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La scelta neo-contadina

di Sergio Cabras - 29/01/2009

Fonte: ecofondamentalista


In questo testo mi occupo specificamente di descrivere ciò che intendo per scelta di vita “neo-contadina” per cui accennerò solo occasionalmente ai presupposti di analisi della situazione attuale in generale che portano ad essa - analisi che cerco invece di svolgere in diversi altri scritti a cui rimando.
Parto invece dal presupposto, dato per acquisito dal lettore, che il sistema di vita consumistico è distruttivo a livello planetario e che occorre fin da subito realizzare concretamente delle alternative radicali.

Tengo anche a precisare che non intendo la vita neo-contadina come l'unico modo di vivere degno, né come quello che indistintamente tutti gli esseri umani dovrebbero seguire per permettere ad un sistema sociale di essere ecosostenibile.
Le vie che prende la Realtà per realizzare sé stessa sono tante e passano attraverso le vie che noi individui umani prendiamo per realizzare noi stessi. Quindi nessuno può dare giudizi in assoluto.
Ma neanche è indifferente quali scelte si facciano, né tutte sono altrettanto valide da un punto di vista generale: ognuno fa la sua, ed è giusto così. Di fatto si è anche liberi di fare quelle sbagliate per la generalità del mondo, basta sapere che il mondo pure è libero di farcene pagare le conseguenze.

La scelta neo-contadina che cerco qui di illustrare è una tra molte possibili.
È la mia: ne parlo perché la conosco.
Io non sono un politico, né un intellettuale intellettualista: credo che ci si debba limitare a proporre ciò che si fa e che si conosce per esperienza. Io nella mia vita ho scelto questa strada: sono andato in campagna ed ho cercato di realizzare questa scelta per quanto ho potuto.
Naturalmente c'è un'ampia gamma di modi in cui è possibile darle forma. Solo entro certi limiti però, all'infuori dei quali si tratta poi di tutt'altro.
E neppure, se parlo di questa scelta di vita, ne ignoro o misconosco altre né gli nego valore, dignità e rispetto (sebbene ce ne siano pure di quelle a cui li nego decisamente). Ad esempio, in ciò che dirò tutto parte dall'andare a vivere in campagna, ma sono ben conscio che la stragrande maggioranza delle persone vive in città. Io, in linea di principio, son convinto che le grandi città siano ecologicamente insostenibili in quanto tali e pertanto siano da abbandonare. Però sono anche ben cosciente che, data l'attuale condizione urbanizzata della società, sia realisticamente molto utile e prezioso il lavoro di coloro che, pur rimanendo in una dimensione cittadina, cercano di immaginare e di realizzare nuove forme e strategie (nei servizi, nell'architettura, nell'amministrazione ecc.. ecc….) in senso ecologista e, come si dice oggi, “decrescente”. Apprezzo sinceramente il loro impegno e le loro speranze. Anzi, ritengo che, con ogni realistica probabilità, dato il contesto attuale, saranno le loro indicazioni, molto più delle mie, a poter essere recepite e riuscire a svolgere un qualche ruolo storico. E so bene che non conta solo quanto un discorso sia giusto, ma anche quanto sia praticabile.
Però non è questa la dimensione mia: io dalla città sono andato via molto tempo fa e non conosco veramente la realtà cittadina né mi ci riconosco. Non saprei come si fa e in che misura sia possibile vivere ed organizzare le strutture in modo autenticamente ecosostenibile in una metropoli (e neanche posso nascondere un notevole scetticismo al riguardo).
Per cui mi limito a parlare secondo la prospettiva che ho scelto e che conosco e lascio ad altri ciò che (certamente ha un valore, ma che) non so.
Anche perché la mia prospettiva non è la Storia. Io intendo parlare all'interiorità di chi mi vuol leggere e che si chiede cosa fare della propria vita. Propongo una visione delle cose ed una pratica che vengono dalle mie esperienze e da ciò che ne ho tratto e che vorrebbero servire da spunto di riflessione per altri, anche per chi non seguirà la via che gli indico, ma che potrà, spero, chiedersi che cosa sto dicendo e fermarsi a pensarci un attimo, come è stato per me grazie a molte cose che ho letto, scritte da altri che mi hanno aiutato, ma che non tutti (ed anzi, nessuno fino in fondo) ho seguito.
La mia prospettiva non è la Storia, non perché la ignori, ma perché credo che la sua origine è dentro di noi e che, se le forme che vogliamo dare a questa sorgente sono storiche, ciò a cui vogliamo dar forma non lo è.
Tengo conto della realtà storica, ma credo che vogliamo vivere la nostra vita in modo degno qui ed ora. Io a questo riconosco un valore di sacralità. E in questa prospettiva cerco un'idea ed una pratica di vita che possa andar bene, che possa esser sana (armoniosa e non distruttiva, ma neppure astratta) a 360°, non solo per me ma a livello sociale, ambientale, cosmico, non solo qui ma anche altrove e non solo oggi, ma, nelle sue caratteristiche essenziali, in qualsiasi tempo. E che permetta ad un tempo in cui ci siamo anche noi umani, rimanendo effettivamente umani, di durare ancora molto molto a lungo.

In questo senso, la scelta neo-contadina (nelle sue varianti possibili) è, secondo me, quella più proponibile a livello di massa cioè dell' individuo medio, quella più “generalista” diciamo. Quella che potrebbe applicarsi alla maggior parte delle persone, lasciando spazio per molti adattamenti personali possibili e per ottenere soddisfazioni comunemente umane grazie a capacità comunemente umane. E che, anche se adottata da grandissime masse di individui, permetterebbe di vivere secondo ritmi naturali, sia a questi individui stessi, sia agli altri, sia alle varie società nel mondo, sia a tutte le altre forme di vita non umane, sia al pianeta nel suo insieme per un tempo indefinito.
Una scelta, inoltre, che migliora la vita individuale quanto quella sociale, agendo lentamente, ma radicalmente, e senza limiti di tempo né scadenze.

Se non intendo che tutti debbano fare i contadini o solo i contadini, però, questo vale soprattutto come discorso di principio. Nel senso che sarebbe pazzesco prendere una persona ed imporgli “tu devi fare il contadino”. Questo è ovvio.
Però dico certamente che tutti dovrebbero vivere in un modo ecosostenibile. E dico di più: che dovremmo preoccuparci di costruire una società, un sistema-società ecosostenibile. Quindi, anche se ci limitiamo ad occuparci direttamente della nostra vita e del nostro ambito personale, non dobbiamo perderne di vista le implicazioni e le, seppur piccole, ripercussioni in un'ottica molto più ampia.

