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Sull'ispirazione

di Giuseppe Gorlani - 02/02/2009

  “Ispirare” deriva dal latino inspirare, composto da spirare, soffiare, e dall'illativo in, dentro. “Ispirare”, “respirare”, “spirare”, “spirito” sono tutti termini che ruotano intorno alla realtà fondamentale del soffio o alito. Queste semplici considerazioni etimologiche offrono un primo spunto fondamentale al nostro riflettere. Essere “ispirati” equivale dunque ad accogliere in sé un soffio. Ma quale “soffio”? Nonostante tutti si venga al mondo col primo respiro e si muoia esalandone l'ultimo, non per tale ragione ci si può dire artisti o poeti. Il soffio da cui viene la poesia - qui intesa quale atto supremamente creativo, riflettente l'intelligenza che anima il tutto e indicante il senso ultimo dell'esistere - deve necessariamente partecipare di una natura qualitativamente diversa rispetto al mero respirare biologico. Significativamente, in India, l'iniziato - e cioè colui al quale il Guru  abbia insufflato da bocca a orecchio (o, meglio, da cuore a cuore: sede simbolica dell'intelligenza noetica) la Gayatri, il mantra vedico per eccellenza - viene detto dvija, il due volte nato: tutti nascono dall'utero della madre, ma non tutti, anzi pochi, alla consapevolezza d'Essere uno col Pneuma. La Gayatri recita: «Meditiamo su quella eccelsa luce del divino Sole; illumini Egli la nostra mente».1 Il grande musicologo Marius Schneider, in Il significato della musica, 2 osserva: «L'udgita è dunque il gran cantico del sole da cui irraggia ogni luce. Poiché in sanscrito “suono” si dice svara  e “luce” svar, suono e luce sono sostanzialmente uniti in base alla loro affinità fonetica (cioè essenziale). [...] Suono e luce stanno l'uno con l'altro nello stesso rapporto di parola e conoscenza». La Chandogya-upanisad  indica in modo esplicito ed autorevole un'altra equivalenza: «“Quale è la via <donde procede> il saman ?” “Il suono [svara]” disse l'altro. “Da dove viene il suono?” “Dal soffio [prana]” gli rispose» (I, VIII, 4).3 E un'ulteriore fonte hinduista recita: «Io saluto la dimora di ogni scienza, il Grande Signore Maheshvara. Dal suo respiro è scaturita la parola eterna, il Veda e dalla sua parola, l'universo».4 Stando alla sapienza tradizionale, suono, parola, soffio e luce sono pertanto aspetti di un'Unità indivisibile.
   Al concetto di “vento”, “soffio” (gr. ánemos) è legato anche il senso essenziale di “anima” - ruah, pneuma, spiritus - nel corpo dell'uomo, o, cambiando prospettiva, includente il corpo. Lo Spirito - che, nella Genesi, aleggia sulla superficie delle acque primordiali - è lo stesso che, nella Tradizione hindu, quale vayu-atman, emana dal Supremo, manifestando la totalità dei mondi. Ed essere ispirati significa in qualche modo attingere ad esso.
   Già Platone lamentava, nei libri II e X della Repubblica, la dannosità del poeta mimetico, il quale, pur potendo risultare «mirabile e dilettoso», a causa delle sue facoltà imitative e della sua padronanza del metro, non sa ispirare alla realizzazione del Vero e del Bene. Certo, leggendo quest'opera di Platone, si avverte il sottile disagio che comunicano tutte le utopie: astrazioni nelle quali si pretende di forzare l'uomo. Da un lato ciò probabilmente deriva dal nostro status di uomini decaduti del Kali-yuga, ai quali il Supremo Bene appare come una sorta di limitazione alla libertà dell'io empirico. Dall'altro, occorre considerare che il “peccato” - per gli orientali, “errore” o “ignoranza” (avidya) -, appartenendo alla sfera dell'esperienza o, meglio ancora, al principio di essa e cioè alla sfera causale da cui trae origine la manifestazione, è un Mistero con un suo aspetto provvidenziale che le utopie non contemplano.
