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Compassionevoli entro i limiti del possibile, responsabili ed autonomi sempre

di Francesco Lamendola - 29/01/2009

 


Nel precedente articolo «In che misura siamo responsabili delle aspettative altrui verso noi stessi» (sempre sul sito di Arianna Editrice), abbiamo sostenuto che, anche nei casi nei quali non abbiamo fatto nulla per coinvolgere deliberatamente il prossimo nella nostra vita, dobbiamo però essere consapevoli dell'influenza che possiamo esercitare e degli effetti che essa può produrre, perché sia il nostro agire che il nostro non-agire, la nostra presenza e la nostra stessa assenza, non sono mai «neutri» e privi di ricadute sugli altri.
Eravamo giunti così alla conclusione che, sebbene nessuno abbia dei doveri (nel senso proprio del termine) verso coloro i quali siano coinvolti dal nostro esserci in maniera del tutto involontaria, tuttavia assumere un punto di vista compassionevole verso di essi è un segno di maturità spirituale e di gratuita disponibilità alla benevolenza e all'amore di carità, quello totalmente disinteressato, quello che nulla chiede e nulla si aspetta di ricevere in cambio.
La compassione, a sua volta, scaturisce - o dovrebbe scaturire - non tanto da uno stato emotivo e istintivo, quanto dalla serena e distaccata consapevolezza che l’armonia dell’insieme può nascere solo dall’armonia delle singole parti e che, pertanto, ogni problema sollevato dalle relazioni umane chiede una soluzione o, almeno, uno sforzo per giungere ad essa. Ora, un tale sforzo non può essere fatto, se non mediante una assunzione di responsabilità collettiva da parte di ciascuno: perché ciascuno di noi è legato, per mille fili - visibile e invisibili - all'insieme del creato, e ciascuno di noi può contribuire - nel suo piccolo - a ristabilire l'armonia del tutto.

Ciò detto, rimane il fatto che le aspettative altrui su di noi possono essere realmente aberranti, patologiche, e perfino potenzialmente pericolose. Ne consegue che noi siamo chiamati, sì, a mostrare compassione e amore disinteressato per quanti tendono ad aggrapparsi, in un modo o nell'altro, alla nostra persona, ma entro i limiti dell'umanamente possibile, e sia pure con l'aiuto soprannaturale della Grazia.
A nessuno può essere domandato di spingersi oltre; a nessuno si può chiedere di imbarcarsi in una disperata avventura per salvare l'equilibrio - magari già gravemente compromesso - di persone allo sbando, che vedono in noi l'ultima spiaggia cui afferrarsi, ma che, nei loro convulsi movimenti da naufraghi sul punto di annegare, potrebbero infine travolgerci nella loro stessa tendenza autodistruttiva.
Certo, vi sono e vi saranno sempre delle creature veramente illuminate, veramente amorevoli, veramente sante, capaci di assumersi i rischi di un tentativo del genere; tuttavia si tratta di casi assolutamente eccezionali, e nessuno può essere minimamente biasimato se non si sente in grado di intraprendere una strada così dura ed incerta.
Nella maggior parte dei casi, comunque, avviene l'esatto contrario: ossia noi tendiamo a coinvolgere gli altri, con il nostro esserci, in maniera intenzionale e, talvolta, irresponsabile; oppure lo facciamo in maniera parzialmente consapevole, come quando ci vestiamo in un determinato modo o compiamo certe azioni o pronunciamo certe parole in pubblico, ma con la segreta intenzione di coinvolgere qualcuno in particolare e con la riserva mentale di "scaricare", poi, tutti coloro che, non desiderati o non graditi, dovessero eventualmente rispondere all'appello.
Vi è, in un comportamento del genere, una sorta di «delitto colposo», perché noi sappiamo che esso potrebbe avere ripercussioni imprevedibili su molte altre persone, ma non ce ne curiamo; consideriamo tali eventuali destinatari dei messaggi da noi lanciati come una entità trascurabile; e andiamo avanti per la nostra strada, dritti verso lo scopo, incuranti di tutto ciò che non riguarda il conseguimento del nostro reale obiettivo.
Ecco, in ciò vi è una indubbia componente di irresponsabilità, per non dire di cinismo e di disprezzo del prossimo: poiché in quest'ultimo noi non vediamo più un soggetto degno di essere rispettato nella sua integrità di persona, bensì unicamente del materiale grezzo, da manipolare a piacere sulla base dell'unica legge della nostra convenienza.
Ed è proprio per il fatto che questa, oggi, è la filosofia sociale prevalente, fondata su un utilitarismo che squalifica l'altro dal ruolo di persona a quello di mero oggetto dei nostri interessi, che abbiamo richiamato il valore della compassione e abbiamo ricordato il senso di responsabilità che dovrebbe legare il nostro destino a quello di tutti gli altri enti (anche delle creature non umane e anche della natura in quanto tale, a cominciare dal paesaggio).