Ora, questo pone la questione di un modello di società, ovvero di quale settore economico e quale modello culturale possano svolgere in essa un ruolo portante.
Perché ogni sistema umano ha un modello-settore produttivo portante. Questo è il volano e ciò che fa da riferimento per tutti gli altri, che determina il ritmo, la misura delle attività e dà forma all'economia ed alla cultura di una società.
È ovviamente anche il campo d'occupazione in cui è impiegata la grande maggioranza delle persone.
Ora, a me pare incontestabile che - escludendo scenari futuribili e abbastanza fantascientifici (comunque a lunghissima scadenza) in cui avessimo a disposizione una avanzatissima tecnologia del tutto sostenibile e diffusa a livello di massa in tutto il mondo - un sistema socio-economico-culturale veramente ecosostenibile, non possa essere altro che uno incentrato sull'agricoltura contadina, biologica e su piccola scala.(1)

Bisogna riconoscerlo una volta per tutte: non sarà sufficiente adottare altri tipi di consumi e di prodotti. Occorre una drastica riduzione, sia nella produzione che nel consumo: abbassare i livelli di ricchezza materiale. Questo è tassativo, soprattutto nei paesi cosidetti sviluppati dato che un certo ulteriore sviluppo da parte di quelli attualmente più poveri dovrà anche essere accettato.
Si tratta di una condizione imprescindibile per la salute e forse la sopravvivenza del pianeta vivente e la nostra al suo interno: non ha senso continuare a tergiversare intorno a questa evidenza!
La dimensione agricola su piccola scala è la sola che può dare, sostenibilmente, un sostentamento alla generalità di una popolazione, insieme ad una soddisfazione, ad un senso con cui vivere.

Allora, se il fatto che non tutti debbano fare i contadini né solo quello - e che comunque questa occupazione/stile di vita non possa essere imposta a nessuno - vale come principio di partenza, è altrettanto vero che, all'atto pratico, se vogliamo costruire questa speranza di società compatibile, è questo che in molti dobbiamo fare. Non può che essere una scelta, infatti. Molto diversa e molto più ampia rispetto ad “scelta politica”, ma non di meno una scelta militante.

In ogni società ci sarà sempre bisogno anche di molti altri tipi di occupazione. (2) Ed alcune di queste sono anche specialistiche: richiedono un'occupazione a tempo pieno che non si può portar avanti parallelamente a quella contadina. Per cui non è possibile immaginare un mondo di soli ed esclusivi contadini.
Ma per tutte le altre occupazioni basta una minoranza di persone, molto ridotta rispetto ad oggi, che comprenda solo chi ha quella che una volta si chiamava una “vocazione” per quel tipo di lavoro e che veda in primo luogo una soddisfazione ed anche un privilegio nel fatto stesso di farne la propria professione, senza che per questo debba ottenere alti guadagni o rendite di potere.
Sarebbe dunque auspicabile una selezione meritocratica severa per molti dei tipi di lavoro non agricolo, almeno se fatti a titolo professionale.
Essere un neo-contadino (d'ora in poi “n-c”) è invece una occupazione alla portata di tutti coloro che lo vogliano fare.

Ma nel contesto attuale, chi sceglie oggi di essere un n-c è sostanzialmente un'avanguardia di questa auspicabile società ecocompatibile perché sperimenta ed apre la strada nella sua vita alla possibilità dell'alternativa, che dovrà poi essere quella seguita dalla maggioranza delle persone per permettere strutturalmente (se mai davvero divenisse la scelta di molti) una autentica società sostenibile.


INTRODUZIONE

Nella scelta di vita neo-contadina (d'ora in poi n-c) la parola “neo-“ è altrettanto importante di “contadina”.
Voglio dire con questo che non si tratta di un ritorno al passato. Non si tratta necessariamente di vivere senza tutte le comodità tecnologiche moderne.
Ma senza alcune sì; senza accettare il prezzo di distruggere l'ambiente per averle sì; senza sfruttare altri popoli per poterle acquistare pagandole troppo poco sì; senza voler sistematicamente lasciare la fatica fisica della produzione primaria ad altri riconoscendo valore solo ad attività presunte “più elevate”, sì.
Si tratta precisamente di rinunciare alle comodità moderne (e non solo a quelle materiali), quanto più possibile, finché e nella misura in cui questi sono i prezzi da pagare per averle. Di rinunciarci, però, non solo di dire di essere contrari.

Neanche si tratta di illudersi di poter tornare ad una mentalità mitica, magica, pre-scientifica, patriarcale, figlia dell'ignoranza, della superstizione e di regole rigide, tradizioni immutabili e poteri indiscutibili. Non si tratta di imporre nulla a nessuno.
Si tratta piuttosto di rifiutare una fede acritica nella modernità e nel progresso, di non esser ciechi alla saggezza che anche c'era nelle religioni e descrizioni del mondo, negli stili di vita, nelle usanze e nei valori delle culture tradizionali e premoderne.
Si tratta di riacquistare in prima persona la propria autentica libertà sottraendola alla superstizione della Storia e riconoscendola nelle nostre radici naturali che si trovano nella terra, nel produrre e consumare il cibo, nell'abitare un luogo, nel viverci in relazione ad altre persone, nel farci nascere e crescere dei figli.
Si tratta di non aspettare più che una rivoluzione o anche solo una maturazione dell'opinione pubblica, grazie al presunto effetto risolutore dell'informazione, siano riusciti a cambiare il mondo, ma di cominciare a far nascere un modo di vivere nuovo dandogli forma nel nostro vivere in un altro modo.

Siccome sappiamo che in primo luogo non possiamo costruire una soluzione lavorando ad alimentare il problema, ovvero che non ci riprenderemo la nostra libertà né la nostra responsabilità se non distaccandoci radicalmente dai meccanismi e dalle strutture di cui vediamo la distruttività;
siccome cerchiamo un modo di vita radicalmente ecosostenibile e riproducibile da un numero di persone virtualmente infinito (non una vita ecosostenibile che possano fare solo pochi privilegiati);
vediamo in una vita in campagna che, per quanto possibile, viva della terra, la base migliore per renderci autonomi dal Sistema, che consideriamo l'attuale problema del mondo. E su questa base cerchiamo di costruire un tipo di esistenza alternativo ad esso a tutti i livelli sui quali si svolge la nostra vita, quindi sul piano economico, relazionale, sociale, culturale….

L'agricoltura contadina è l'attività dalla quale ripartire perché solo da questa può davvero nascere un nuovo inizio e perché cominciando dalla autoproduzione del cibo e l'autoorganizzazione dello spazio/ambiente di cui viviamo, possiamo creare una base di libertà che ci renda non-dipendenti dal Sistema che ci circonda. Una base che ci renda autonomi da questo sistema, certo non in modo totale, ma in misura apprezzabile, ampliabile, e che ci dia la percezione della possibilità concreta di questa autonomia. Una percezione crescente nel renderci conto che, pur perdendo molte delle facilitazioni garantite dall'aderire alle forme socioenomiche inventate dall'uomo moderno, abbiamo ancora un sostegno (ed una conferma) nella Natura. Essa ci mostra che la terra ci dà da mangiare, che c'è l'acqua da bere, che il nostro corpo e la nostra intelligenza hanno il potere di fare molto per produrre ciò che ci serve e che molte delle gioie che nella vita possiamo trovare non hanno bisogno dei soldi e del mercato.

L'agricoltura è l'attività originale, dalla quale dipendono tutte le altre. Tutto lo sviluppo di qualsiasi società si è costruito sulla base di essa, perfino quello delle società non agricole che hanno comunque avuto sempre bisogno dello sfruttamento di o del commercio con altre società che invece lo erano.
Potenzialmente il contadino può fare a meno di tutte le altre categorie sociali e professionali (almeno per le sue esigenze basilari - ma che non escludono neppure una certa produzione culturale) mentre queste hanno sempre bisogno del contadino per mangiare. Ma, alla lunga, non solo per mangiare, se ci accorgiamo che l'agricoltura industriale, dopo decenni di “rivoluzione verde” è finita per diventare uno dei maggiori fattori di distruzione ambientale, inquinamento dell'aria e delle acque, cambiamento climatico e perdita di qualità alimentare (anche senza considerare l'estrema minaccia di contaminazioni incontrollate che potrebbero riservarci gli OGM).

