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L’Afghanistan di Obama

di Alessandro Iacobellis - 28/01/2009


 

Joseph Biden, il nuovo Vice Presidente degli Stati Uniti, è considerato un politico di lungo corso e di grande esperienza a Washington. Le malelingue sostengono anzi che Barack Obama lo abbia scelto per la sua competenza in politica estera, campo in cui il neo-presidente non sarebbe particolarmente ferrato.
Ebbene, lo scorso 25 gennaio, in un’intervista esclusiva concessa alla CBS da Wilmington, in Delaware, Biden ha messo per un attimo da parte il protocollo e si è lasciato andare alla seguente dichiarazione: “In Afghanistan ereditiamo un vero e proprio casino”. Proprio così, la parola testuale è “mess”, “casino”.
Insomma, la presidenza Obama si è appena insediata ed ecco che i nodi cominciano a venire al pettine. Subito dopo l’economia e il disastro che si sta consumando in mezzo mondo, arrivati ad un punto in cui il neo-liberismo sembra avere esaurito ogni palliativo possibile per curare il moribondo mercato globale e statunitense in particolare, il dossier-Afghanistan si preannuncia come uno dei più grossi assilli per il nuovo Commander-in-chief.
Nell’opinione pubblica di tutto il mondo, USA compresi, l’eredità di Bush resterà da questo punto di vista indissolubilmente legata ad un altro conflitto, quello in Iraq, che, per le sue dinamiche, la sua origine e la sua violenza ha colpito le coscienze di tutti quanti. Il flop irakeno, uno dei motivi principali del disastro elettorale repubblicano, rischia però di essere uno specchietto per le allodole per Obama. Già durante la fase finale del mandato di Bush, infatti, l’exit-strategy dal Paese arabo era stata delineata, con la stipula del SOFA (Status of Forces Agreement) col governo di Al Maliki. La data di uscita delle truppe statunitensi è già segnata sui calendari entro il 2011, con il progressivo ritiro all’interno delle basi, lasciando all’esercito irakeno la gestione della sicurezza.
Del resto, che in Iraq il vento fosse cambiato lo si era già capito durante il 2008. Ma non per una presunta vittoria militare nordamericana; la pubblicizzatissima tattica adottata dal generale David Petraeus, col cosiddetto “surge” (aumento) di truppe del 2007, non aveva infatti risolto (almeno inizialmente) la situazione di stallo nel confronto sul campo con gli insorti. La vera svolta, che ha portato ad una incontestabile riduzione delle violenze e dei caduti statunitensi, è stata politica. E’ stata cioè il riconoscimento dell’impossibilità di venire a capo militarmente della guerra, arrivando così ad accordi con le formazioni di ribelli legate all’ex partito Baath ma anche con gruppi di matrice islamica, purchè non legati ad Al Qaeda. Insomma, praticamente il 95% della guerriglia!
A ciò si è aggiunto un avvicinamento alle tribù, considerate a ragione il legame sociale e comunitario fondamentale per potere ristabilire un po’ di ordine, soprattutto nella turbolenta provincia di Al Anbar (quella di Ramadi, Falluja, Haditha, Qaim e altre città che fino al 2007 erano un vero e proprio inferno per i marines statunitensi).
Una volta cooptati anche questi ultimi all’interno delle istituzioni irakene a suon di dollari, ecco che il gioco era fatto, o quasi; questo è dunque il quadro dell’Iraq semi-pacificato di questi ultimi mesi.
Quel che doveva essere fatto in Iraq è già stato fatto, al massimo l’unica cosa che resta ad Obama è di accelerare il ritiro (si parla di 2010 anziché 2011).
Ma l’Afghanistan? Lì è il vero problema per l’ex senatore dell’Illinois, il Paese dove la guerra va avanti dal 2001 e i Talebani, anziché essere sconfitti, hanno via via guadagnato terreno, tanto da controllare secondo alcune stime più del 70% del Paese. La prima risposta, già annunciata, sarà il raddoppio delle truppe, che passeranno dalle attuali trentamila a oltre sessantamila. Le zone in cui si stabilirebbero i nuovi contingenti, molti dei quali direttamente provenienti dall’Iraq, potrebbero essere le province intorno alla capitale Kabul (in particolare Kapisa, Laghman e Wardak) su cui da mesi ormai è in continuo aumento la pressione dei ribelli. Successivamente, dopo aver messo in sicurezza l’ultimo ridotto del traballante Karzai, le restanti truppe verrebbero spalmate nell’instabile sud e nell’est del Paese: Kandahar, Paktia, Paktika, Nangarhar, Helmand (in aiuto ai Britannici lì stanziati), Zabul e Khost.
