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Quando la crisi colpisce le fortezze del denaro

di Federico Rampini - 28/01/2009

 
 
La riforma adottata negli anni Trenta fu una nuova legislazione bancaria per impedire gli eccessi che avevano portato al ‘29

"Gangster. Nemici della democrazia". Sono le definizioni dei banchieri date ieri da Franz Muentefering, presidente dell´Spd tedesco, il secondo maggiore partito di governo in Germania. La sua frustrazione è comprensibile. Dall´inizio di questa crisi il governo di Berlino ha messo in campo una rete di protezione di 500 miliardi di euro di aiuti potenziali per proteggere le sue banche; più una partecipazione azionaria del 25 per cento per salvare da un crac la Commerzbank. Eppure ancora oggi il sistema bancario tedesco – un tempo ammirato nel mondo per la sua granitica solidità – assomiglia a un campo minato. Secondo la Bundesbank le 18 più grosse banche tedesche hanno tuttora più di 300 miliardi di euro di titoli tossici, invendibili sui mercati; solo il 23 per cento sono stati riconosciuti come tali e quindi cancellati dai rispettivi bilanci. Da qui il senso d´impotenza che regna a Berlino: nonostante gli sforzi dello Stato, la fiducia è ben lungi dall´essere ritornata nel sistema creditizio. Il mondo intero è nella stessa situazione. Causa primaria della crisi che viviamo, le banche ne rimangono tuttora l´epicentro.

In fatto di comportamenti anti-sociali e criminali, le parole del leader tedesco descrivono senza esagerazione i banchieri americani. Mesi dopo che le loro carriere sono finite nel disastro, l´arroganza di molti resta stupefacente. L´ultima l´ha combinata Richard Fuld, l´ex chief executive che ha guidato la Lehman Brothers fino alla bancarotta di settembre. Fuld ha appena venduto alla moglie per l´obolo simbolico di dieci dollari la sontuosa villa che aveva comprato a Jupiter Island (Florida) per 13 milioni di dollari: è un tentativo plateale di aggirare le leggi sulla bancarotta e sottrarre il proprio patrimonio ai liquidatori.

La frustrazione del governo tedesco è poca cosa in confronto a quella che si respira alla Casa Bianca e al Congresso di Washington. Da ottobre le 13 maggiori banche americane hanno già ricevuto 148 miliardi di dollari di aiuti cash dal contribuente, solo come ricapitalizzazioni da parte dello Stato, senza contare le garanzie assicurative accollate al bilancio pubblico per future perdite (altre centinaia di miliardi). Nonostante questo fra il terzo e il quarto trimestre del 2008 i finanziamenti erogati dalle banche sono scesi di ben 46 miliardi di dollari. Le banche hanno sequestrato gli aiuti senza che il paese – imprese e consumatori – ne ricevesse il minimo sollievo.

L´esasperazione di fronte allo "sciopero dei banchieri" è accentuata dalla disparità di trattamento rispetto ad altri settori dell´economia. Tutti soffrono la recessione ma nessuno potrà mai sperare di avere una frazione degli aiuti pubblici concessi alle banche. Industria automobilistica o elettronica, turismo o grande distribuzione, l´elenco dei settori colpiti dalla crisi non risparmia quasi nessuno. Solo per le banche i governi sono scesi in campo all´unisono, con rapidità, e senza badare a spese. Questo vale senza eccezioni, dagli Stati Uniti all´Inghilterra, dal Belgio all´Irlanda. Con quello che ogni contribuente americano o europeo ha già pagato per Citigroup, Northern Rock o Fortis, gli operai dell´automobile starebbero sereni fino alla pensione.

Per quanto sia ingiusto bisogna arrendersi all´evidenza: le banche sono diverse. La loro centralità per l´economia le rende uniche, insostituibili. Basta pensare al loro ruolo nel sistema dei pagamenti. Quanti di noi ancora ricevono lo stipendio in contanti a fine mese dal datore di lavoro? È significativo il caos in cui è precipitata la piccola Islanda: dà la misura delle conseguenze che può avere l´insolvibilità bancaria – anche momentanea – in un paese sviluppato. È così da molto tempo ormai. Non a caso le banche sono sempre state l´oggetto di un´attenzione speciale e di una legislazione su misura da parte degli Stati moderni. La più immediata riforma adottata negli anni Trenta, in paesi così diversi come l´America di Roosevelt e l´Italia di Mussolini, fu una nuova legislazione bancaria per impedire gli eccessi che avevano portato al 1929.