Se tutto l'attuale sistema economico e produttivo, socioassistenziale ecc… crollasse e si dovesse ricostruire da capo un modo di stare al mondo dopo una possibile catastrofe di enormi proporzioni, lo si dovrebbe fare inevitabilmente come contadini.
E dunque , anche senza (o prima) di una tale catastrofe, è da lì che bisogna partire se vogliamo costruire una società equa e sostenibile lasciandoci dietro una serie di meccanismi distruttivi che non sono sanabili dall'interno.
La dimensione di vita del contadino è l'unica che non ne presupponga un'altra per sussistere. È perciò da questa che bisogna ripartire per costruire un'alternativa integrale.

Questo non significa ignorare che il contadino tradizionale, come ancor più il n-c, vive molto meglio se può disporre anche di una certa tecnologia, apparati amministrativi, strutture mediche, scolastiche, trasporti, attività culturali e quant'altro. Questo è evidente. (3)
Ma lo è altrettanto che le società del passato, incentrate sull'agricoltura contadina praticata dalla gran maggioranza della loro popolazione, non erano del tutto prive di questo tipo di servizi e strutture. E ciò che più ci interessa è che a maggior ragione oggi, con le attuali conoscenze e tecnologie disponibili, potremmo avere tutte le comodità che ci sono veramente necessarie, anche in un sistema sociale molto meno “sviluppato” di quello attuale.

Certo, immaginare oggi un sistema così diverso è pura utopia e alle utopie non ci crediamo più. Già più volte la Storia ci ha insegnato a non fidarci delle rivoluzioni che (oltre al fatto di aver bisogno di qualcuno pronto a morire ed uccidere per farle) hanno spesso finito per generare dei mostri, ben diversi dai paradisi sognati.
Chi fa una scelta n-c non è uno che voglia perdersi in queste cose: non vuol sacrificare il tempo che gli è dato di vivere per ideali astratti che qualcun altro sfrutterà a suo vantaggio. Ma altrettanto non vuol rinunciare a vivere questo tempo nel modo che sente giusto e sano solo perché sa di non poterne vedere un generale riconoscimento ed affermazione nell'arco della propria vita.

Se un certo modo di vivere (sebbene declinabile in diverse varianti secondo i contesti geografici e storico-culturali) lo riconosciamo come giusto e sano rispetto al posto che l'essere umano ha nel pianeta, nella Natura, ciò vale sia per la nostra vita individuale, qui ed ora, sia per le società nel mondo e nel tempo. Non c'è una scadenza entro la quale la dimensione pratica propria di questo posto nel mondo debba aver dimostrato di esser “vincente” nella Storia. Semplicemente perché , se veramente quello è il posto che ci spetta, non c'è un limite temporale entro il quale ciò si debba affermare pubblicamente: lo dimostreranno i fatti, semmai. Né hanno senso concetti come “vincente” o “perdente” e neanche quello di “Storia”, quanto a questo.

Chi sceglie di essere un n-c non sta a guardare che oggi quasi nessuno si muova in questa direzione: il suo orizzonte non è né quello della Società, né della Cultura, né della Storia. Egli sta ritrovando il terreno in cui affondare le sue radici e non sono questi concetti troppo mobili e relativi che glielo possano restituire, ma la Natura, ed ancor più il suo rapporto con Essa, ovvero il rapporto umano con ed il posto umano in Essa, che è in primo luogo, e in luogo basilare, l'agricoltura contadina. (4)

Dunque, la scelta del n-c è una scelta di qualcuno che si riprende qui ed ora la propria libertà dalla Storia, ovvero, in questo senso, dalla superstizione moderna per la quale la forma che può prendere la nostra vita deve essere inevitabilmente legata alla corrente seguita dalla maggioranza, se non altro, per il fatto che siamo “animali sociali”.
Il valore di questa giustificazione rimane tutto da dimostrare, perché la dimensione che si addice alla nostra socialità naturale è quella della piccola comunità (familiare, tribale, locale), mentre applicare questo concetto alla Società - come quell'entità intermedia tra la Nazione e l'Umanità a cui ci riferiamo con questo termine, la cui dimensione è la Storia - è solo dovuto alla confusione derivante dall'uso di termini che hanno la stessa radice, ma che rimandano a piani di esperienza completamente diversi.
Tutti sappiamo infatti cosa significhi per noi la cerchia di amici, parenti, conoscenti: una realtà; mentre dopo circa due secoli dalla nascita di discipline di studio quali la Sociologia, l'Antropologia (ed altre derivate) e le stesse Storiografia e Filosofia della Storia, non sappiamo ricondurre altro che vaghi concetti astratti a questa ancora lontana (metaumana) idea di “Società”.

Possiamo dire dunque che il n-c non smette di essere un “animale sociale” per il solo fatto di fare una scelta di vita diversa dalla maggior parte dei suoi simili, ma che ha forse un diverso modo di praticare la propria libertà che, alla lunga, forse, diventa pure un diverso modo di concepirla.
La scelta di andare in campagna infatti (come di rimanerci se ci si è nati, ma in alternativa a molte altre possibili) può essere vissuta all'inizio anche come una via per sottrarsi a qualsiasi tipo di imposizione e condizionamento da fattori esterni a noi stessi, alla nostra libertà di decidere tutto della nostra vita.
Ben presto, nei fatti, ci accorgiamo che in campagna e come n-c, siamo condizionati da molte cose: dalle necessità materiali, tecniche, dalle condizioni atmosferiche, dalle stagioni, dai bisogni di piante ed animali, dal peso e la temperatura degli oggetti, dai tempi necessari a svolgere i lavori con i mezzi che abbiamo… Ci accorgiamo dunque che la nostra libertà viene ad essere in sostanza quella di preferire (rispetto ad altre possibili) la sottomissione ai vari fattori naturali; realtà fondamentali che, in quanto tali, riconosciamo, in ultima analisi, non altro da noi(5).

E' però significativo notare che, in questo senso, abbiamo sviluppato una consapevolezza (o un'idea se si preferisce), quanto a ciò che noi siamo e a cosa significa per noi “libertà” molto diversa sia da quella con cui eravamo partiti sia da quella generalmente accettata nella cultura moderna e contemporanea.
Significa che, dovendo/potendo scegliere, preferiamo sottostare ai ritmi naturali (che sono ben altro che bucolici o idilliaci, ma molto concreti e vitali) piuttosto che a padroni, datori di lavoro, superiori, clienti, mode, modelli e convenzioni sociali che invece molta gente accetta come indicatori delle linee guida della propria vita in cambio di quel denaro e quei beni di consumo al possesso dei quali affida la propria idea di libertà.
Un'idea di libertà, la loro, molto moderna e con ciò storicamente determinata, legata alle possibilità che la fase economica di sviluppo tuttora in corso (sebbene con forti scricchiolamenti da più parti) ancora ci permette di avere, ma il cui diritto, peraltro sconosciuto a tutt'oggi a moltissime persone sul pianeta, come si suol dire “non sta scritto da nessuna parte”. Soprattutto non sta scritto nella lista delle cose che il pianeta è in grado di sopportare da parte della generalità dell'umanità (dal che deriva che si tratta o di una libertà intrinsecamente competitiva, egoica, potenzialmente guerrafondaia ed accessibile solo ad alcuni o, in ultima analisi, la “libertà” di autodistruggersi).

