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Intervista con Adam Shapiro: “Bisogna giudicare 60 anni di crimini di Israele”

di Kourosh Ziabari - 25/01/2009

 


 


Adam Shapiro, simbolo ed esempio di sostenitore della pace puro e coraggioso, è da molto tempo preso di mira per le critiche categoriche e incondizionate che rivolge allo stato occupante israeliano.
Nato nel 1972, il perseverante e deciso attivista anti-sionista e co-fondatore dell'International Solidarity Movement (Movimento per la Solidarietà Internazionale) si impegna vigorosamente a far sentire la voce della nazione palestinese calpestata e oppressa.
In seguito al suo incontro con Yasser Arafat nella Muqata (il centro governativo) a Ramallah mentre era assediata durante l'operazione militare israeliana del marzo 2002 in Cisgiordania e a Gaza, Adam Shapiro è diventato famoso in tutto il mondo ed è finito da allora nel mirino dei media sionisti.
Nonostante i tanti insulti e invettive che la campagna sionista gli ha rovesciato addosso negli ultimi anni, Adam Shapiro non ha abbandonato né ammorbidito le sue posizioni; anzi, ha intensificato le dichiarazioni anti-sioniste in situazioni particolari come i tremendi 22 giorni di incursione israeliana a Gaza.Questa intervista è stata fatta durante il genocidio israeliano a Gaza, come risulta da alcuni passaggi della conversazione; in ogni caso contiene alcune informazioni molto utili e rivelatrici che si prestano a essere lette e meditate attentamente.
- KZ

Potrebbe informarci sulle principali e più importanti attività svolte dall'International Solidarity Movement? Quali sono i vostri propositi, metodi e progetti per assistere i sopravvissuti della recente offensiva a Gaza?

L'International Solidarity Movement (ISM) è stato creato nel 2001 con l'intento di coordinare la solidarietà internazionale con la resistenza palestinese all'occupazione e oppressione israeliane, attraverso la collaborazione di attivisti stranieri con attivisti palestinesi in azioni di resistenza civile non-violenta in Cisgiordania e a Gaza. Questo tipo di resistenza popolare ha sempre fatto parte del movimento palestinese, e sentivamo che l'aggiunta della componente internazionale avrebbe costretto il mondo a riconoscere che non si trattava di un conflitto «arabi contro ebrei» o «ebrei contro musulmani», ma piuttosto della resistenza a una situazione di oppressione e discriminazione a base etnica e religiosa che ricordava da vicino il movimento anti-apartheid in Sud Africa.

Oggi il ruolo dell'ISM continua in questo senso, ma assume un'importanza sempre maggiore la necessità di testimoniare e raccontare le atrocità che il popolo palestinese sta subendo. I volontari dell'ISM trascorrono periodi più lunghi nei territori e acquisiscono una conoscenza più approfondita della situazione.

Attualmente l'ISM ha 5 volontari nella Striscia di Gaza che operano durante l'assalto contro la popolazione di Gaza: scortano le ambulanze e il personale medico che rispondono alle chiamate d'emergenza; documentano quello che accade e lo raccontano al mondo mentre il governo sionista impedisce l'accesso ai giornalisti stranieri; danno una mano come possono nella distribuzione del cibo e dell'acqua in aree estremamente minacciate; e raccolgono le prove dei crimini di guerra che vengono perpetrati, come l'uso dei proiettili di artiglieria al fosforo bianco.

In base a ciò che dice, una scelta efficace e incisiva che potrebbe contribuire a liberare la popolazione palestinese dalla difficilissima situazione in cui si trova consiste nel promuovere l'idea dell'imposizione di sanzioni, di un embargo, a Israele. Com'è possibile boicottare e isolare questo regime terrorista sulla scena internazionale?