   Interessante è notare che la distinzione tra arte sacra e profana esiste sin dalle origini della nostra cultura; e dove il due appare, la sublime virtù del Tao è ormai smarrita. La strada che porta fuori dalla pienezza della Non-dualità sovramentale è comunque la stessa che all'Assoluto riconduce; si comprende pertanto quanto prezioso sia l'espediente dialettico - relativamente discriminante tra sacro e profano - insegnato da Shankara e Platone. È fuor di dubbio che quest'ultimo conoscesse il significato riposto dell'ispirazione; lo dimostra, sempre nella Repubblica, la seguente frase: «Giacché io stesso non so, ma là dove il ragionamento come un soffio di vento ci porta, ivi bisogna andare».5 Ne emergono un “io” che non sa a priori dove verrà condotto, un “io” vuoto, silenzioso, disponibile al Vero, ed un «ragionamento»  paragonato non certo a caso ad «un soffio di vento».
   In precedenza si è accennato ad un respiro biologico e ad un respiro appartenente a superiori dimensioni dell'essere, potremmo dire “sottile” e “causale”, nelle quali si esperisce, sia pur in maniera reversibile, l'unità col respiro universale. L'ispirazione profana deriva da un'accelerazione o intensificazione del primo e non può sollecitare altro che emozioni ed istinti, quella sacra attinge al secondo e, nel suo rivolgersi all'uomo totale, finisce col suscitare inevitabilmente riflessioni escatologiche o metafisiche. In entrambi i casi l'ispirazione è legata al respiro. Modificare e controllare i ritmi respiratori - insegna il darshana Yoga - significa influire sulla mente, elevandone il grado di consapevolezza, lucidità e distacco o abbassandolo.
   Che l'artista tradizionale debba essere in qualche modo uno yogin  ce lo dice chiaramente Ananda K. Coomaraswamy nel suo mirabile studio La trasfigurazione della natura nell'arte : «Il creatore di un'icona, dopo aver fugato, grazie a vari mezzi propri della tecnica yoga, le svariate influenze prodotte da emozioni effimere e immagini viventi, a forza di volontà e di concentrazione procede a visualizzare la forma del devata, angelo o aspetto di Dio, descritta in una prescrizione canonica».6
   Lo stesso concetto viene espresso da un anonimo estensore della scuola del maestro advaitin  Raphael: «Per pervenire alla visione della Bellezza occorre quindi armonizzare il proprio mondo interno rimuovendo tutte le sovrapposizioni (i nostri contenuti: istinti, emozioni, ecc.) che impediscono all'anima di applicarsi a questa Visione».7
   In Occidente, con la venuta del Cristianesimo, il sacro è stato pensato come indissolubilmente legato alla dimensione religiosa. Il Cristianesimo ufficiale non ammette infatti alcun esoterismo. In Oriente, invece, ancor'oggi si crede che la dimensione ultima (Turiya, il quarto stato) sia necessariamente sovrareligiosa, appannaggio di una ristretta élite qualificata ad intuire l'Assoluto non-duale, non scalfito da alcuna contraddizione o paradosso, onnicomprensivo e contemporaneamente trascendente ed immanente. Qui la distinzione sacro-profano non è avvertita giacché la Manifestazione - interpretabile come gioco o dramma, apparenza-illusione-velo o grado della Realtà - è emanazione del Supremo, non creazione ex nihil.
   Nell'India tradizionale, sopravvissuta al colonialismo e all'attivismo di Hindu educati all'inglese - per tutti valgano le figure di Gandhi o di Ambedkar -, incapaci di interpretare correttamente il Sanatana-dharma  (l'eterna - Sanatana - tradizione-armonia cosmica-legge-verità - Dharma), non abbiamo un'arte sacra ed un'arte profana. Persino l'attività sessuale, da Vatsyayana codificata nel famoso Kama-sutra, può essere concepita solamente come espressione del Dharma . Ciò vale anche per l'arte.