La libertà che si impara (e, paradossalmente, che si accetta) nell'agricoltura contadina, invece è la libertà di un'attività eterna. Non solo perché è fatta di una serie di lavori che di anno in anno vanno ripetuti secondo il ciclo delle stagioni (sperando che le lasceremo continuare nel loro corso naturale), sempre uguali e sempre diversi senza fine di generazione in generazione, ma anche perché è un'attività di cui l'umanità potrebbe vivere sulla terra senza limiti di tempo (ovvero fino alla sua naturale estinzione per cause non autoindotte).
È un'attività sostenibile virtualmente senza scadenza finchè rimane all'interno di quelle caratteristiche essenziali ed oggettive che la rendono ciò che è: su piccola scala; con una parte significativa di lavoro fisico; con livelli di produzione/consumo non troppo eccedenti la sufficiente soddisfazione delle necessità autentiche; con sistemi di produzione e smaltimento ecocompatibili; generante una cultura che non ignora le nostre radici nella Natura e nelle sue “leggi” fondamentali di funzionamento.
Ma questo non implica che la dimensione contadina intesa in questo senso debba sempre presentarsi ed essere praticata nelle stesse forme. Come del resto sempre è stato nei diversi luoghi e contesti - pur adattandosi con mutamenti molto più lenti di quelli attuali - può esser vissuta in vari modi ed accompagnata da diverse sensibilità culturali.
È fuorviante, quando non anche una cosciente mistificazione, saperla immaginare solo come un ritorno a forme di vita proprie di un passato che non ci appartiene più o come se presupponesse necessariamente un'arretratezza e un'ignoranza che forse non c'erano in senso assoluto neanche prima e che comunque non ci sono oggi. Ed è anche un pò limitato al proprio orizzonte locale sviluppato dimenticare che forme di vita contadina persistono ancora ai nostri giorni per moltissime persone, non solo in altri paesi, ma anche qui, e che non tutti costoro se la passano così male, anche in un mondo che va da tutta un'altra parte (e sarebbe meglio chiedersi dove…).
Dunque, l'agricoltura, la dimensione di vita contadina oggi (e domani) può anche essere ciò che riusciremo (certo, non senza fatica) ad inventarci noi.

In una vita neo-contadina, nel senso che sto cercando di descrivere, non c'è bisogno necessariamente di essere agricoltori a tempo pieno: basta anche un orto, qualche albero da frutta, quattro galline; basta che il rapporto fisico/lavorativo con la natura abbia un ruolo anche parziale, purché economicamente significativo, nella nostra vita e che viviamo questo rapporto con una consapevolezza ecologica.
In realtà può essere più “neo-contadino” il musicista o l'infermiera che a casa curano un bell'orto e due arnie di api, ma hanno una coscienza civile ed ecologica che informa tutta la loro vita (specialmente quanto al livello di consumi), rispetto all'imprenditore agricolo che conduce la sua stalla modello dove le mucche non si muovono dai box e vengono nutrite solo a mangimi o che coltiva grandi estensioni a monocoltura in un'ottica di produzione industriale con prodotti chimici ed enormi mezzi meccanici.
Questi non sono contadini perché non hanno un rapporto contadino né con la terra, né con il cibo, né col loro lavoro.
Il neo-contadino (n-c), pur non volendosi negare programmaticamente alcune delle conquiste tecnologiche che oggi possono renderci la vita più facile di quanto non fosse quella dei contadini veri e propri (quelli di una volta, senza “neo-“), si ispira a questi e nutre verso di loro un profondissimo rispetto per la sostenibilità del loro stile di vita, dato dalle dimensioni ridotte, per la tenacia e la cura nel loro lavoro, date certo anche dalla necessità, e per la loro integrazione pratica e culturale all'interno dell'ambiente naturale e delle sue leggi, data se non altro dal fatto che tale ambiente era l'orizzonte della loro esperienza e conoscenza.
Si trattava certamente di una condizione di vita che aveva i suoi limiti e i suoi forti disagi (causati ancor più e prima che dall'ignoranza e dal ritardo tecnologico, dallo sfruttamento, dall'ordinamento socio-politico gerachizzato, dal latifondo e alla fine dall'oblio in cui lo Stato moderno ha lasciato le campagne favorendo l'urbanizzazione) dalla quale infatti non a caso moltissimi son stati costretti a fuggire.
I contadini di allora potevano non essere lì per propria scelta, ma questo non toglie che la funzione che svolgevano nel pianeta fosse perfettamente in armonia con esso: bisogna partire da un piano oggettivo/materiale nel valutare gli stili di vita e da lì costruire anche la condizione soggettiva.
Oggi abbiamo i mezzi per permetterci l'uno e l'altro piano in modo sano e sostenibile e la via per farlo è tornare a vivere in un modo e in un contesto ambientale che riparta idealmente da lì.
Oggi possiamo alleviare la durezza di quel tipo di vita grazie a molti attrezzi tecnologici che pure rimangono in limiti compatibili col rispetto dell'ambiente;
possiamo gestire la nostra vita sociale a partire dalla consapevolezza storica che violenza e sopraffazione non ci aiutano a vivere meglio;
possiamo trovare senso nel nostro muoverci, tuttora alla ricerca in questo vasto mondo, verso la nostra sempre inevitabile meta finale, senza ricorrere a superstizioni minacciose o consolatorie.
Esistono già forme di tecnologia leggera che, seppur diffuse su scala di massa, sono sopportabili per il pianeta. E certo molte altre se ne aggiungerebbero se un numero sufficiente di persone seguisse stili di vita tali da costituire un mercato interessante per chi volesse studiarne di nuove.
Se si usasse diffusamente il riciclo dei materiali e la scelta di risorse rinnovabili, la riparazione degli attrezzi e il loro uso per la durata possibile della loro funzionalità, senza comprarne sempre di nuovi quando i vecchi vanno ancora bene; se si consumasse energia con l'accortezza di evitare ogni spreco; se, in una parola, si fosse concretamente attenti al proprio impatto ambientale nei dettagli quotidiani della propria vita, si capirebbe che l'alternativa teorica che spesso viene posta tra l'attuale modello di sviluppo obbligatorio imperante e il dover tornare alle candele, al freddo e alla fame è solo una disonesta mistificazione. Una superstizione: la versione moderna del “pianto e stridore di denti” nelle rappresentazioni medievali dell'inferno - al quale oggi saremmo condannati come in-fedeli al dio Progresso e al suo veicolo con pilota automatico, la Storia; senz'altro indegni di un posto nel suo paradiso ad aria condizionata e foderato di bigliettoni.