C'è un appello della società civile palestinese a boicottare Israele, ed è per questo che per noi è doveroso aderire a questo appello. Ciò detto, le sanzioni probabilmente nel migliore dei casi saranno simboliche, dati gli interessi internazionali nelle compagnie israeliane e la difficoltà di produrre un impatto efficace. Però simbolicamente la campagna per il boicottaggio, le sanzioni e il ritiro degli investimenti è molto utile, soprattutto a Occidente, dove ci permette di trasferire la discussione dalle false accuse di antisemitismo alla necessità di indicare perché queste misure siano necessarie. Inoltre il boicottaggio accademico e culturale può dare dei risultati tangibili, costringendo gli accademici, gli artisti e gli intellettuali israeliani ad affrontare la realtà del loro atteggiamento e a prendere posizione. Ci sono impegni molto credibili e importanti in tal senso, compresa la recente iniziativa di un sindacato degli insegnanti del Regno Unito. Tuttavia, in un certo senso, dobbiamo ricordare che servono azioni più drastiche, dato che questa situazione va avanti da più di 60 anni e le dimensioni della devastazione e dell'oppressione di tutto il popolo palestinese sono a un livello tale che le azioni simboliche – benché ottime – non rispondono all'urgenza e alla gravità della situazione.

Ciònonostante, gli Stati Uniti e i loro alleati europei oppongono un flagrante veto a qualsiasi risoluzione venga chiesta al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e non permettono alla comunità internazionale di esprimere liberamente una netta e chiara condanna del massacro israeliano. Qual è il motivo, secondo lei, e come ci si può opporre a questo?

Nel caso degli Stati Uniti il motivo ha a che fare soprattutto con fattori interni. Penso che per i paesi europei la cosa sia legata al persistente senso di colpa per l'olocausto, situazione che viene sfruttata da Israele e da alcune organizzazioni ebraiche di quei paesi per mantenere un atteggiamento omertoso quando si tratta di riprendere severamente e chiaramente Israele per i 60 anni di crimini contro l'umanità e di pulizia etnica. Negli Stati Uniti non c'è una base organizzata di elettori disposti a votare o a fare donazioni a campagne elettorali basate su questo tema. Quelli disposti a farlo sono pochi, e per lo più inefficaci. La lobby pro-israeliana negli Stati Uniti non coincide solo con la comunità ebraica ma comprende sionisti cristiani, il complesso industriale-militare, l'industria della tecnologia dell'informazione, quella delle biotecnologie, la comunità medica e altri settori che intrattengono importanti relazioni professionali e imprenditoriali con Israele. Il tutto si ripercuote sul sistema politico statunitense e stabilisce i parametri della discussione all'interno degli Stati Uniti in merito al sostegno a Israele.  

Ciò detto, credo anche che negli anni passati la dirigenza palestinese abbia perso delle occasioni, ma soprattutto abbia accettato il piano di pace come uno strumento per affrontare il conflitto, il che ha contribuito a creare un falso senso di parità tra le due parti. Invece di mantenere la posizione della liberazione nazionale, o di creare un movimento per la parità dei diritti o per porre fine all'oppressione/discriminazione, la scelta dei due stati nel contesto del processo di pace ha reso accettabile l'attribuzione della colpa a entrambe le parti.

Al di là di tutte queste incoerenze, neanche i due pesi e le due misure applicati dagli Stati Uniti a proposito del nucleare israeliano sono tollerabili. Se ne stanno tranquilli e con le mani in mano mentre tutti, perfino l'ex-Presidente Carter, hanno confessato che Israele possiede 200 testate nucleari!

Anzi, proprio su questo tema l'ipocrisia raggiunge l'assurdo. Si aggiunga a tutto il resto il fatto che Israele ha condotto più guerre di qualsiasi altro stato della regione e quasi sempre le ha scatenate e ha agito come aggressore; non solo nelle guerre formali, ma anche nelle schermaglie di confine, come è accaduto in passato con l'Egitto e il Libano. Se nella regione c'è un regime volubile e incline all'impiego della forza militare, quello è Israele. Per questo il mondo dovrebbe preoccuparsi del suo arsenale di armi di distruzione di massa, tanto più che abbiamo visto che Israele è pronto a usare armi dubbie e forza sproporzionata come nel 2006 in Libano (bombe a grappolo) e oggi a Gaza (fosforo bianco).

Dunque sembra che i media a grande diffusione temano vigliaccamente la tirannica lobby ebraica che domina i mezzi di informazione globali. Censurano tutte le notizie che riflettono le proteste, le condanne e i commenti anti-israeliani espressi da statisti di tutto il mondo. Come possono giustificare questo atteggiamento unilaterale e ostile nella diffusione delle informazioni?