   Il noto critico e poeta Dante Maffia, nel n. 13 di Poiesis, 8 chiede a se stesso e al lettore: «L'ispirazione [...] è un'acquisizione tecnica aperta a tutti? Si può fare poesia affidandosi totalmente alla scientificità di un laboratorio linguistico, come si è detto per lungo tempo? Può il computer creare poesia?». In tali domande è già implicitamente indicato il grado di degenerazione in cui verte buona parte della poesia contemporanea, la quale, nell'ansia di affermare una parvenza di libertà, tutta orizzontale, si allontana viepiù dal Soffio-fuoco fecondante le acque agitate del mercurio lunare per finire nelle secche del minimalismo agnostico.
   Giovanni Raboni, a commento di un «manifesto» redatto da Giusto Truglia, direttore della rivista Letture, dice: «Se la poesia è [...]“quasi scomparsa”, è anche perché a nasconderla c'è un'immensa, raccapricciante montagna di simil-poesia» (Corriere della Sera del 29.10.96). Sarebbe interessante chiedere a Raboni di specificarci che cosa egli intenda per «simil-poesia». Personalmente ritengo che la pseudo-poesia più deleteria non sia tanto quella che affolla le pagine delle riviste con pubblicazione a pagamento, bensì quella che esce dalla penna dei “poeti” professionisti, i quali, pur essendo tecnicamente preparati, mancano spesso di ispirazione.9 Il sesto punto del «manifesto» in questione è comunque degno di nota: «Quale lingua deve darsi la poesia per riacquistare il centro di una comunicazione reale?».10 Troviamo qui indicato il perno intorno a cui ruota il nostro discorso. Secondo il punto di vista da noi adottato, la società attuale non sa elevarsi al di sopra del mentale dicotomico (manomayakosha, involucro fatto di mente) ed ignora completamente la sfera della buddhi, riflesso del Verbo o Lógos. La lingua data da una società di tipo scientifico-democratico, con venature pseudo-religiose, non può dunque schiudere alcuna comunicazione reale, comprendente cioè tutto ciò che è, e non quanto il pregiudizio suggerisce sulla base di percezioni limitate.  Lo dimostra il fatto che, in tale ambito, con “reale” ci si riferisce ad una “descrizione del mondo” in cui non sono ammesse alternative alla schiavitù perfetta da essa propugnata: starsene in prigione satolli e appagati.11 Fuori dalla prigione vi sono solo barbarie e superstizione da cancellare con quelle armi in cui l'Occidente “ufficiale” è andato specializzandosi nel corso degli ultimi trecento o quattrocento anni: inquisizione, polizia, scientifismo, distruzione della natura, benesseri utopici, alfabettizazione forzata e droghe varie.12 Se il mondialismo che oggi una certa arte concorre a promuovere dovesse trionfare, avremmo un pianeta trasformato in prigione.
   Il poeta, figlio di tale società - che, occorre ribadirlo, ha reso obbligatoria l'istruzione, banalizzandola e defraudandola di ogni connotazione sacrale -, se davvero volesse riscoprire la propria natura o vocazione profonda dovrebbe, ante omnia, porsi sulle orme di Socrate e penetrare l'epigrafe che i Sette saggi incisero sul tempio di Delfi: conosci te stesso. Ciò lo porterebbe inevitabilmente a collocarsi nel mondo quale vate, profeta, maestro di bellezza-verità o cantore di aspirazioni eroiche volte a illuminare la realtà e il destino ultimo dell'uomo. Diversamente, egli decadrebbe al rango di abile parolaio che scrive e pubblica per vanità - caratteristica tra le meno nobili - senza aver nulla da dire.