La domanda è: funzionerà? I segnali in questo senso non sono certo rassicuranti per Obama: gli alleati europei della NATO non sembrano disposti ad aumentare numericamente i loro contingenti, nonostante i continui appelli in questo senso. Anzi, è di pochi giorni fa una notizia molto importante: il primo ministro olandese Balkenende ha confermato il ritiro entro il 2010 dei suoi soldati. Soldati che sono, insieme a Statunitensi, Britannici e Canadesi, uno dei pochi contingenti a svolgere azioni di guerra attiva e non di semplice peace-keeping, e che lascerebbero scoperta la loro zona di competenza (provincia di Oruzgan, nel sud).
A ciò si aggiungano anche i dissapori con cui l’amministrazione Bush si è lasciata sia col governo locale sia col vicino Pakistan, alleato storico ma declinato negli ultimi tempi verso una spirale di pericolosissima destabilizzazione interna.
Karzai, infatti, sta cercando di accreditarsi come difensore del suo popolo e non come uomo della Casa Bianca: ad ogni raid aereo con vittime fra la popolazione civile le sue proteste nei confronti dei vertici militari atlantici si fanno (almeno all’apparenza) sempre più forti, arrivando a richieste di minore autonomia delle forze straniere sul suo territorio e maggiore cooperazione con l’esercito locale.
Poi, il Pakistan: il potente vicino che contribuì a creare il movimento Talebano in funzione anti-sovietica e che ora si ritrova a combatterli in casa propria, nelle regioni di etnia pashtun al confine con l’Afghanistan, dove il governo centrale di Islamabad ha sempre avuto un’influenza piuttosto labile. Ora quelle terre di nessuno (il Waziristan del Nord e del Sud, la Valle dello Swat, la Provincia del Nord-Ovest) fungono da retrovia per i ribelli, che hanno creato santuari autonomi da cui attraversare il confine (che esiste di fatto solo sulla cartina) e attaccare le forze NATO. Islamabad ha pensato di metterci una pezza, inviando l’esercito per ristabilire l’ordine, subendo però pesanti perdite. Gli Stati Uniti, dal canto loro, come sempre poco rispettosi della sovranità altrui, non esitano a bombardare con droni senza pilota quello che in teoria dovrebbe essere territorio pakistano. Anche in questo caso sono di prammatica le reazioni indignate del governo pakistano (il presidente Zardari, vedovo di Benazir Bhutto, e il premier Gilani), ma non si sa quanto sincere: difficile pensare infatti che la campagna aerea degli Statunitensi non abbia mai avuto un placet da Islamabad.
Il problema però è che i bombardamenti sembrano avere solo l’effetto di rivoltare ancora di più i pashtun di frontiera contro il proprio governo, e di aumentare il risentimento anti-americano. Difficile pensare cosa potrà fare Obama, se cercare di favorire la pacificazione interna con le tribù dell’area o addirittura (come suggerito da alcuni “falchi”) passare a incursioni terrestri mirate, di ristrette unità di forze speciali in cerca dei comandanti talebani e dei fantomatici capi di Al Qaeda che proprio lì si nasconderebbero (in particolare Zawahiri e ovviamente l’immancabile Fantomas dei terroristi, Bin Laden). Ma un’opzione simile rischierebbe di fare implodere il Pakistan, sprofondando l’intera regione nel caos (e le conseguenze potrebbero anche farsi sentire altrove, ad esempio in India, dove si sono avute inquietanti avvisaglie con gli attentati di Mumbai).
Molto più auspicabile sarebbe la soluzione all’irakena, con Petraeus che punterebbe anche in Afghanistan sul dialogo con le tribù e sull’inclusione dei ribelli nel processo politico. Lo stesso Karzai, del resto, ha più volte lanciato messaggi distensivi al mullah Omar (prontamente rigettati da quest’ultimo) e all’ala talebana più disposta alla riconciliazione. Tanto che pare che già nei mesi scorsi si siano tenuti a La Mecca colloqui di medio livello tra un fratello di Karzai (Qayum) ed esponenti talebani, con l’intermediazione del re saudita Abdallah e la presenza di rappresentanti pakistani.
Il dilemma a questo punto resta: si tenterà la soluzione politica o la parola resterà alle armi, rischiando di trascinare l’Afghanistan e tutta la regione circostante in un buco nero di instabilità permanente?
Vedremo. Per adesso, ha ragione Biden: E’ proprio un gran casino.