Penso che molti degli stessi fattori che influenzano i comportamenti dei governi europei e americano facciano lo stesso con il ruolo dei media. Ma bisogna anche esaminare la necessità di elaborare una strategia mediatica. Israele e i suoi alleati in tutto il mondo hanno una strategia mediatica chiara, organizzata ed efficiente per promuovere i messaggi e le immagini che vogliono far arrivare all'opinione pubblica. Certo, la parzialità dei media è un dato di fatto, ma sarebbe sbagliato ritenere che la parzialità e il pregiudizio siano l'inizio e la fine di tutto. Dopo tutto, conosco molti giornalisti che seguono il conflitto e che cercano di promuovere diversi punti di vista sui loro giornali e nei loro servizi televisivi. Da parte dei palestinesi non c'è una strategia mediatica efficace, e di certo non esiste una strategia organizzata. Alcuni di questi dettagli molto pratici possono fare una grandissima differenza. Non penso che ciò ovvierebbe del tutto al pregiudizio e alla parzialità dei media, ma potrebbe cominciare a introdurre dei cambiamenti nel sistema complessivo.

Penso anche che l'avvento di nuovi canali, soprattutto Al-Jazeera e Press TV, rappresenti una sfida per i media occidentali, costringendoli a cambiare. Perfino la BBC in lingua araba ha costretto a un certo cambiamento il servizio inglese della BBC, che seppur sottile ha conseguenze importanti.

Infine penso che sia anche piuttosto facile ingigantire l'importanza dei media, visto che nel mondo la posizione palestinese sulla giustizia e sulla necessità di porre fine all'occupazione è condivisa dalla maggioranza nonostante la copertura mediatica. Non è l'opinione mondiale che deve cambiare; sono le azioni del governo.

Dunque quali azioni servono per far sì che Israele rispetti la giustizia? Come possono gli altri paesi impedirgli di perpetrare altre prevedibili atrocità e di ingaggiare pericolose guerre nella regione?

Dev'esserci un'azione inequivocabile della comunità internazionale per costringere Israele a porre fine alla sua aggressione contro Gaza. Questo dovrebbe comportare l'assoluta sospensione delle relazioni diplomatiche (come hanno fatto il Venezuela e la Bolivia); l'imposizione a Israele di un embargo totale delle armi; e l'istituzione di una corte penale sotto il mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la Corte Penale Internazionale per denunciare i crimini di guerra. Potrà sembrare azzardato, ma dobbiamo ricordare che il popolo palestinese, diversamente da qualsiasi altro popolo al mondo, dipende completamente dalla capacità della comunità internazionale di agire in suo soccorso, sia perché è la comunità internazionale a essere responsabile della divisione originaria della Palestina e dell'espulsione dei palestinesi, sia perché i palestinesi non possiedono uno stato, un esercito, né strumenti di autodifesa. L'Assemblea Generale delle Nazioni Unite può anche assumere una posizione drastica, e dovrebbe farlo: questo sarebbe un modo per superare il veto degli Stati Uniti.

E che ne dice di un'inchiesta internazionale sull'uso di armi non convenzionali, sull'uccisione in massa di donne e bambini, sul lungo assedio imposto alla Striscia densamente popolata e sull'assassinio di giornalisti, corrispondenti e rappresentanti della comunità internazionale?

Va istituito un tribunale che giudichi questi crimini commessi a Gaza. Ma in realtà non basta. Bisogna giudicare 60 anni di crimini. Grazie all'impunità di cui ha goduto fin dal 1948, Israele si è abituato a pensare che non ci sono limiti né conseguenze per le sue azioni. I palestinesi hanno fatto le spese di quella «libertà d'agire» per 60 anni. Non basta dire che quello che Israele sta facendo a Gaza oggi è eccessivo. Quello che ha fatto a Deir Yassin, a Tantoura, a Lid, nel campo profughi di Jenin, nelle carceri israeliane e in centinaia di altri luoghi e nel corso degli anni ha superato i limiti del diritto internazionale e dei diritti umani. Naturalmente ben venga la giustizia per i crimini commessi a Gaza, ma dovrebbe essere solo l'inizio.


Originale: l'autore e Palestine Think Tank

Articolo originale pubblicato il 24/1/2009

L’autore

Manuela Vittorelli è membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.

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