Ma torniamo al discorso relativo ai messaggi ambigui che, sovente, mandiamo genericamente al prossimo, allo scopo di attrarre l'attenzione di qualcuno di nostra scelta e anche - last but not least - per gratificare la nostra vanità, godendo dell'effetto che potremmo fare sugli altri, ciascuno nel proprio ambito: l'intellettuale pontificando altezzosamente in televisione, il politico facendo il prezioso dall'alto del suo potere, l'attricetta, la ballerina o anche la ragazza comune, esibendo un look volgarmente provocante.
Sappiamo bene che questo discorso - oggi - non piace, perché dire, o anche solo insinuare, che tali comportamenti sono moralmente discutibili, sembra configgere con l'assioma fondamentale (e, si dice, auto-evidente) della società edonistica e permissiva: che, cioè, ciascuno ha il diritto di esercitare la propria libertà - nel parlare, nell'agire, nel vestire - senza limite alcuno; e che pretendere di porvi dei limiti equivarrebbe a un ritorno al Medioevo, alla Santa Inquisizione, all'Indice dei Libri Proibiti, e così via.
Grazie alla demagogia oggi trionfante, avallata e, anzi, fomentata da uno stuolo di intellettuali - quelli, sì, veramente e pienamente irresponsabili - sembra che oggi sia lecito tutto, ma proprio tutto, quello che il Codice penale non vieta in modo esplicito; che al mondo non esistano altro che diritti e libertà, ma nessun dovere né alcun limite; che chi più trasgredisce, più provoca, più scandalizza, sia anche il più progressista, il più moderno, il più degno di ammirazione (cfr. il nostro precedente articolo: «Dobbiamo reimparare a indignarci davanti ai seminatori di scandali», sempre sul sito di Arianna).
No, signori: così non va. Abbiamo dei diritti, e abbiamo pure altrettanti doveri: ad ogni diritto corrisponde un dovere, per una legge della simmetria etica che nessuno può impunemente trasgredire e ancor meno fingere di ignorare. Così pure, per ogni libertà c'è anche un limite: non esiste la libertà assoluta, non è mai esistita e, se esistesse, precipiterebbe la società umana nel caos più completo e nella barbarie più sfrenata. Diremo di più: il concetto di libertà acquista un significato solo se posto in relazione con il concetto di limite: altrimenti diviene una farneticazione intollerabile o, peggio, un incitamento alla distruttività umana.
Certo, la vera libertà dovrebbe essere autodisciplinata ed autoregolata: crediamo poco alla libertà imposta e sostenuta dalle baionette, dal carcere o dalla sedia elettrica. Pure, la natura umana è cosiffatta, che la stragrande maggioranza degli individui è incapace di autodisciplinarsi e di autoregolarsi, per cui s'impone la necessità di una istanza superiore, che si ponga come suprema mediatrice degli inevitabili conflitti.
Non solo. L'esperienza storica, nonché la semplice osservazione empirica, diretta, del mondo in cui viviamo, ci insegnano che, ove i rapporti umani fossero lasciati ala discrezione della capacità autonormativa di ciascuno, in brevissimo tempo assisteremmo al trionfo dei peggiori elementi, alle violenze e agli abusi dei più immaturi, dei più egoisti, dei più faziosi; mentre i buoni, i miti e gli onesti sarebbero sopraffatti, angariati, sfruttati senza pietà.
Non è forse per questo che è cosa tanto rara imbattersi in una persona veramente autonoma, dotata cioè (come dice l'etimologia della parola) della capacità di darsi da sé una norma?
Non è forse per questo che la maggioranza degli individui tende a uniformarsi al pensiero e alle mode che vengono veicolati dall'alto (dal potere politico o da quello economico o da quello dell'informazione), retrocedendo al livello di un gregge anonimo e inconsapevole?
Non è forse per questo che le proposte più sagge, le azioni più disinteressate, le parole più generose,  tendono continuamente ad essere sommerse dalla cacofonia petulante di chi grida più forte, di chi proclama che tutto è lecito, di chi mira a manipolare e controllare i pensieri ed i comportamenti della massa?
E dunque, bisogna pur dirlo: l'egualitarismo oggi dominante (dominante almeno a parole: questo è ciò che i poteri forti vogliono far credere agli utili idioti del gregge) va nella direzione di una costante, inesorabile selezione dei peggiori: degli uomini peggiori, delle ideologie peggiori, dei codici di comportamento peggiori; della scuola peggiore, della famiglia peggiore, dell'umanità peggiore: quella ridotta a puro strumento di manipolazione inconsapevole.
Dobbiamo renderci conto di queste dinamiche, per essere in grado di reagirvi e di contrapporre ad esse dei processi virtuosi, tali da favorire l'affermazione delle persone, delle idee, delle pratiche migliori, in contrapposizione alla tendenza prevalente (cfr. il nostro precedente articolo: «Prima considerazione inattuale: recuperare il giusto concetto di aristocrazia», sempre sul sito di Arianna Editrice).
Non è affatto un'idea originale: Platone la sosteneva con forza già nella sua «Repubblica». E tuttavia è un'idea necessaria, anzi indispensabile, alla luce degli effetti che un egualitarismo demagogico e irresponsabile sta producendo in misura ormai disastrosa.

