villaggi arabi. Voi non li conoscete neanche i nomi di questi villaggi arabi, e io non vi biasimo perché i libri di geografia non esistono più. Non soltanto non esistono i libri, ma neanche i villaggi arabi non ci sono più. Nahlal è sorto al posto di Mahlul, il kibbutz di Gvat al posto di Jibta; il kibbutz Sarid al posto di Huneifis; e Kefar Yehushua al posto di Tal al-Shuman. Non c'è un solo posto costruito in questo paese che non avesse prima una popolazione araba» (David Ben Gurion, citato in “The Jewish Paradox”, di Nahum Goldmann, Weidenfeld and Nicolson, 1978). «Se avessi saputo che era possibile salvare tutti i bambini della Germania trasportandoli in Inghilterra, e soltanto la metà trasferendoli nella terra d’Israele, avrei scelto la seconda soluzione, a noi non interessa soltanto il numero di questi bambini ma il calcolo storico del popolo d'Israele» (David Ben-Gurion, citato in “Ben-Gurion”, di Shabtai Teveth).

 

  • 12 gennaio. Golda Meir, primo ministro (1969-1974), affermò che «non esiste una cosa come il popolo palestinese» (dichiarazione al The Sunday Times, 15 giugno 1969); e «a tutti quelli che parlano in favore di riportare indietro i rifugiati arabi devo anche dirgli come pensa di prendersi questa responsabilità, se è interessato allo stato d'Israele. E bene che le cose vengano dette chiaramente e liberamente: noi non lasceremo che questo accada» (1961, discorso alla Knesset, riportato su Ner, ottobre 1961). Yitzhak Rabin, primo ministro (1974-1977, 1992-1995): «Uscimmo fuori, Ben-Gurion ci accompagnava. Allon rifece la sua domanda, “Che cosa si doveva fare con la popolazione palestinese?” Ben-Gurion ondeggiò la mano in un gesto che diceva `cacciateli fuori!» (Yitzhak Rabin,versione censurata delle memorie di Rabin, pubblicata sul New York Times, 23 ottobre 1979). Il succitato Menachem Begin, primo ministro d'Israele (1977-1983): «[I palestinesi] sono bestie che camminano su due gambe» (Discorso alla Knesset di Menachem Begin Primo Ministro israeliano, riportato da Amnon Kapeliouk, "Begin and the 'Beasts'," su New Statesman, 25 giugno 1982). Yizhak Shamir, primo ministro (1983-1984, 1986-1992): « [I palestinesi] saranno schiacciati come cavallette (...) con le teste sfracellate contro i massi e le mura» (Yitzhak Shamir in un discorso ai coloni ebrei, New York Times, 1 aprile 1988). Benjamin Netanyahu, primo ministro (1996-1999): «Israele avrebbe dovuto approfittare dell'attenzione del mondo sulla repressione delle dimostrazioni in Cina, quando l'attenzione del mondo era focalizzata su quel paese, per portare a termine una massiccia espulsione degli arabi dei territori» (Benyamin Netanyahu, allora vice ministro degli esteri, in un discorso agli studenti della Bar Ilan University, dal giornale israeliano Hotam, 24 novembre 1989). Ehud Barak, primo ministro (1999-2001): «Se pensassimo che invece di 200 vittime palestinesi, 2.000 morti metterebbero fine agli scontri in un colpo, dovremmo usare più forza» (Associated Press, 16 novembre 2000); «Sarei entrato in un'organizzazione terroristica» (Risposta a Gideon Levy, giornalista del quotidiano Ha'aretz, quando chiese a Barak che cosa avrebbe fatto se fosse nato palestinese). Ariel Sharon, primo ministro (2001-2006): «È dovere dei dirigenti d'Israele spiegare all'opinione pubblica, chiaramente e coraggiosamente, un certo numero di fatti che con il tempo sono stati dimenticati. Il primo di questi è che non c'è sionismo, colonizzazione, o Stato Ebraico senza lo sradicamento degli arabi e l'espropriazione delle loro terre» (Ariel Sharon, ministro degli esteri d'Israele, parlando ad una riunione di militanti del partito di estrema destra Tsomet, Agenzia France Presse, 15 novembre 1998).

