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In che misura siamo responsabili delle aspettative altrui verso noi stessi?

di Francesco Lamendola - 28/01/2009

 


Nel precedente articolo «Sovente, quando gli altri ci deludono, quel che ci brucia è la delusione di noi stessi» (consultabile sul sito di Arianna Editrice), eravamo giunti alla conclusione - provvisoria  - che è importante essere consapevoli degli strani, tortuosi meccanismi affettivi per i quali ciascuno di noi tende a investire il prossimo, in varia misura, di aspettative più o meno vaste, più o meno definite, più o meno irragionevoli. E ciò non solo per farsi una ragione di tante apparenti stranezze del comportamento umano, ma anche per imparare una virtù sempre più rara al giorno d'oggi: quella della compassione.
Compassione verso gli altri, ma anche verso noi stessi.
Dobbiamo imparare a perdonarci i nostri errori, le nostre debolezze, le nostre incoerenze; non per cullarci in esse, ma - al contrario - per trovare la forza di andare oltre e ricominciare da capo, dopo ogni caduta.
Ciascuno di noi, come abbiamo sostenuto in un precedente scritto, è una creatura ferita e, in quanto tale, meritevole di compassione e di perdono (cfr. F. Lamendola, «Siamo tutti feriti nell'anima e tutti meritevoli di compassione e di perdono», sempre sul sito di Arianna).
Pertanto, avevamo affermato che, se vogliamo imparare a perdonare e a compatire il nostro prossimo, è necessario che incominciamo a farlo proprio partendo da noi stessi; riconoscendoci, cioè, indigenti, vulnerati, delusi e bisognosi di volerci un po' più bene di quanto in genere ce ne vogliamo (non si confondano il narcisismo, oggi dilagante, e lo stesso edonismo materialistico, con  una forma del volersi bene: tutt'altro).
Quel che vogliamo fare adesso è svolgere una riflessione su un aspetto non secondario di quanto siamo venuti argomentando fin qui, e cioè il tipo di relazione che si instaura, sovente nostro malgrado, fra noi e gli altri, a motivo delle aspettative reciproche - non di rado inespresse, e tuttavia imperiose - che la vita tesse fra noi.
Non intendiamo qui parlare dell'aspettativa come fenomeno generale, che, in quanto tale, è condizionata da fattori storici e culturali e di cui, nel contesto della società odierna, ci siamo già occupati, mettendone in luce il carattere spesso aberrante e, comunque, teoricamente illimitato, che il meccanismo consumistico alimenta senza posa (cfr. F. Lamendola, «Liberarci dall'aspettativa, figlia malata dell'idea di progresso», sempre sul sito di Arianna).
No: intendiamo porre mente su quell'altra aspettativa, quella per così dire privata e individuale, che si genera, soprattutto in campo affettivo, in conseguenza dei nostri frequenti rapporti con altre persone, delle quali però, in effetti, poco o nulla sappiamo, che sfioriamo incessantemente e dalle quali veniamo sfiorati, senza che riusciamo a stabilire un rapporto più approfondito con esse, per un insieme di ragioni che vanno dalla fretta dominante nei ritmi esistenziali odierni, alla paura di mostrarci come siamo realmente, fino alla superficialità e all'utilitarismo cui tendenzialmente siamo inclini un po' tutti, chi più e chi meno.
Ma, innanzitutto: è giusto che noi ci sentiamo responsabilizzati dalle aspettative altrui su di noi, dato che esse si sono originate senza il nostro assenso e anzi, magari, al di fuori della nostra stessa consapevolezza?
È una questione preliminare decisiva perché, qualora dovessimo decidere per la nostra completa irresponsabilità, tutto il discorso potrebbe anche fermarsi qui e noi potremmo, al massimo, compassionare le «vittime» di tali irragionevoli aspettative (salvo spazientirci quando esse vengono a premere su di noi in maniera insostenibile).
Proviamo, dunque, a domandarci: «Sono forse responsabile di quello che fa mio fratello? Sono forse responsabile dei suoi pensieri su di me? Delle aspettative che si generano in qualche zona oscura della sua anima, e delle quali è egli stesso a malapena consapevole?».
I casi sono due.