Se ogni abitante del mondo vivesse ad un livello di consumi approssimativamente paragonabile a quello di una famiglia contadina benestante dei nostri anni '60 o di una di classe media del Terzo Mondo attuale e impiegando al meglio le conoscenze e tecnologie ecologiche odierne, ci sarebbe il sufficiente per tutti, nulla di necessario mancherebbe a nessuno e non saremmo minacciati da disastri ambientali, né dovremmo far estinguere decine di specie viventi ogni anno.
Insostenibili non sono i consumi quotidiani necessari ai bisogni basilari della nostra giornata, pur con molte delle comodità moderne ormai date per acquisite a livello di massa. Sono tutti i consumi superflui e tutta la struttura industriale necessaria per produrne in quantità immense continuamente di nuovi e in inutilmente sofisticati modelli, gadget e beni vari usa-e-getta a prezzi concorrenziali per venderne sempre di più.
L'economia non si regge sul necessario (nemmeno inteso in senso ampio), questo riguarda solo una piccola parte della produzione: tutto il sistema in cui viviamo si regge sul superfluo e sullo spreco.
È la corsa al profitto. È il sogno di successo e di ricchezza che ognuno nel suo piccolo e nel suo ambito persegue che ci portano a volere sempre di più. È l'incapacità ormai di saper rinunciare più ad alcunchè, nemmeno a ciò che neppure sappiamo come sia, ma lo vogliamo solo per averlo visto in tv o addosso a qualcuno.
È l'identificazione con l'oggetto-simbolo e la dipendenza cronica che ci fa pensare con terrore all'eventualità di dover per forza fare a meno di qualcosa a cui ormai siamo abituati. Anche se l'abitudine non è nemmeno al “qualcosa”, ma solo alla brama di averlo.

È, d'altra parte, la paura di dover fare delle scelte e di pagare per queste, di prenderci una responsabilità, la paura di cambiare, dell'ignoto e dell'insicurezza, del non esser capiti dagli altri che ci porta a credere subito a chi ci dice che una vera alternativa non è possibile. Come se non aspettassimo altro che una buona ragione per crederlo: non vogliamo dire no senza un motivo, ma nemmeno verificare se quel motivo è davvero valido.
Semmai preferiamo leggere, informarci sui danni della globalizzazione e sull'ultima denominazione di moda con cui si cerca ancora di spacciare l'ossimoro dello “sviluppo sostenibile”. Vogliamo sapere tutti i dati prima: non vorremmo certo abbandonare le sicurezze che ci sembra di avere per delle previsioni allarmistiche. E poi, cosa veramente potremmo fare?
Per questo accettiamo supinamente l'equazione: se una alternativa non è possibile in modo totale ed assoluto, senza compromessi qui ed ora, allora non lo è affatto.
“Se non puoi essere fuori dal sistema al 100% non puoi esserlo affatto e da questo punto di vista siamo e saremo sempre tutti uguali”.
Si vorrebbe far credere che non sia il caso neanche di prendere in considerazione il fatto che, come si costruiscono il presente ed il futuro praticando in una direzione, così si può fare anche in un'altra. Se le tendenze in atto sono la risultante dei comportamenti di tutti i componenti la popolazione, se ciò vale in una direzione, non dovrà valere anche nell'altra? Non è forse così che si crea la Storia?
Non aveva detto qualcuno che ne siamo noi gli artefici?

La costruzione n-c di una vita non compromessa col sistema distruttivo/inquinante/consumistico è radicale ed è reale proprio nella misura in cui avviene progressivamente qui ed ora nei limiti del possibile. Proprio perché non aspetta che qualcun altro abbia trovato una soluzione complessiva. Crea il suo spazio tra le maglie del sistema, negli spazi lasciati scoperti, dimenticati: va a vivere in zone marginali, recupera beni abbandonati, limita i propri bisogni a quelli reali, cerca altrove le proprie soddisfazioni, fuori dal mercato. Trova sostegno basilare nella terra che dà da mangiare e lo dava anche prima dell'invenzione del denaro.
Non sto dicendo che dobbiamo fare i sognatori, voler vivere senza denaro, ignorare che ci servono alcune macchine e alcuni attrezzi e che vogliamo pure goderci la vita un pochino. Dico che la situazione attuale del mondo è troppo complicata perché qualcuno trovi una soluzione complessiva e troppo grave per permetterci ancora di rimandare ciò che noi possiamo fare.
Dico che dobbiamo rimettere le cose nella giusta prospettiva: la base della nostra sussistenza non viene dal denaro e dal mercato globale, non dalla pubblicità e dalle mode, non dalle istituzioni e dalla cultura.
Tutto parte in realtà dalla Natura, di cui siamo parte e da lì dobbiamo ripartire, non a chiacchiere, non nell'arte e nella cultura (magari anche, perché no? Però non limitandosi a questo), ma concretamente, strutturalmente, cioè economicamente, fisicamente, nel rapporto con la terra come nostra base. Trovare conferma in essa che “un altro mondo è possibile”, che un altra qualità della vita è possibile, che un'altra visione della realtà è possibile.
Come fece il Buddha quando, raggiunta l'Illuminazione, toccò il terreno con la mano.

La terra ci dà cibo, aria, acqua e fuoco, ci dà un posto dove vivere che è un luogo, il nostro ambiente, un mondo in cui esprimerci, non uno spazio qualsiasi anonimo. E ci dà una misura di realtà: chi siamo e come funziona il nostro stare in questo mondo. Perfino un pezzo di terra abbandonata, quando cominciamo a lavorarlo, ad organizzarlo, pianificando le nostre colture e immaginandolo in prospettiva negli anni, quando cominciamo a trasformarlo fisicamente (e il fisicamente, come il trasformare, vale sia per noi che per il terreno) non è uno spazio anonimo, tutt'altro. Lo è invece un centro commerciale, che non ci apparterrà mai nemmeno se ci andiamo a guadagnarci il salario tutti i giorni e nemmeno se ne fossimo i proprietari - che poi, in quel caso, già staremmo altrove, dietro a qualche altro affare.

Questo è rimettere le cose in una giusta prospettiva. Poi viene tutto il resto.
E viene: non è che lo possiamo negare, né lo vogliamo ignorare. Ci sono molte cose di cui possiamo fare a meno, altre che desideriamo, ma capiamo che devono la loro esistenza al sistema a cui vogliamo togliere sostegno e non potrebbero essere prodotte né acquistate all'infuori di esso; altre ancora che semplicemente non ci possiamo permettere perché la nostra scelta di vita non ci dà soldi abbastanza, almeno per ora, e allora ci dobbiamo rinunciare. Dobbiamo allora farne un'occasione per capire quanto quella cosa è necessaria e perché davvero la vogliamo. Possiamo dover riconoscere che è una buona occasione per accorgerci quanto possiamo in realtà essere liberi dai nostri desideri, quanto si vive altrettanto bene senza molti dei loro oggetti. Oppure, se vediamo che si tratta di qualcosa di veramente necessario, sarà opportuno ammettere di dover aggiustare il tiro: che dobbiamo metterci in condizioni di avere quello che veramente ci serve pur mantenendoci il più possibile nei limiti di coerenza con la nostra scelta.
Come si fa? Cosa è davvero necessario e cosa non lo è? Cosa è davvero ecocompatibile e cosa proprio non può esserlo (e non solo da un punto di vista chimico, ma anche rispetto ai sistemi industriali, commerciali, ma anche di potere, di mentalità, di cultura che necessariamente presuppone)? Quale misura e quale tipo di superfluo ci fa star effettivamente bene? Quanto l'economia di questo mondo si regge sul superfluo? E qual'è l'origine di questa fame di beni superflui? Perché non ci si rinucia pur sapendo cosa c'è dietro e a quali conseguenze ci porterà continuando così?
E come facciamo a garantirci ciò che davvero ci serve pur rimanendo ecosostenibili? Quali lavori sono accettabili e quali no? In base a cosa?
Tutte queste domande insieme e tante altre che da queste possono derivare su come portare avanti la propria vita n-c fanno di questa un koan. Una di quelle domande zen alle quali non c'è una risposta meramente logica. Alle quali la risposta giusta mia può suonare diversa da quella giusta tua. Giuste entrambe. Ma alle quali non va affatto bene qualsiasi risposta: ce ne sono invece moltissime di sbagliate, molte più di quelle giuste. E a quelle giuste non ci si arriva senza praticarle. Si scava dentro una risposta giusta e ci si trovano via via tutti gli errori che contiene: continuare pazientemente quest'attività è la giustezza della risposta.
Se consideriamo la cosa solo in teoria, anzi, probabilmente di risposte ce ne sono solo di sbagliate: ed è questo che può non farci muovere, se vogliamo stare a fare gli intellettuali ed accontentarci di parlare e definire altri dei sognatori.
Ma la vera risposta c'è, ed è proprio il lungo lavoro che occorre fare dentro sé stessi mente/corpo per cercare di realizzarla creando la propria strada verso di essa. Perché il sistema che si regge sullo spreco e che convince così tanti a incatenarsi a ciò che non gli serve è dentro la nostra mente che trova il principale alimento.