 

  • 12 gennaio. Tornando ai nostri giorni, proviamo a riepilogare gli avvenimenti che hanno portato all’operazione “Piombo fuso”, lanciata da Israele contro Gaza il 27 dicembre. Partiamo dal gennaio 2006, data in cui Hamas vince le elezioni nei territori palestinesi occupati da Israele, diventando il partito di maggioranza e formando il governo. Un successo frutto del fallimento politico di al-Fatah, la cui “corruzione” va considerata un epifenomeno derivato dalla resa ad Israele con quelle tanto false quanto strombazzate “trattative di pace” (in corso dal 1993 a livello esplicito, ma assai da prima a livello ufficioso) che, lungi dallo spianare la via alla creazione di uno Stato palestinese indipendente, ha coperto l’avanzata del processo di colonizzazione nella Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est.

 

  • 12 gennaio. La crescita di consenso politico di Hamas aveva tra l’altro comportato lo stemperamento delle posizioni più estremiste da parte dell’organizzazione e un atteggiamento politico sempre più pragmatico. Hamas non solo aveva formato il nuovo governo, capeggiato da Ismail Haniyeh, ma, pur ribadendo la propria indisponibilità ad accettare qualsiasi precondizione (e, in particolare, ad accettare quegli accordi di Oslo del 1993 che non prevedevano nessun limite alla continuazione della colonizzazione israeliana nei territori occupati), aveva fatto più volte intendere la propria disponibilità ad un negoziato, attraverso offerte (fatte in diverse occasioni) di tregue di dieci, venti e perfino trent’anni. La risposta dello Stato d’Israele, tuttavia, era stata da subito di completa chiusura e si era tradotta nella rottura di ogni relazione con il nuovo governo e nel rifiuto di versargli i proventi delle imposte e dei diritti doganali che, a norma degli accordi di Oslo, Israele riscuoteva dai palestinesi. La decisione di Israele aveva avuto il pieno supporto non solo degli USA, ma anche dell’Unione Europea, che hanno così imposto sanzioni economiche agli occupati.

 

  • 12 gennaio. Accanto al blocco politico ed economico dei territori occupati, fin dal dopo elezioni era stata posta in atto una seconda strategia, i cui architetti sono stati il segretario di Stato, Condoleezza Rice, un funzionario del National Security Council, Elliott Abrams, e l’assistant secretary per gli affari mediorientali del Dipartimento di Stato, David Welch. Tale strategia mirava all’eliminazione del governo di Hamas con strumenti politici, ma, in caso di necessità, anche militari, con l’organizzazione di un vero e proprio colpo di Stato da affidare a Mahomed Dahlan, il capo della sicurezza a Gaza. Nella seconda metà del 2006 la Rice induceva l’Egitto, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti a finanziare, rifornire e riorganizzare le forze armate di Dahlan, mentre quest’ultimo dava inizio a quella che egli stesso, in un’intervista a Vanity Fair, doveva poi definire una «guerra molto astuta» contro le forze di Hamas presenti a Gaza.

 

  • 12 gennaio. L’Arabia Saudita provava intanto a mediare un accordo fra Hamas e al-Fatah, in vista della creazione di un governo d’unità nazionale. L’accordo, raggiunto alla Mecca nel febbraio 2007, portava alla formazione di un governo congiunto Hamas-Fatah. L’amministrazione Bush rispondeva finalizzando, il 2 marzo, un vero e proprio piano di colpo di Stato, volto ad esautorare con la forza Hamas, ma, nel caso non collaborasse, anche lo stesso Abbas. Il piano stesso diventava di pubblico dominio nel mondo arabo quando, nell’aprile 2007, veniva pubblicato dal giornale giordano al-Majd. Il 7 giugno, il quotidiano israeliano Ha’aretz rivelava che Israele aveva autorizzato l’invio ad al-Fatah da parte dell’Egitto di decine di carri armati, centinaia di razzi e migliaia di bombe a mano. Il giorno dopo, a Gaza, Hamas lanciava un attacco preventivo contro al-Fatah, ponendo repentinamente fine all’«astuta guerra» di Dahlan e impadronendosi di Gaza. Da quel momento, Gaza è rimasta sotto il controllo di Hamas, mentre la Cisgiordania continuava ad essere governata dall’ANP, sotto la supervisione israeliana.