Può darsi che noi gli abbiamo inviato effettivamente dei messaggi tali da ingenerare in lui qualche aspettativa o, quanto meno, tali da risultare ambigui. È il caso - per fare un esempio molto semplice  e anche un po’ superficiale - di un certo modo di vestire (o di svestire), di muoversi, di guardare, che, se da un lato soddisfa la nostra infantile vanità e il nostro narcisistico bisogno di essere ammirati e desiderati, dall’altro non può non produrre effetti che vanno molto oltre le nostre intenzioni, suscitando aspettative e ingenerando la sensazione di una nostra disponibilità a chissà quali sottintesi, anche di natura sessuale.
In questi casi, non si può dire in alcun modo che l’aspettativa da noi generata - per non dire provocata - nel nostro fratello, sia cosa che non ci riguarda affatto; sarebbe troppo comodo. Non è lecito tirare il sasso e nascondere poi la mano, affermando ipocritamente di non essere responsabili degli effetti che la pietra da noi lanciata può aver prodotto.
Ma c’è pure un altro caso, quello di una aspettativa di cui noi possiamo essere l’oggetto, pur senza aver fatto proprio niente - almeno a livello consapevole - che la possa razionalmente giustificare. Questo è il caso di un figlio sul quale i genitori abbiano costruito delle enormi aspettative di successo professionale; ad esempio, di un bambino che suo padre, sportivo di successo, vuol vedere affermato nella sua stessa specialità, imponendogli duri sacrifici e privandolo, in qualche misura, del suo stesso diritto a godere serenamente la propria infanzia.
Oppure pensiamo a un bambino che sua madre, famosa pianista o famosa cantante lirica, vuol vedere seguire le sue stesse orme; o, peggio ancora, di una madre che da giovane abbia dovuto rinunciare al proprio sogno di carriera artistica, e che desideri ora vederlo realizzato per mezzo di suo figlio.
Può accadere perfino che la povera creatura sia stata caricata di enormi aspettative da parte dei genitori, prima ancora di essere nata e prima ancora di essere stata concepita, come accadde alla piccola Gertrude nel racconto manzoniano relativo alla monaca di Monza.
È certo che quello sfortunato bambino non ha alcuna «colpa» delle aspettative aberranti dei propri genitori; così come noi non abbiamo alcuna responsabilità delle attenzioni e dei desideri che potremmo suscitare in altri, senza aver fatto assolutamente nulla per accenderle di passione nei nostri confronti.
E tuttavia - questo è il punto - perfino in quel caso ci sembra che sia troppo poco chiudere la questione, affermando che il problema di un tal genere di aspettative non ci tocca per niente: perché, se è vero - come noi fermamente crediamo - che l’armonia dell’insieme può scaturire solo dall’armonia delle singole parti, allora è evidente che ogni problema chiede una soluzione o almeno uno sforzo per giungere ad essa; e che tale sforzo non può essere fatto, se non mediante una assunzione di responsabilità collettiva da parte di ciascuno.
Non vogliamo dire, con questo, che a noi competa rendere conto di tutto quello che passa per il cuore e per la mente di ciascuno dei nostri simili che possiamo avere incrociato, magari casualmente e fuggevolmente, nel cammino della nostra vita: certo sarebbe una pretesa assurda e insostenibile.
Vogliamo dire, molto più semplicemente (e lasciando perdere il caso di un nascituro o di un bambino, ma limitandoci a quello delle persone adulte) che, se pure noi non abbiamo lanciato deliberatamente alcun sasso, potremmo tuttavia mostrare compassione per coloro i quali sono stati colpiti dal sasso che le ruote della nostra automobile, in maniera del tutto imponderabile e accidentale, hanno scagliato contro il nostro prossimo.
Nessuno dice che noi portiamo una qualche responsabilità se quel sasso, per caso, lo ha ferito; ma soltanto che potremmo, forse, mostrare un certo grado di disponibilità ad alleviarne il dolore, almeno per quanto sta in noi e nella misura del possibile.
È un discorso estremamente delicato e, per certi aspetti, contestabile: ce ne rendiamo perfettamente conto. 
Non ne facciamo in alcun caso un fatto di dovere morale. Non è un dovere morale assumere un punto di vista compassionevole verso coloro i quali si sono sentiti coinvolti, in qualche modo, dal nostri esserci; è, semmai, un segno di maturità spirituale e di gratuita disponibilità alla benevolenza e all'amore di carità: quello totalmente disinteressato, quello che nulla chiede e nulla si aspetta di ricevere in cambio.