   Edgar Allan Poe, in alcune sue interessanti riflessioni sulla poesia, sostiene che «il Principio Poetico [...] in sé è semplicemente e rigorosamente l'Aspirazione Umana alla Bellezza Superna [...]; del tutto indipendente dalla Passione, che è intossicazione del Cuore, o dalla Verità, che è soddisfazione della Ragione. [...]  L'Amore, al contrario, l'Amore vero, l'Eros divino (l'Eros Uranio, per distinguerlo dalla Venere Dionea), è indiscutibilmente il tema poetico più puro e autentico».13 Peccato che egli, discostandosi dalla Tradizione, abbia separato la Verità dalla Bellezza e dall'Amore-Bene. In ciò vediamo riflessa l'incapacità di distinguere, a differenza degli scolastici, tra Verità metafisica (la Verità in Sé, assoluta e incondizionata) e verità logica: prettamente umana, condizionata da tempo, leggi, usi e costumi. Quest'ultima, sì, «non ha simpatia per il mirto».14
    Rainer Maria Rilke, nelle sue commoventi e bellissime Lettere a un giovane poeta, 15 indica nella natura, nell'infanzia e nella solitudine le fonti principali d'ispirazione. Che la natura sia fonte primaria d'ispirazione ce lo conferma la radice del termine “cultura” - colere, coltivare -, da cui proviene anche “culto”. Nella coltivazione della terra e nella contemplazione della natura ciclica si fonda la simbologia inerente l'arte e la coltura dello spirito. La natura è il Liber mundi, la dispiegata testimonianza dell'Intelligenza suprema; credere che si possa vivere e creare prescindendo da essa, o vedendola come un oggetto esterno a sé da controllare e sfruttare, significa votarsi all'inaridimento e all'autodistruzione. Non deve dunque stupire lo sperimentalismo sterile in cui molti “artisti” si cimentano; essi riflettono la temperie del mondo alienato ed astratto, dedito al servizio delle macchine, al quale appartengono.
   Si comprenderà a questo punto come una «Rivolta contro il mondo moderno»16 si imponga quale conditio sine qua non  per esser vivi e realizzare pienamente la propria umanità. Tolkien, uno tra gli ultimi grandi bardi d'Occidente, a chi lo accusava d'essersi estraniato dalla “realtà”, rifugiandosi in saghe e miti ispirantisi a princìpi mille miglia lontani dalla paccottiglia di pseudo-valori dell'emancipata modernità, rispondeva che la “fuga” del prigioniero non solo è legittima, ma anche auspicabile ed onorevole. 
   Chi scrive - passato dalla “contestazione” hippie 17 alla Tradizione perenne, dimora immutabile - ritiene che l'unica ispirazione degna d'essere considerata sia quella proveniente dall'entusiasmo: stato in cui, tacitato o trasfigurato il pretenzioso brusio prosaico, dagli ottenebrati chiamano “vita”, l'uomo scopre al fondo di sé (én) il Dio-Spirito-Soffio (theós)  o il Deus- Deva -Luce-Suono.
   L'ispirazione, nel senso eminente che abbiamo tentato di tratteggiare, è pertanto frutto di un eccesso di amore, se per amore si intende una qualità consustanziale all'Io Sono assoluto, l'Atman-Brahman  degli Hindu. «Il santo Spirito Amore Divino, il quale spirò Diotima, ci allumini la Mente, e accenda la volontà in modo che amiamo lui in tutte le sue opere belle: e poi amiamo le opere sue in lui: e infinitamente godiamo la infinita sua Bellezza».18 Così scrive Marsilio Ficino in una lettera a Bernardo Del Nero. Ecco le parole di un vero entusiasta!
   Harold Bloom, nel Canone Occidentale, ritiene «[...] che l'io, nella sua aspirazione a essere libero e solitario, in fin dei conti legga con un unico scopo: trovarsi faccia a faccia con la grandezza, un confronto che punto o poco maschera il desiderio di unirsi alla grandezza, che è il fondamento di quell'esperienza estetica che un tempo veniva chiamata il Sublime: la cerca di una trascendenza dei limiti».19 Chissà se il professor Bloom si sarà reso conto di aver descritto l'augusta figura di uno yogin-lettore? E non solo, ma anche di aver indicato il succo dell'unica conoscenza che non lasci il cuore vuoto: quella per identità?