L'importante è non perdere mai di vista l'obiettivo di cooperare alla costruzione di un ambiente sociale più armonioso, più aperto, più consapevole delle esigenze di tutti: senza dimenticare che la prima e fondamentale esigenza è proprio quella di essere considerati e rispettati in quanto persone, contro ogni forma di manipolazione e di sfruttamento utilitario.
Noi non siamo merce, come vorrebbe la versione estrema e aberrante di un capitalismo senz'anima e senza principi; nessuno ha il diritto di trattare il proprio simile come una cosa, come un oggetto, come uno strumento per realizzare i propri disegni o per soddisfare i propri capricci e le proprie vanità.
Vi sono, nell'essere umano - e non solo in esso, in ogni ente del mondo che ci circonda - una dignità intrinseca, un mistero sacro, che meritano la massima considerazione e ai quali è doveroso accostarsi in punta di piedi, con timore e tremore.
Perciò, a noi tocca il dovere di essere sempre rispettosi del mistero e della sacralità che sono  nell'altro; e il diritto di pretendere lo stesso da lui, nei nostri confronti.
Sarebbe una buona cosa se riuscissimo ad essere anche compassionevoli, almeno quel tanto che basta a imprimere alle relazioni umane una connotazione di gentilezza, comprensione e benevolenza, senza le quali esse degenerano in una continua competizione  o in una distaccata, squallida indifferenza reciproca.
Non possiamo, d'altra parte, prenderci sulle spalle tutto il peso del mondo, né assumerci responsabilità che non ci spettano, allorché gli altri vogliono caricare di aspettative tutte loro il nostro puro e semplice fatto di esistere.
Quel che conta, è avere la coscienza pulita rispetto alle nostre intenzioni: di non aver mai cercato, cioè, di conseguire il male del prossimo, ivi compresa quella forma di male che è la sua manipolazione interessata.
Non ci sarà chiesto di rendere conto se, qualche volta, in modo del tutto involontario, abbiamo dato adito a false aspettative da parte degli altri nei nostri confronti; ma se abbiamo sempre visto in loro delle persone, ossia delle creature dotate di dignità pari alla nostra e meritevoli di rispetto in se stesse, indipendentemente da fatti esterni come la posizione sociale o dalle idee politiche, filosofiche, religiose.