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Morte a credito

di Carlo Martello - 27/01/2009

 
Se tornasse in vita Louis Ferdinand Céline (1894-1961), potrebbe spiegarci, meglio di tanti economisti, quello che sta accadendo al capitalismo mondiale. Ai suoi tempi, gli esponenti della scuola neoclassica non previdero il crollo del 1929 e, in piena crisi, continuavano a sostenere la tesi della disoccupazione volontaria, secondo cui i disoccupati erano senza lavoro per colpa loro, perché non volevano accettare i livelli salariali che avrebbero riportato il sistema in equilibrio.

La miseria morale e sociale di quegli anni, la stessa vissuta dai protagonisti di Viaggio al termine della notte (1932) e Morte a credito (1936), ha attraversato due generazioni per colpire, all’inizio del nuovo secolo, milioni di sfruttati, disoccupati, precari, emarginati.

Se vogliamo capirci qualcosa - tre crolli di borsa, recessione, povertà, guerra permanente - è inutile interrogare economisti e politologi. La maggior parte cerca di legittimarsi con esternazioni funzionali agli interessi dell’oligarchia. Solo in pochi riconoscono che la crisi era prevedibile, fermandosi tuttavia alle cause ultime del crollo, senza spiegare le disfunzioni sistemiche che lo hanno reso, non solo prevedibile ma inevitabile. Al nuovo capitolo della grande narrazione sui benefici della globalizzazione, alla vergognosa e servile solidarietà all’esercito sionista, preferiamo le maledizioni di Céline ed invochiamo il suo spirito ribelle affinché ci guidi in un breve viaggio nell’inferno del potere, da una crisi all’altra, dal centro alla periferia del villaggio globale.

Dopo il crollo del 1929 il presidente americano Franklin Delano Roosevelt sostenne che, per uscire dalla crisi, occorreva che il governo agisse come se si trovasse in un’emergenza bellica ed attuò una politica di opere pubbliche, sovvenzioni all’agricoltura, svalutazione monetaria, riorganizzazione del sistema creditizio. Ma nel 1939 il suo new deal era completamente fallito: si contavano 7 milioni di disoccupati e la produzione industriale non aveva ancora raggiunto i livelli anteriori alla crisi. Temendo un nuovo grande crollo, l’oligarchia smise di simulare un’economia di guerra e decise di scatenare una vera guerra. Il sistema industriale avrebbe girato al pieno della sua capacità produttiva per sostenere lo sforzo bellico, anche dei governi alleati, e il mondo avrebbe assorbito capitali e merci americane. Il secondo conflitto mondiale servì a risolvere la crisi strutturale del capitalismo occidentale, col sostegno del comunismo sovietico, suo apparente antagonista. Con la legge affitti e prestiti (1941) l’URSS ottenne dagli USA 7.000 aeroplani, 4.000 carri armati e mezzi anticarro, 1.350.000 tonnellate di acciaio. Alleati a credito.

La fine della grande depressione costò al mondo milioni di morti, ma la sindrome del giovedì nero ha continuato ad affliggere le classi dominanti del mondo capitalista ancora per decenni. Il rimedio più efficace, a complemento delle varie riforme dei mercati finanziari, è rimasto quello della mobilitazione militare permanente: questo è il principale pilastro della stabilità. Si spiegano così la guerra fredda ed il nuovo ruolo di gendarme planetario assunto dagli USA dopo l’implosione dell’URSS. Svanito il pericolo sovietico, ecco apparire sulla scena mondiale nuove minacce - gli Stati canaglia, il terrorismo islamico - utili a giustificare presunte guerre giuste ed ingerenze umanitarie con finalità di riequilibrio economico. Ma anche le minacce non bastano più. Serve ancora una vera guerra.

Non è la prima volta che l’esercito sionista massacra la popolazione civile. Ma stavolta abbiamo un diverso sentore. La solidarietà bipartisan, le giustificazioni fondate sul diritto, le dichiarazioni di testimonial del mondo dello spettacolo, la scarsa mobilitazione delle organizzazioni umanitarie, le armi usate, sembrano legittimare l’aggressione militare, più come azione in sé, come preludio di un conflitto più esteso – leggasi attacco americano all’Iran – nell’ambito di una guerra giusta già dichiarata, quella contro il terrorismo internazionale. La tregua, fatta coincidere col giuramento di Barack Obama e la giornata della memoria, serve al governo israeliano per cominciare ad incassare i soldi per la ricostruzione e l’annuale dose di vittimismo olocaustico in previsione del prossimo massacro del popolo palestinese. Genocidio a credito.

Non bisogna dimenticare che il sionismo non è un prodotto dell’ebraismo, sebbene la propaganda sionista tragga da questa religione la sua mitologia, ma è un aspetto dell’economia globale, che va spiegato in relazione alle strategie dei grandi conglomerati trasnazionali per il controllo delle risorse. Il petrolio non è soltanto una fonte energetica, che alimenta il sistema produttivo dei Paesi industrialmente avanzati con un’incidenza maggiore rispetto ad altri combustibili fossili (carbone, metano) ed alle fonti rinnovabili (energia nucleare, solare, eolica, geotermica, riciclaggio dei rifiuti). Ma è anche una materia prima non energetica per l’industria chimica e per settori altamente pervasivi - come la plastica, le gomme, le fibre sintetiche - i cui prodotti sono destinati, come beni intermedi, ad aziende dei comparti più svariati, oppure entrano, come beni finali, nella vita di milioni di famiglie.