   Quale magnifica visione ci schiude dinnazi l'ispirazione: apprezzare la grandezza nei poeti-testimoni della Bellezza eterna equivale ad imparare a riconoscere quella stessa grandezza in noi. Tale apprendimento implica, come si è già detto, un rigoroso processo di purificazione al termine del quale: «[...] se tu sei diventato completamente una luce vera, non una luce di grandezza o di forma misurabile che può diminuire o aumentare indefinitamente, ma una luce del tutto senza misura, perché superiore a ogni misura e a ogni qualità; se ti vedi in questo modo, tu sei diventato ormai una potenza veggente e puoi confidare in te stesso. Anche rimanendo quaggiù tu sei salito né più hai bisogno di chi ti guidi; fissa lo sguardo e guarda: questo soltanto è l'occhio che vede la grande bellezza».20

 

Note

1) Dizionario dell'Induismo, a c. di Margaret e James Stutley, Ubaldini ed., Roma 1980, p. 140.
2) M. Schneider, Il significato della musica, Rusconi, Mi 1970, p. 35.
3) Upanishad antiche e medie, a c. di Pio Filippani-Ronconi, Boringhieri, To 1985.
4) «Citato in Kaly…na Shiva anka », in Miti e Dèi dell'India di Alain Daniélou, red ed., Como 1996, p. 231.
5) Platone, La Repubblica, B.U.R., Mi 1990, Libro III, 435.
6) A.K. Coomaraswamy, La trasfigurazione della natura nell'arte, Rusconi, Mi 1976, p. 19.
7) Da Cosa si intende per arte, in Vidya, settembre 1997, ed. Asram Vidya, Roma, p. 17.
8) Poiesis, quadrim. di letteratura, ediz. Scettro del Re, Roma 1997.
9) È opportuno precisare, per non cadere in superficiali generalizzazioni, che anche oggi non mancano poeti celebri attingenti ad un'alta ispirazione. Basti per tutti l'esempio di Mario Luzi, il quale dovrebbe sentirsi onorato, in tempi di dittatura del brutto, di non aver ricevuto il Premio Nobel.
10) In Il Corriere della Sera, 29.10.96.
11) «Per secoli abbiamo imposto le nostre ricette di “salvezza” prima, poi di “progresso”, “civiltà” e “liberazione”, accusando chi non aveva la nostra stessa visione del mondo di essere “primitivo”. Per imporle abbiamo usato, di volta in volta, alabarde e archibugi, cannoni e cariche di cavalleria, i Kalashnikov e l'istruzione obbligatoria. Ma quella che non è mai stata cambiata è l'accusa con la quale i bianchi d'Europa e d'America hanno giustificato e giustificano il loro agire: l'“inciviltà” altrui». Mario Polia, Il sangue del condor, Xenia, Mi 1997, p. 224. «Noi occidentali - dice H. Zimmer, in Miti e simboli dell’India, op. cit., p. 28 - d'altra parte consideriamo la storia del mondo come una biografia dell'umanità, e soprattutto dell'Uomo Occidentale, che riteniamo essere il membro più importante della famiglia. [...] Noi non vogliamo che le nostre istituzioni umane siano il coronamento del gioco universale della natura, bensì confrontarci, contrapporci a questo gioco, con egocentrica tenacia».
12) Nell'Uttar-Pradesh «[...] la mortalità delle donne partorienti raggiunge la spaventosa cifra di 1.120 ogni 100.000, ovvero più del doppio della percentuale nazionale. È evidente che simili dati, paragonabili a quelli dei paesi del Sahel, sono connessi al bassissimo livello di alfabetizzazione (il 41% della popolazione, solo il 26% delle donne) e allo scarso ricorso alla contraccezione», da La diseguaglianza, fragile cemento dell'Unione indiana, di Claire Brisset. Abbiamo qui un chiaro esempio di come un occidentale, anche “colto”, non sia nemmeno più in grado di immaginare l'esistenza di una cultura e di una società fondate su valori diversi dai propri. Sulla questione dell'alfabetizzazione, si consiglia la lettura del saggio  L'illusione dell'alfabetismo, in Sapienza orientale e cultura occidentale, di A.K.Coomaraswamy, Rusconi, Mi 1975.