Non cambieremo il mondo senza cambiare la nostra vita.
Ma il mondo ci schiaccerà o ci recupererà facilmente al suo gioco se con la nostra vita non cambieremo la nostra mente.
L'essere umano ha bisogno di un senso.
Allora trova la forza, l'energia, la motivazione per qualsiasi cosa. Oggi il senso ce lo vendono nella pubblicità, commerciale, politica o di modelli umani (sessuali essenzialmente - sempre parte del commercio). Noi lo compriamo a pacchetto, insieme ai prodotti. Poi, una volta tornati a casa, nella vita reale, apriamo la scatola e di senso non ne troviamo più. “No, non era in questo di prodotto evidentemente”; torniamo indietro e ne compriamo un altro e così via, così via e così anche con le persone, nei nostri rapporti, amori, relazioni e ideologie, sogni, aspirazioni….

Il n-c ha deciso di prodursi il suo cibo, almeno in parte, ed anche qualche altra cosa, almeno in parte. Ma non è solo questo.
Ha deciso di non comprare, almeno il meno possibile, di non collaborare con ciò che è dannoso. Ma non è solo questo.
Costruirà pian piano una parziale autoproduzione di base e poi una forma di reddito indipendente dal Sistema e su questa la sua forma di vita liberata e positiva fino, auspicabilmente, a diventare anche un esempio per altri che attesti nei fatti la possibilità di un'alternativa.
Ma non è detto che riesca fino in fondo in questo obiettivo e molte circostanze possono allungare i tempi e modificare le forme in cui perseguirà la sua strada.
Le circostanze della vita sono varie.
Ma il punto essenziale è quello di sottrarre il nostro appoggio al Sistema sia come produttori/lavoratori sia come consumatori. Togliergli il terreno da sotto i piedi: non esser noi il suo terreno.
Allora torniamo alla terra perché grazie a lei ce lo possiamo permettere. Sottraendoci, seppur solo parzialmente, ai meccanismi che regolano l'economia consumistica e che pervadono il mondo, a nostra volta abbiamo bisogno di un sostegno e di una forma di sostentamento per ricominciare da capo.
“Da capo” c'è la Natura e il nostro rapporto strutturale, organico, operativo con Essa, che è l'agricoltura contadina, grazie alla quale all'inizio sappiamo di non morire di fame e via via scopriamo quante altre cose possiamo produrci e costruirci, senza per questo rassegnarci alla menzogna dell'alternativa fittizia tra una totale integrazione e l' “Età della Pietra”.


Dentro a tutto questo è soprattutto il senso della vita che il neo-contadino deve prodursi da sé. Perché il mondo che lo circonda gira diversamente, rema contro, e lui di senso ne ha bisogno per esser forte, convinto.
Deve produrselo da sé, perché non te lo vende nessuno, e quelli che ti vendono sono delle gran fregature: non funzionano.
E ci vorrà un bel pò di lavoro e di fatica perché bisogna tener dietro a tante cose, all'interno e all'esterno.
Il n-c sarà sempre preso da attività fisiche, materiali, e gli potrà capitare di non trovare più il tempo per pensare al senso di ciò che fa. In realtà è proprio lungo il sentiero di queste occupazioni che fiorisce la pianta di questo senso, e man mano fiorisce sempre più rigogliosa, ma bisogna imparare a riconoscerla e all'inizio non ci si è abituati.
Ma bisogna non mollare, aprirsi la propria strada con coraggio senza perdere questo sentiero che non c'è: mantenervisi sopra in un equilibrio di coerenza relativa, quella possibile, la cui misura è data dalla propria onestà intellettuale. Un bene prezioso da non perdere. Ed una spada da tenere affilata. Per saper distinguere. E tagliare le menzogne alla radice. Specialmente quelle che raccontiamo a noi stessi.

C'è una bussola che non sbaglia e dice: “non perdere la direzione originaria, riconosci la realtà contingente, fai il possibile e non raccontarti palle”.
A forza di continuare il cammino, ed accettarne ugualmente la fatica e la gioia, il senso si trova.
Non perché si riesca ad “autoprodursi” anche questo. Non si può.
Ma perché c'è: il senso della tua vita, che ti porta avanti, non lo produci tu. È nella Vita stessa. Ma la Vita non è un concetto e non è una creazione umana. Ha un senso che non troveremo andandolo a cercare.
Ed è questo che toccava il Buddha con la mano sulla terra.




PERCHÉ LA SCELTA NEO-CONTADINA

Il Sistema attuale capitalista avanzato/consumista, eco/sociodistruttivo non è recuperabile dall'interno: è strutturalmente votato alla catastrofe.
Non è possibile né opportuno combatterlo e sconfiggerlo militarmente, né è sufficiente, coerente, efficace, combatterlo puramente su un piano culturale/di informazione continuando nei fatti ad alimentarlo con la nostra vita sul piano economico/materiale strutturale. Cultura e informazione sono, sì, aspetti importanti che non possono essere ignorati, ma alla fine un'alternativa dovrà essere praticata concretamente e sarà solo quello che potrà, al “dunque”, cambiare le cose. È assolutamente necessario cominciare a realizzarla nei fatti in prima persona.
Bisogna avere il coraggio della “povertà di spirito” (nel senso evangelico del termine): tagliare le chiacchiere e cominciare a fare qualcosa di radicalmente concreto. Non stare a sentire chi dice “non è così semplice”, “non si può risolvere tutto così” ecc… Non si risolverà certo tutto così, senz'altro. Ma sarà anche sempre meglio che star a disquisire e rimarcare “distinguo” o immaginare scenari futuri all'ultima moda mentre si continua ad alimentare nelle piccole cose della propria vita il disastro incombente.
Diciamo pure la verità: quanti brillanti intellettuali ecologisti, attivisti di sinistra, politicamente corretti e quant'altro, se (per pura ipotesi) anche sapessero con certezza matematica che bisogna vestire tute da lavoro e zappare, accontentarsi di passare le serate davanti al camino, come unica possibilità per salvare il pianeta, semplicemente lo farebbero e quanti invece troverebbero infiniti argomenti giustificativi per mantenere la gratificazione che gli dà il loro status ed allontanare il momento di comportarsi secondo quanto coerentemente dovrebbe discendere da ciò che dicono?

