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Le nuove prospettive di Obama

di Umberto Bianchi - 27/01/2009

 

 
Le nuove prospettive di Obama



C’è da dire che la cerimonia per l’insediamento del neonominato presidente Obama ha avuto del grandioso. La gente accorsa in quantità esorbitante, le sfilate, i concerti e poi il toccante discorso del neoeletto hanno sicuramente toccato le corde di quell’ “America profonda”, imbevuta di attendismo messianico, volontarismo, patriottismo in salsa multirazziale. Certo Obama è uomo giovane e telegenico, dotato di quella dose di carisma in grado di portare al cuore di un elettorato insoddisfatto ed intimorito, un messaggio di speranza basato sulla possibilità di realizzare un’ “altra America”. Certo, Obama è tornato ad evocare l’intervento pubblico nell’economia, l’assistenza sociale, l’attenzione alle tematiche ambientaliste, il dialogo a tutto campo, tutti argomenti che sembrava che la retorica reaganiana avesse relegato nelle soffitte della storia.
Tutti argomenti sicuramente suggestivi, ma sui quali pesano come macigni alcune considerazioni. Abbiamo già affrontato in un precedente articolo quelle che hanno sinora rappresentato le negative peculiarità della politica estera delle varie amministrazioni democratiche del passato, buoniste a parole, ma nei fatti molto più destabilizzanti di quelle repubblicane. La novità odierna, sta nel particolare scenario geoeconomico venutosi a determinare in questi ultimi anni, e che nella recente crisi economico-finanziaria globale ha trovato il proprio coronamento.
In virtù del processo di globalizzazione di cui gli Usa sono sempre stati paladini ed alfieri, si è iniziato con il delocalizzare le attività produttive in direzione di realtà come la Cina o il Sud est asiatico, ove la manodopera costa molto meno. Non solo. Per stimolare i consumi interni, si è incentivata la circolazione sui mercati di quei prodotti finanziari “strutturati”, tra cui in primis i fondi subprime, veri e propri titoli spazzatura in grado di far accedere all’acquisto di un immobile anche chi non ne aveva le possibilità.
Era chiaro che tutto questo giochetto non poteva durare e che la crisi sarebbe prima o poi esplosa con veemenza, mettendo a seria prova non solo la tenuta di banche e similari istituzioni finanziarie, ma anche la stessa economia reale, produttiva.
A monte di tutta questa situazione sta il paradosso che, al di là delle belle parole e dei proclami di onnipotenza, per incentivare il proprio consumo interno, e quindi il proprio circuito economico nazionale, gli Usa debbono sempre più far ricorso alle esportazioni di paesi come Germania, Cina e Giappone ed al massiccio acquisto da parte di questi ultimi, dei titoli del proprio debito pubblico. In tal modo, gli Usa rifinanziano il proprio debito interno con le importazioni, entrando in una pericolosa spirale di dipendenza.
Questo, perchè la crisi inizialmente relegata al comparto finanziario di un paese, sempre più abituato a vivere al di sopra delle proprie possibilità, è andata estendendosi al mondo intero colpendo non solo i mercati finanziari
dei vari paesi, ma anche e specialmente le economie reali, provocando una profonda recessione, estesa a macchia d’olio. Paesi come Germania, Giappone e Cina, per superare tale fase dovranno quindi incentivare i propri (relativamente!) scarsi consumi interni, dirottando le proprie risorse economiche in tale direzione, piuttosto che verso le esportazioni o ancor più attrraverso l’acquisto dei titoli del debito pubblico Usa.
La Germania in particolare non potrà finanziare il debito Usa, poiché già intenta a finanziare il deficit di paesi comunitari come Spagna, Grecia, Portogallo (e Gran Bretagna). La Cina, se vorrà uscire dalla propria fase recessiva, deve promuovere i propri consumi interni attraverso un gigantesco ricorso alle proprie risorse pubbliche, tagliando agli Usa una grossa fetta di finanziamenti. Paesi come il Giappone, debbono provvedere a risanare una situazione le cui radici risalgono alla vertiginosa crescita degli anni passati, la mentre altri come la Russia invece non finanziano massicciamente il debitio Usa per motivi politici.
Uno dei più evidenti paradossi della globalizzazione sta nel fatto che, molte nazioni, oltre a dover incentivare i propri consumi interni, debbono sostenere per forza le proprie industrie spingendone giuocoforza le esportazioni. Per molte industrie europee gli Usa rappresentano il più vasto e recettivo mercato a disposizione sullo scenario mondiale. Ecco allora che, per crescere, molte industrie europee si troveranno nuovamente a sostenere e finanziare la crescita interna Usa.
E’ scandaloso che per tirarsi su, la maggior parte delle economie debba finanziare proprio coloro che, dell’attuale dissesto sono la causa prima. Obama ha evocato il dispendioso ricorso alle risorse pubbliche per rilanciare l’economia, quasi fosse dimentico dei perversi meccanismi di interdipendenza innestati dalla globalizzazione economica che finiscono sempre con il presentare il conto, come abbiamo or ora dimostrato. Non crediamo che gli eventuali provvedimenti volti a ricondurre il mercato ad un ambito più regolamentato non possa cambiarne granché l’essenza, vista anche la dipendenza degli Usa dalle decisioni dei grandi cartelli finanziari.
Rimane un fatto: al di là delle chiacchiere, dei proclami o degli slogan edulcorati, gli Stati Uniti, come già fatto notare da Toni Negri e da altri, rappresentano la sintesi vivente di quella costruzione statuale perfetta, frutto delle aspirazioni del Machiavelli.
La sintesi dei tre poteri del principe, del popolo e delle elites sono qui rappresentate da uno stato forte, incarnato dal principe-presidente quale sommo punto di convergenza delle aspirazioni mercantilistiche che ne animano il nucleo costitutivo in un anodino contesto multirazziale e multireligioso.
Certo il nuovo Imperatore Usa è personaggio accattivante, dotato di charme e di indubbio carisma ma, con tutto il rispetto dovuto, riteniamo che il modello che egli, sicuramente in buona fede, rappresenta, non ci appartenga né abbia nulla a che fare con la nostra idea del mondo.