13) Edgar Alla Poe, Filosofia della composizione e altri saggi, Guida ed., Na 1986, pp. 130, 131.
14) Ibidem, p. 114.
15) «Entrate in voi stesso, cercate il bisogno che vi fa scrivere: esaminate se trae le sue origini dal profondo del vostro cuore.[...] Allora avvicinatevi alla natura. Provate a dire, come se foste il primo uomo, quello che vedete, quello che vivete, amate, perdete. [...] Perfino se voi foste dentro una prigione le cui mura soffocassero tutti i rumori del mondo, non vi resterebbe sempre la vostra infanzia, questa preziosa, questa regale ricchezza, questo tesoro dei ricordi?». «Una sola cosa è necessaria: la solitudine. La grande solitudine interiore. Andare con se stessi, e per delle ore, non incontrare nessuno, è a questo che bisogna giungere». Ed. La Locusta, Vicenza 1979, pp. 10, 11, 12, 39, 40.
16) Ci si riferisce ovviamente all'omonimo titolo di una tra le più importanti opere di Julius Evola (ed. Mediterranee, Roma 1993), fondamentale per comprendere quanto l'uomo moderno - riflettente l'aspetto tamasico di Rudra-Siva, il Distruttore - si sia allontanato dalla Norma-Dharma.
17) Il nocciolo della contestazione hippie non fu di natura politica (nell'accezione corrente) o vagamente spiritualistica come i mass media  insistentemente vogliono far credere, bensì indirizzato a smascherare, innanzitutto in se stessi, l'ipocrisia pseudo-tradizionalista. Agli occhi disattenti ed ottenebrati dei più, i pochissimi che, nel mondo occidentale, risposero all'appello dello Spirito non vennero distinti dalle folle di giovani con scarsa o punta consapevolezza che in quegli anni scesero nelle strade e nelle piazze. Sta di fatto che gli hippie (ammesso che sia possibile chiamarli così) non erano minimamente interessati né alla politica di stampo comunista, né a quella democratico-cristiana o di destra. Essi cercavano la quiete e la bellezza della natura, usavano le sostanze psicotrope e le siddhi che dall’uso di queste derivavano (cfr. Yoga-sutra di Patanjali, IV, 1) come mezzi di conoscenza, rifuggivano dalla morfina e dall'eroina, andavano in India a piedi scalzi affidandosi alla provvidenza dell'Intelligenza sovrasensibile, si sbarazzavano del passaporto e del denaro, rigettando lucidamente la propria identità sociale, pseudo-religiosa e pseudo-culturale, sentita come falsa, leggevano i testi sacri delle varie Tradizioni, riflettevano in termini metafisici e si associavano ai sadhu, ai santi e ai saggi. Furono gli ultimi a poter pecorrere la via dell'Oriente in libertà. I popoli islamici li guardavano con simpatia, intravvedendo in essi consonanze con la “follia” sufica. L'India del Sanatana-dharma li accettò; Siva li prese sotto la propria protezione. Ad alcuni fu dato di abbattere il muro della «descrizione del mondo» e di risvegliarsi alla propria sostanziale identità con la Realtà immutabile. Questi ultimi ora vivono nel mondo, silenziosi e invisibili, e talvolta agiscono in unità col Tao, senza muovere un dito.
18) Marsilio Ficino, L'essenza dell'Amore, Atanor, Roma 1982, p. 14.
19) Harold Bloom, Il Canone Occidentale, R.C.S., Mi 1996, p. 465.
20) Plotino, Enneadi  (I, 9), a c. di G. Faggin, Rusconi, Mi 1992.