Allo stesso modo non è neppure il caso di stare ancora a sentire chi dice che andando in campagna ci si sottrae alle proprie responsabilità verso la società o l'umanità o comunque i propri simili in senso ampio. Vale un discorso analogo: molti di coloro che oppongono questa obiezione chiamano “lottare” il loro puro e semplice esprimere opinioni, peraltro in un contesto democratico in cui questa è una facoltà del tutto priva di rischi. Spesso neanche ci si accorge che nella storia contemporanea, alla progressiva tolleranza del potere per le posizioni politico-culturali anche le più eccentriche, è andato di pari passo lo scivolamento del piano sul quale si prendono le vere decisioni che contano, dalla politica all'economia (materia riservata agli specialisti) e, per quanto concerne l'aspetto che più riguarda il popolo, dalla partecipazione democratica alle tendenze nel consumo. In questo contesto si possono tranquillamente manifestare pubblicamente le prese di posizione più eterodosse: servono a suscitare applausi o fischi (buoni entrambi per l'audience) nei talk show televisivi, tanto, a parte un po' di colore, che ci sta sempre bene (nella migliore tradizione del panem et circenses), lasciano esattamente il tempo che trovano. Perché di parole, opinioni, informazioni ne abbiamo così tante che non è più lì che prendono forma le cose.
Il neo-contadino (n-c), invece, ben lungi dal voler ignorare il proprio coinvolgimento nel percorso umano su questa Terra, si prende, a ben vedere, la responsabilità suprema, perché dedica tutta la propria vita, non solo nel tempo, ma nella molteplicità degli aspetti, a realizzare concretamente una soluzione alternativa sperimentandone su di sé la praticabilità nel contesto dato in cui si trova. Senza aspettare “il sol dell'avvenire”.
La differenza però, dal suo punto di vista, è che oggi le vere questioni all'ordine del giorno non sono quelle correntemente presenti nelle notizie d'attualità o nel quotidiano dibattito politico e culturale rispetto alle quali ha un interesse molto relativo. Il passaggio storico nel quale ci troviamo coinvolge fenomeni di una tale portata che mettono all'ordine del giorno né più né meno che alcune tra le domande da sempre fondamentali per l'umanità, ovvero quelle che riguardano il nostro posto sulla Terra ed il senso del nostro vivere. Noi siamo di fronte alla possibilità reale di stravolgimenti climatico-ambientali (con tutte le conseguenze sociali, sanitarie, economiche, belliche ecc…) epocali e stiamo normalmente a discutere di banalità, pettegolezzi o quantomeno argomenti molto secondari. Ciò dipende probabilmente dal fatto che su questi troviamo il modo di esercitarci dialetticamente e fare la nostra figura, mentre davanti a ciò che davvero incombe su di noi non sappiamo cosa dire. Al punto che preferiamo non parlarne. Al massimo come informazione, interpretazione di dati, sì. Ma sul perché andiamo avanti spediti pur sapendo verso quale disastro stiamo correndo?
La vera questione all'ordine del giorno oggi è proprio l'assenza delle questioni di fondo che pure sono qui davanti ai nostri occhi, appena velate dai fatti in cui ci si mostrano, dal dibattito, dalla discussione tra le persone, dalle motivazioni che ispirano i nostri sforzi.
Corriamo in una automobile che sfreccia verso il precipizio e stiamo discutendo di che marca è migliore la benzina o se ci piace più il modello coupé o la berlina. Possibile a nessuno venga in mente di frenare, tirare il freno a mano, spegnere il motore e chiedersi un momento dove stiamo andando e perché?
Se ha un qualche senso parlare di “fine della Storia” non è certo a causa delle elucubrazioni di Fukuyama, ma perché, con ogni evidenza, oggi l'essere umano si sta dimostrando un bambino che gioca con una bomba, e una bomba più grande di lui. E' perché è arrivato il momento di tirare le fila della Storia, prima che sia troppo tardi: capire veramente cosa ci muove, capire veramente dove stiamo andando e perché. Agli dèi e agli ideali non ci crediamo più. Bene; ma non è il caso di continuare a trastullarci con i loro surrogati né di annegare in un nichilismo non dichiarato per non voler fare i conti con noi stessi ed il percorso che ci ha portato fino a qui.

Se il n-c si sottrae alle schermaglie politiche d'attualità, ciò è precisamente rivendicato, perché oggi è il momento di interrogarsi e praticare, sperimentare soluzioni, sulle questioni di fondo. Come possiamo trovare il modo di viverci bene su questo pianeta. Bene per noi e per gli altri e per il pianeta stesso. C'è qualcuno che lo può insegnare? Forse sarà bene che cerchiamo di trovarne il modo noi, direttamente, perché le menti più raffinate preferiscono discuterne - e del resto non hanno mica studiato tanto per poi mettersi a zappare!
Non è che io voglia sminuire l'importanza del ragionare sulle cose né del conoscerle: non starei a scrivere tutte queste cose forse anche noiose se fosse così. Dico solo che bisogna anche agire. Anzi, prima agire, e poi parlarne.

Allora, non è un male se l'agire del n-c si svolge fuori dalla mischia, in zone “marginali”, di campagna: lì non verrà notato e il nuovo sistema di vita che costruirà avrà il tempo di crescere indisturbato, prenderà piede e metterà radici come il germe di un'economia autoprodotta. Così non sarà più solo “ai margini”, ma sarà proprio dal di fuori del Sistema che continuerà a costruire una realtà di cui si potranno vedere le caratteristiche, in certa misura, oggettivamente diverse dal mondo che la circonda.
Da questo “fuori” il n-c aspetta il momento in cui il Sistema crollerà da sé. Oppure in cui si accorgerà di dover fare una metamorfosi, se si vorrà salvare. Questa metamorfosi avviene attraverso una serie numerosissima di scelte individuali che sono già qualcos'altro mentre sono ancora parte di ciò che c'era prima.
E' il processo naturale con cui avviene l'evoluzione delle specie, come quando un bruco diventa una farfalla. Ed è il processo che compie man mano il n-c e, attraverso molti come lui, forse la società stessa potrebbe farlo.

Indubbiamente durante l'evoluzione molte specie anche si estinguono, e non c'è il lieto fine assicurato per nessuno (neanche per i più forti). Ma una cosa è certa: quando il bruco sente il momento di trasformarsi in farfalla, che quello è ciò che va fatto, non si mette lì a distinguere se è opportuno, se è realistico, se progressista, da conservatori o utopistico ecc… ecc… Si mette lì e realizza la sua trasformazione. E, se la sua intuizione è stata corretta, tutta la Natura lo sostiene.
Questo non vale solo per il bruco attuale, risultato di milleni di un processo metamorfosale collaudato, ma anche per quei “proto-bruchi” che per primi hanno sentito di rispondere alle condizioni ambientali in questo strano modo. Hanno cominciato a mettersi lì e costruirsi il bozzolo: l'hanno semplicemente fatto. E continuando per alcune generazioni hanno realizzato su sé stessi una nuova forma del vivere, che funziona bene nel contesto del pianeta, tanto che ancora i loro discendenti vivono così. Non credo che quei primi bruchi avessero un programma chiaro di ciò che andavano a fare: hanno solo sentito chiaramente che ciò andava fatto in quel momento e semplicemente l'hanno fatto. Non è che avessero lo scopo di diventare farfalle: ci sono diventati rispondendo alla situazione.