Sorge, peraltro, una grossa difficoltà, qualora si voglia cercar di definire la portata di questo nostro eventuale impegno: fino a che punto, cioè, sia ragionevole, fino a che punto sia umano che noi ci sentiamo interpellati dagli effetti che  la nostra presenza, le nostre parole, i nostri gesti, possono aver prodotto negli altri, dalle aspettative che possono aver creato.
Non esiste una regola in base alla quale sia possibile rispondere ad un tale quesito. Ciò risulta evidente: non esiste, infatti, un limite ben preciso all'amore di carità. Esso va fin dove si sente di arrivare, abbraccia quell'ambito che è in grado abbracciare.
Una cosa è certa: l'influsso che noi esercitiamo sugli altri - nel bene come nel male - è infinitamente più grande di quel che comunemente si pensa e si è disposti ad ammettere. Specialmente coloro che hanno responsabilità educative - genitori in primo luogo, poi insegnanti, sacerdoti, ecc.; e, inoltre, tutti coloro che hanno a che fare con la comunicazione - giornalisti, scrittori, cantanti, personaggi dello spettacolo - dovrebbero tenerlo sempre a mente.
Noi abbiamo una grande responsabilità verso gli altri. Non vi è parola che esce dalla nostra bocca, che qualcuno non possa prendere terribilmente sul serio, magari a nostra insaputa, magari a distanza di giorni, mesi e anni da quando l'abbiamo pronunciata. Non vi è gesto, non vi è sguardo, non vi è silenzio, perfino, che non possano produrre una risonanza enorme in coloro che ci guardano, ci ascoltano, ci prendono sul serio, forse anche più di quel che vorremmo.
Non è lecito sottovalutare l'importanza che il nostro modo di agire può esercitare sul prossimo: nessuna nostra parola, nessun gesto sono mai neutrali. Che ci piaccia o no, siamo coinvolti nel gran mare dell'umanità e legati a tutti gli altri da mille fili, talvolta evidenti, altre volte invisibili. Grazie alla radio, alla televisione, al telefono, alla rete informatica, ogni nostra parola può giungere all'altro capo del mondo in tempo reale, e produrre effetti di portata incalcolabile.
Non parliamo, poi, della responsabilità che si assumono un uomo e una donna allorché decidono di avere un figlio: responsabilità che non finirà mai, sinché essi avranno vita; di ciò è necessario che i futuri genitori siano ben consapevoli. Nemmeno quando i figli saranno grandi, essi potranno chiamarsi fuori dalla propria responsabilità di genitori. La legge dice il contrario: per essa, raggiunta la maggiore età, ciascun individuo è il solo responsabile delle proprie azioni; ma, dal punto di vista morale, noi la pensiamo altrimenti.
Certo, un figlio diventato grande può anche imboccare una cattiva strada; può diventare uno sbandato, uno di quelli che picchiano i genitori per procurarsi i soldi con cui comprarsi la droga: nessuno può saperlo in anticipo. Quello che è certo, è che un vero genitore si sentirà sempre legato a suo figlio, nel bene come nel male: ne condividerà le soddisfazioni e le gioie, ma anche le amarezze e i dolori. I figli non sono pupazzi di peluche dei quali, a un certo punto, ci si possa disinteressare, come fanno i bambini con i propri giocattoli.
Ebbene, la responsabilità di sentirci impegnati per la vita, noi dovremmo provarla - in una certa misura - per tutti gli esseri umani. Il dramma dei bambini di Gaza, ad esempio, dovremmo sentirlo un po' come se fosse il dramma dei nostri stessi bambini.
Sappiamo bene che la mentalità attuale va nella direzione opposta e che insegna che ognuno deve badare soltanto a se stesso e lavarsi le mani di tutto il resto.
D'altra parte, ogni giorno possiamo vedere quali devastanti effetti produca una tale mentalità, un tale supremo egoismo eretto a sistema.
Ma davvero vogliamo continuare così?
Davvero vogliamo continuare a vivere come belve feroci che si aggirano in una foresta selvaggia, le zanne e gli artigli insanguinati, in attesa di sbranare o di essere sbranati da qualcuno più forte o più astuto di noi?
È proprio questo il mondo in cui vogliamo vivere, in cui vogliamo che crescano i nostri figli?