 

  • 12 gennaio. L’azione di Hamas, cioè del legittimo governo palestinese, è stata presentata al mondo come un «illegale colpo di Stato»; Israele ha quindi potuto procedere a rendere sempre più stretto il proprio assedio intorno a Gaza. Gaza, infatti, era stata sgomberata dalle forze d’occupazione israeliane nel 2005 da Sharon, ma, da allora, con la collaborazione dell’Egitto sulla frontiera Sud, Israele l’aveva trasformata in una sorta di lager a cielo aperto, bloccandone i confini terrestri e marittimi e controllandone lo spazio aereo. Dalle elezioni di Hamas, il blocco si era fatto sempre più stretto, comportando due tipi di azioni da parte degli israeliani e un tipo di reazione da parte dei palestinesi. Le azioni israeliane erano consistite nel razionamento sempre più stretto, realizzato con modalità sempre più umilianti, dei rifornimenti di beni essenziali, necessari alla sopravvivenza di una popolazione la cui economia era stata distrutta dall’occupazione israeliana; a ciò si erano accompagnate continue intimidazioni nei confronti della popolazione di Gaza, con voli a bassa quota a velocità supersonica, con occasionali tiri di artiglieria e con periodiche azioni di commando più o meno estese e più o meno sanguinarie all’interno della Striscia. Hamas aveva risposto con il lancio di razzi contro il territorio israeliano. I nostri media hanno in larga parte taciuto sul blocco economico che stava spingendo il milione e mezzo di abitanti di Gaza alla fame, parlato solo in maniera sporadica e superficiale delle azioni militari israeliani per soffermarsi invece con gran dovizia di particolari sugli attacchi dei «missili» di Hamas (in realtà razzi di fattura artigianale con una scarsissima capacità distruttiva, usati più per ragioni simboliche che militari). I dati parlano da soli: nei tre anni dopo il ritiro da Gaza nell’agosto 2005, sono stati uccisi dai razzi undici israeliani, mentre, solo nel 2005-2006, l’esercito israeliano ha ucciso 1.290 palestinesi di Gaza, fra cui 222 bambini.

 

  • 12 gennaio. In questa situazione infernale, nel giugno del 2007, con la mediazione egiziana, è stata raggiunta una tregua di sei mesi. Gli israeliani hanno però non solo continuato a mantenere il blocco economico di Gaza, ma l’hanno sempre più inasprito. Secondo dati dell’Oxfam, riportati da Sara Roy, un’esperta della situazione economica di Gaza, mentre nel dicembre 2005 entrava a Gaza una media di 565 camion di vettovaglie al giorno, nell’ottobre 2007 tale media era calata a 123 e nel novembre a 4,6. Sempre a novembre, il 4, la notte delle elezioni USA, l’esercito israeliano è entrato in Gaza, uccidendo quattro dirigenti di Hamas. Il 19 dicembre, quindi, Hamas ha dichiarato la propria indisponibilità a rinnovare una tregua estesamente violata da Israele. Era il pretesto che il governo israeliano aspettava per il massacro di Gaza.

 

  • 13 gennaio. «Qui non si muore solo per i bombardamenti ma anche per la paura e i bambini sono le prime vittime». Lo dice Padre Manuel Musallam, parroco di Gaza, rivelando come una bambina di 12 anni della famiglia Abu Ras sia morta di infarto nella sua abitazione. «I bambini stanno letteralmente impazzendo a causa delle bombe, piangono e gridano continuamente. Sono in una condizione di stress costante», ha spiegato il prete palestinese che è anche preside dell’unica scuola cristiana di Gaza. In nove giorni di assedio sono state colpite case, strade, caserme della polizia, uffici governativi e sette moschee. «La maggior parte degli abitanti di Gaza sono povere persone, innocenti. Anche i poliziotti uccisi i primi giorni. Loro lavoravano per Hamas ma non appartenevano a quel movimento. Anch'io sono sotto il governo di Hamas. Questo significa che sono un terrorista?». Il prete afferma infine che «se volevano distruggere Hamas, sono riusciti invece a rafforzarlo», concludendo con un monito agli israeliani: «Se dai fuoco alla casa del vicino, prenderà fuoco anche la tua», affermando pessimismo sulla possibilità di raggiungere una pace «in una tale condizione di sofferenza e umiliazione per i palestinesi».

 

  • 13 gennaio. Pace in Palestina secondo Hamas, parla Khaled Meshal. A metà del maggio 2008, i collaboratori del sito statunitense Counterpunch Alexander Cockburn e Alya Rea hanno intervistato a Damasco il capo dell’ufficio politico di Hamas. Meshal esordisce affermando che «Noi, come palestinesi, abbiamo l’onore di rappresentare una causa giusta. Abbiamo sopportato atrocità e occupazione. A causa d’Israele, metà del popolo palestinese vive sotto occupazione all’interno della Palestina e l’altra metà vive al di fuori di essa senza avere una casa. Oggi noi, come popolo palestinese, come nazione palestinese, desideriamo solo vivere in pace, senza più occupazione». Quello con Israele non è un conflitto religioso: «non abbiamo problemi con nessuna religione del mondo, né con alcuna razza. Sappiamo molto bene che Allah onnipotente ha creato gli esseri umani in razze e religioni differenti e che ci ha chiesto di conciliare queste diversità». Meshal accusa Washington del caos in Medio Oriente e del dramma palestinese, senza però scadere nell’“antiamericanismo”. «Naturalmente, non consideriamo il popolo americano responsabile di ciò. Ho visitato molte volte l’America. E so bene che il popolo americano è un popolo gentile. Ma il nostro problema è con la politica estera delle varie amministrazioni americane. Noi abbiamo accettato uno Stato palestinese entro i confini del 1967. Ma la comunità internazionale non è riuscita a costringere Israele a fare la stessa cosa. Perciò, cosa resta da fare ai palestinesi se non resistere?».