Considerato che in medio oriente sono concentrate il 66% delle riserve mondiali di petrolio, l’obiettivo dichiarato dell’oligarchia è governare una grande area geopolitica, dal Mediterraneo al Golfo Persico, denominata Greater Middle East US-Israel Co-Prosperity Sphere. Affinché Israele continui a servire da base militare al potere sionista, dagli USA affluiscono 3 miliardi di dollari annui come aiuto diretto e cifre esorbitanti erogate a vario titolo - prestiti, interessi su investimenti, sostegni al sistema produttivo - che servono a finanziare guerre e ricostruzioni, il cui ammontare è stimato da James Petras a 87 miliardi di dollari. Terrorismo a credito.

L’esercito sionista non spara mai a caso. Ad esempio, la guerra del 1973, che fece quadruplicare il prezzo del petrolio, servì ad affossare il tentativo di restaurare il gold exchange standard compiuto con gli accordi smithsoniani, a vantaggio della speculazione su valute fluttuanti e petrodollari. L’attacco del dicembre 2008 è servito, tra l’altro, a distogliere l’attenzione dallo scandalo Madoff, evitando il panico e nuovi prevedibili crolli. Bernard Madoff, già presidente del Nasdaq, ha frodato 50 miliardi di dollari negoziando titoli fasulli in forma di hedge funds con importanti banche americane ed europee, tra cui Unicredit, esposta per 75 milioni di euro. Applicando il multilevel marketing, pagava interessi altissimi a pochi investitori, i primi a sottoscrivere un fondo, utilizzando i soldi di coloro che aderivano successivamente attratti dalle prospettive di rendimento, naturalmente fittizie. Frode a credito.

Il trucco usato dal finanziere ebreo Madoff è noto come schema Ponzi, dal nome di un immigrato italiano che lo avrebbe inventato agli inizi del XX secolo. Esso permette, a chi comincia la catena ed ai primi soggetti coinvolti, di ottenere alti introiti a breve, ma richiede sempre nuovi investitori, giacché i guadagni derivano esclusivamente dalle quote pagate e non da attività produttive o finanziarie. A Charles Ponzi l’idea venne quando era consulente del Banco Zarossi di Montreal. Malgrado fosse in gravi difficoltà per alcuni prestiti immobiliari sbagliati, la banca riusciva a pagare il doppio del tasso corrente sui depositi semplicemente utilizzando i soldi dei nuovi correntisti. Sorge un dubbio. Ma tutto il sistema bancario non è forse un gigantesco schema Ponzi? Esso è fondato, oltre che su una merce (la moneta) creata dagli stessi soggetti che ne fissano il prezzo (le banche), anche sulla previsione che i depositanti non ritirano tutti insieme i propri soldi. Se Ponzi e Madoff sono truffatori, ogni operazione bancaria potrebbe essere considerata una frode.

Perché dovremmo fidarci delle banche? Il credito, secondo la legge bancaria del 1936, era una funzione di pubblico interesse. Col Testo Unico del 1993 è diventata un’attività lucrativa come tante, sottratta a qualsiasi controllo politico. Gli apologeti della globalizzazione teorizzano il ridimensionamento del ruolo dello Stato, ma quando il sistema implode, si ricordano di questo vecchio arnese e ne invocano l’intervento, principalmente a sostegno delle banche. Per colmare i buchi della finanza creativa, si usano fondi pubblici, cioè i soldi dei contribuenti, altrimenti destinati a servizi sociali. Così scopriamo periodicamente che la povertà avanza. In Italia, secondo le ultime stime della Caritas, ben 15 milioni di persone vivono con meno di 600 euro al mese. Tutti gli altri, chi più chi meno, sono indebitati attraverso il perverso meccanismo del credito al consumo che consente di comprare a rate qualunque merce o servizio, pagando un interesse usuraio - il cosiddetto TAEG - che oscilla in media dal 17% al 26%. La gente s’indebita prima per soddisfare i bisogni indotti dalla pubblicità e poi per pagare gli interessi sugli stessi debiti. Vita a credito.

Negli USA, negli ultimi 8 anni, l’indebitamento medio delle famiglie è cresciuto del 22%, mentre l’ammontare totale dei prestiti su carta di credito non pagati è aumentato del 15%. Il sogno americano è una cambiale scaduta. Prova a farlo rivivere, il nuovo presidente, mentre presta giuramento. I padri pellegrini, la frontiera, la democrazia esportabile, la società multirazziale. Ripercorre la metamorfosi del mito e lo incarna, tra moglie e suocera, vestite low cost per piacere alle masse di impoveriti che assistono allo spettacolo. Per i mondialisti Barack Obama è l’ultima bandiera, l’ultimo capitolo della grande narrazione sull’american dream e i benefici della globalizzazione. Dopo di lui, il diluvio. L’oligarchia gli ha dato fiducia, non aveva altra scelta, ed egli si preoccupa di compiacere tutti, dai sionisti agli abortisti. Malcom X lo chiamerebbe negro di casa, quello che getta acqua sul fuoco mentre brucia la casa del padrone, invece di alimentare le fiamme. Servo a credito.

Il nostro viaggio è terminato, ma la notte è ancora lunga. Grazie Céline, testimone fedele del nostro inferno, fiero nemico del potere usuraio. Siamo figli della tua rabbia e delle tue ossessioni, ma non riusciamo a restare lucidi. Forse perché facciamo finta di vivere, tra disoccupazione e precariato, orgogliosamente in bilico sulla nostra soglia di povertà. Forse perché ci sentiamo peccatori, perennemente imputati di qualcosa, e speriamo di cavarcela almeno il giorno del giudizio universale, che in fondo è un processo come tanti altri, salvo l’indiscutibile autorità del giudice. O forse perché, nella nostra fragilità, siamo talmente figli del nostro tempo da desiderare noi stessi una rivoluzione a credito, un sogno a rate, facile da ottenere, che ci venga erogato ad ogni talk show ed election day, con l’illusione di non pagare interessi.