La lezione degli anni Trenta però fu via via dimenticata e cancellata, a ondate successive, con una serie di cambiamenti che hanno ridisegnato il ruolo delle banche. Si è persa per strada l´idea che le banche, in contropartita di una protezione superiore, dovessero essere molto più regolate di altri settori. Negli anni Settanta la congiunzione fra l´avvento dei computer e l´egemonia neoliberista della "scuola di Chicago" (Milton Friedman) portò al primo boom della finanza derivata, ai futures, alle liberalizzazioni dei movimenti di capitali. E la storia dell´ultima fase della globalizzazione è stata segnata da uno smisurato aumento d´importanza del settore finanziario, insieme con l´ipertrofìa dell´indebitamento. Nella escalation del laissez-faire le tappe finali verso il disastro sono state lucidamente descritte dall´ex vicepresidente della Federal Reserve, Alan Blinder. «Nel 1998 quando la commissione di vigilanza sui futures delle materie prime cercò di estendere i suoi controlli anche sui derivati, l´idea fu bocciata dalle due authority più potenti, la Federal Reserve e la Sec. Nel 2004 la stessa Sec, l´organo di vigilanza sulla Borsa, autorizzò un forte aumento dell´effetto-leva (leggi: indebitamento) per le banche d´investimento. Da un rapporto 12 a 1 si passò a una media di 33 a 1: con questi livelli di debiti basta il 3 per cento di declino nel valore degli attivi per cancellare tutto il capitale di una banca. E negli ultimi anni il mercato dei mutui subprime, che era sempre stato una frangia marginale e modesta, è stato lasciato crescere fino a diventare una componente grossa e pericolosa». Per finire Blinder definisce «disordinato, contraddittorio e incoerente» l´uso del fondo Tarp per i salvataggi bancari: non ha risolto il vero problema di fondo, che rimane l´immenso buco nero di titoli tossici dentro i bilanci delle banche.

Questa situazione apre la strada a scenari estremi. «Non avremmo mai pensato – dice la presidente della Camera Nancy Pelosi – di dover usare questo termine in America: nazionalizzazione delle banche». Per effetto degli aiuti recenti già ora lo Stato è il primo azionista di Citigroup con il 7,8 per cento del capitale e di Bank of America con il 6 (molto di più se si includono le garanzie sui titoli tossici). Eppure la voce del contribuente resta irrilevante nel management del credito. Questa semi-nazionalizzazione senza contropartite è una soluzione pericolosa. Ricorda da vicino gli errori compiuti dal Giappone negli anni Novanta, il "decennio perduto" di depressione economica per l´economia nipponica dopo lo scoppio della sua bolla immobiliare e finanziaria.

Sette giorni dopo l´insediamento di Barack Obama cominciano a giungere segnali di un ripensamento più drastico. Come il 1929 anche questa crisi può portare a una grande riforma del sistema bancario. Tra le nuove regole ci sarebbero controlli più stringenti per i derivati, i credit default swaps, gli hedge fund; nonché sui conflitti d´interessi delle agenzie di rating. Una radicale re-regulation dei mutui. Forse perfino una "ingerenza" del legislatore sulle retribuzioni dei manager, un tema finora tabù nell´America del libero mercato. In tal caso le ripercussioni potrebbero riguardare non solo l´economia ma anche le gerarchie di valori nella società in cui viviamo. Per qualche decennio una parte dei giovani talenti più brillanti furono attirati dai mestieri della finanza, perché il sistema degli incentivi era squilibrato a favore di quel mondo. In futuro forse avremo meno trader e più cervelli impegnati nella battaglia contro la malaria o il cambiamento climatico? Il tracollo delle banche avrebbe almeno un effetto collaterale positivo.