 

  • 13 gennaio. La resistenza di Hamas, sostenuta dal popolo palestinese, è la risposta alla truce occupazione sionista. «Gaza è il più grande campo di concentramento della storia. Ricordate la legge di Newton, secondo la quale ad ogni azione corrisponde una reazione eguale e contraria. L’occupazione israeliana è l’azione, la resistenza è la reazione. Ogni volta che in un’occupazione si incrementa il livello delle atrocità, allo stesso livello si incrementa la reazione della resistenza. I nostri razzi rientrano in questa formula. Se le atrocità e l’occupazione si fermassero, anche i razzi si fermerebbero». Meshal puntualizza che ad Hamas «non piace che ci siano vittime, soprattutto se donne e bambini, nemmeno da parte israeliana, anche se è stato Israele ad attaccare noi da principio. Ma sfortunatamente, il fatto che i nostri aggressori insistano con la repressione violenta porta sangue innocente sulle strade». A questo punto Meshal fa una rivelazione significativa: «fin dal 1996, 12 anni fa, noi abbiamo proposto di escludere i bersagli civili dal conflitto (da ambo le parti). Israele non ha dato alcuna risposta. Se Israele insiste ad uccidere i nostri bambini, i nostri vecchi, le nostre donne e i nostri rappresentanti, a bombardare le case con le cannoniere, gli F16 e gli Apache, se Israele continua questi attacchi, ai palestinesi cosa resta da fare? Si stanno solo difendendo con i mezzi che possiedono. Se anche noi possedessimo missili intelligenti, non li lanceremmo mai se non contro bersagli militari. Ma i nostri missili e razzi sono molto primitivi. Per questo li utilizziamo secondo le loro capacità, per reagire alle atrocità di Israele. Non sappiamo esattamente che cosa colpiranno. Se avessimo missili intelligenti –e speriamo che qualche paese possa fornirceli– è certo che non prenderemmo di mira se non bersagli militari».

 

  • 13 gennaio. Qual è la strategia di Israele secondo il leader di Hamas? Tel Aviv accetterà la proclamazione di uno Stato palestinese realmente indipendente? «Io credo che Israele voglia tenersi la terra di Palestina. Gaza è un caso eccezionale. A causa delle dimensioni e dell’alta densità di popolazione, ad Israele è convenuto andarsene. Ma a causa di considerazioni religiose, possibilità di accesso alle fonti idriche e presenza di avamposti militari, Israele non accetterà mai di cedere la West Bank». Con le cosiddette “trattative di pace” da Oslo in poi Israele ha solo mirato «a guadagnare tempo, a costruire o rafforzare una “realtà sul terreno”, ad espandere gli insediamenti e frammentare il territorio in modo tale da rendere impossibile la creazione di qualunque entità nazionale. In qualunque proposta di pace, Israele chiede sempre di mantenere quattro blocchi di insediamenti sulla West Bank. Il più grande è quello che circonda Gerusalemme; il secondo blocco è quello della zona settentrionale della West Bank; il terzo è quello nella zona meridionale della West Bank e il quarto è quello nella Valle del Giordano. E allora che cosa rimane della West Bank?».

 

 

Khaled Meshal

 

  • 13 gennaio. Soluzione dei “due Stati” o Stato unico? Meshal sottolinea che «il problema non è che cosa i palestinesi o gli arabi accetterebbero. I palestinesi hanno accettato molte cose. E gli arabi hanno accettato molte cose. Ma Israele le ha rifiutate (…) La domanda da porsi è: Israele accetterà o no?». Il capo politico di Hamas ricorda che il suo movimento ha sottoscritto, nel 2006, un “Documento di Conciliazione Nazionale” con Fatah e gli altri gruppi palestinesi in cui è stato accettato uno Stato di Palestina sulla base dei confini del 1967, comp
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