La nostra vita è qui ed ora: non dobbiamo sacrificarla in nome di qualche ideale astratto o in vista di un domani teorico. La via per la quale togliamo sostegno al Sistema, la nostra soluzione sul piano politico, deve essere anche la nostra via di salvezza sul piano esistenziale, deve restituirci senso nell'atto stesso del percorrerla. E deve rendere le nostre personali vite più degne di essere vissute per come noi stessi le percepiamo. La nostra vita è inoltre tutto ciò che abbiamo come individui ed è la nostra autentica realtà vissuta: è a partire da questa che possiamo fare qualcosa di concreto, di percepibile, di verificabile.
La strada per la quale possiamo costruire una soluzione sia per noi stessi come singoli/famiglie/piccoli gruppi che per la società in generale deve viaggiare sul piano degli elementi basilari, costituenti iniziali, della società ovvero ancora su la nostra vita come individui in primo luogo e poi nell'ambito della cerchia di relazioni alla nostra diretta portata. Si tratta necessariamente di una portata molto limitata, ma è altresì quella che ci dà una misura di realismo e di realtà, all'interno della quale ben vediamo come le chiacchere stiano a zero. Qualcosa di percepibile, che ci dà il passo al quale dobbiamo camminare, lento, ma possibile, che ci mostra pure che pian piano andiamo avanti. E che anche ci permette di mostrare qualcosa di concreto agli altri; qualcosa di vissuto e di praticabile.

Lo stile di vita da seguire deve essere tale che, se per pura ipotesi teorica tutti vivessero così, possiamo immaginare che ci sarebbe da vivere dignitosamente bene per ognuno ed il pianeta e la natura, così come la conosciamo oggi, potrebbe continuare a vivere senza traumi per un tempo indefinito.
Questo è un buon metro di giudizio di massima per valutare quello che stiamo facendo ed anche quale sia un livello accettabile di tecnologia (e ricambio di attrezzi tecnologici) e di consumi.

Un sistema di vita che corrisponda a questi requisiti - certo non il solo che abbia umanamente dignità e valore, non è di questo che si sta parlando - forse l'unico che davvero ci rientra del tutto, è certamente quello che si incentra sull'agricoltura contadina, agricoltura di sussistenza o comunque di piccola scala. Non a caso il sistema di vita col quale la gran parte dell'umanità ha sempre vissuto(6) e con cui vive anche oggi in realtà, se consideriamo la totalità del mondo, ed è probabilmente per questo che ancora il pianeta riesce a sopportarci. Già oggi non potrebbe più essere così se tutti gli umani fossero passati alla modernità industriale/consumistica.

Sebbene si possano immaginare altri stili di vita o tipi di sostentamento che non siano quello contadino anch'essi ecocompatibili (per esempio quelli basati sulle produzioni artistico-culturali o artigianali o di tipo ascetico-filosofico-religioso), questi lo sono solo se limitati a più o meno piccole minoranze di individui all'interno di una società. Ma nessuna società nel suo complesso può sussistere vivendo o incentrandosi su queste basi.
Queste minoranze specializzate hanno bisogno di coloro che gli forniscano ciò che non producono e che gli è invece basilarmente necessario, tanto che non potrebbero vivere senza, mentre ciò che esse danno in cambio non lo è altrettanto. Un contadino può anche, nel tempo libero, suonare o dipingere, ma chi è professionalmente artista non produce il proprio cibo. Una società (ma oggi come oggi bisogna parlare di umanità dato che l'economia è globalizzata ed il suo impatto ambientale avviene su scala planetaria), o una parte considerevole di essa, che volesse trarre il proprio sostentamento solo dall'arte o dalla cultura, avrebbe necessariamente bisogno di un'altra parte, pure considerevole, che dovrebbe fare in misura maggiore tutti i lavori fisici atti a soddisfare i bisogni materiali della prima. Questa si troverebbe così a essere dominante e sfruttatrice per il tempo che sottrae all'altra se non anche per il denaro: la parte sfruttata rimarrebbe confinata nell'ambito del proprio ruolo di lavoro fisico e non potrebbe accedere alle produzioni della parte “culturale” neppure in modo passivo. Ne seguirebbe un distacco sempre più netto delle due parti, che finirebbero per ruotare ognuna dentro al proprio mondo, per quanto bene il lavoro fisico possa venir pagato.
A questo va aggiunto che, se si volesse alleviare significativamente la fatica fisica di questa massa di lavoratori ed attuare uno spostamento crescente di persone verso occupazioni più culturali, sarebbe allora tutto l'ambiente naturale a non poterlo sopportare dato l'enorme impiego di macchine ed energia che sarebbe necessario.

Consideriamo dunque le cose a livello di massa: pensando ad uno stile di vita/occupazione lavorativa che possa essere ecosotenibile nel senso detto sopra anche se esteso a livello della generalità degli individui di una società, questo è solo quello contadino (e non genericamente “agricolo”, ma contadino, cioè su piccola scala - ed, ovviamente, biologico). Va da sé, come già detto, che questo non significa pensare che una società dovrebbe, né potrebbe, essere composta esclusivamente da contadini al 100%, questo è chiaro. Ma una società è agricola (come anche industriale, o di terziario avanzato, o pastorale-nomade, o neo-contadina) quando la grande maggioranza, la generalità delle persone vive nel modo corrispondente al modello produttivo che la caratterizza o in modo variamente influenzato da questo e quando, di conseguenza, tale è il settore economico portante per questa società. Settore che dà anche l'impronta al modello culturale.
Ciò significa altresì che tale stile di vita si pone come quello più comune, più normale, alla portata di tutti, attraverso il quale la maggioranza degli individui possono vivere di occupazioni condivise e riconosciute come normali, cercandovi soddisfazioni normali mettendo a frutto capacità ed aspirazioni normali, dove per “normale” si intende ciò che è comunemente diffuso nella considerazione e nelle aspettative delle persone.




CONSIDERAZIONI DI ORDINE “POLITICO”

Oggi ci troviamo in bilico tra la stringente necessità di una visione ampia che ci restituisca un orientamento negli immensi problemi che abbiamo creato - ed ai quali è urgente immaginare una soluzione praticabile - e il profondo disincanto per ogni ideologia, utopia o valore per le quali si debba pagare un prezzo. Abbiamo riparazioni da fare al più presto, ma non gli strumenti per farle.
Non ci mancano le ragioni per non fidarci di quelli che abbiamo: ci hanno creato già grossi problemi e senza lasciarci poi meglio di prima.
Il capitalismo ha vinto la sfida storica del Novecento e qualcuno crede perfino (con Fukuyama ed i neo-con della destra americana) che questo fosse il passaggio definitivo e che ciò che segue non sia altro che un ribadire ovunque nel mondo questa vittoria. Che ci vogliamo fare? Forse è perché gli Americani hanno una storia così breve alle spalle che ne rierscono a immaginare solo un breve tratto anche in avanti. Ma ciò che certamente ci fa temere un futuro che potrebbe essere breve è proprio questa affermazione planetaria del sistema capitalista nella sua presente fase avanzata e più pericolosa che mai. Che questo capitalismo iperconsumista sia il problema del mondo attu