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Obama e l'Islam: una svolta?

di Franco Cardini - 02/02/2009


 

Che si chiami Barack, “Benedetto”, può aver certo un significato, quanto meno augurale. Qualcuno ha osservato – i superpessimisti non mancano mai – che il presidente Obama, in quanto ex-musulmano convertito al cristianesimo, per i suoi antichi compagni di fede è un apostata e che quindi, almeno ai sensi stretti della shar’ia, un meritevole di morte, punto e basta. Ma le cose non sono affatto così chiare e rigide, nella realtà: l’Islam è immenso e non ha alcun centro disciplinare, in realtà di Islam ce en sono molti (a parte la distinzione in sunniti, sciiti e kharigiti) e la storia è piena di ex-musulmani che, a livello politico, diplomatico  e culturale sono rimasti in strettissimo e cordiale rapporto con i loro antichi correligionari: pensiamo a quel principe marocchino che nella prima metà del Novecento si fece frate francescano col nome di Jean-Muhammad e consacrò la sua vita all’intesa tra le due grandi religioni.

     Per la verità, già dalla campagna elettorale si era capito che un’aria nuova avrebbe circolato alla Casa Bianca, se Barack Hussein Obama vi fosse entrato, a proposito dei musulmani,. E che durante il suo discorso d’insediamento il Presidente abbia parlato degli States come d’una nazione composta di credenti di varie fedi, citando esplicitamente i musulmani, ha davvero fatto colpo: e non solo in America.

     Ora, l’intervista concessa da Obama ad al-Arabiya (un’emittente autorevole, ma che non si può dire avesse esattamente buoni rapporti con la presidenza Bush) e dal Dubai trasmessa in tutto il mondo, musulmano e no, segna senza dubbio un punto fermo, un giro di boa. E’ ovvio che qualche voce (specie quella, interessata, di quanti non vogliono la pace: e ce ne sono, e non solo nell’Islam...)  si sia levata a preconizzare un nuovo fallimento di questa “mano tesa” o a denunziarne l’esclusivo carattere propagandistico e strumentale. Non sono da sottovalutare queste opinioni “fuori dal coro”: anzi, alcune di esse sono allarmanti perchè sintomo della ferma volontà di fare qualunque cosa pur di arrestare quel che potrebb’essere sul serio un “nuovo corso”. E purtroppo non sarebbe poi così difficile. In genere, ad esempio, i circoli terroristici ricorrono per ottenere tale scopo a nuove ondate d’attentati;  ed è difficile in casi del genere mantenere la calma, respingere le provocazioni, identificare e isolare i provocatori. I quali del resto allignano all’interno degli estremisti di tutte le parti in conflitto. Nei prossimi mesi saranno quindi necessarie al massima sorveglianza e la massima lucidità nel giudicare gli eventi. Questo è forse, oggi, il pericolo maggiore.

     Il segnale che viene dal Dubai è comunque estremamente positivo. anche perché a lanciarlo è un personaggio che, qualunque sia oggi la sue fede religiosa e il suo autentico profondo sentire, conosce l’Islam ed è al corrente dei suoi molteplici volti: da quello centroafricano delle sue origini a quello indonesiano con il quale ha avuto una discreta esperienza diretta. E’ importante che Obama abbia ringraziato il sovrano saudita  Adballah il cui progetto per la soluzione del problema israelo-palestinese non era stato troppo preso sul serio da Bush; è importante che abbia ribadito i vecchi e consolidati legami d’amicizia con i governi arabi che noi siamo abituati a definir “moderati” (al di là delle loro istituzioni interne), cioè i cosiddetti emirati, la Giordania, la Siria, i paesi nordafricani in generale. Ma è cosa del massimo rilievo che egli abbia  con lucidità e senza reticenze ricordato che i nodi da sciogliere, nei confronti del mondo  musulmano nel suo complesso, riguardano non solo la faccenda israelo-palestinese-libanese-siriana (da trattare come una realtà complessiva, per quanto ricca di articolazioni interne), ma anche il problema dei rapporti con l’Iran e il garbuglio davvero esplosivo afghano-pakistano. Ed è altresì importante che, a proposito dell’Iraq, durante l’intervista ad al-Arabiya il Presidente abbia ribadito la volontà ufficialmente e formalmente espressa  nel discorso d’insediamento: ritiro delle truppe statunitensi e di quella che eufemisticamente viene chiamata “la coalizione” degli occupanti e “restituzione dell’Iraq al suo popolo”. Proprio così: parole sue, del discorso di Washington. Parole che sottintendono l’ammissione coraggiosa e irrevocabile del fatto che quella del 2003 fu un’aggressione  seguita da un’occupazione: altro che esportazione della democrazia.

     Sull’Afghanistan, per ora la posizione del nuovo Presidente appare ferma: proseguire l’azione avviata nell’autunno del 2001 con l’appoggio non dell’ONU, bensì della NATO. I non disinteressati fautori della tesi della continuità Bush-Obama  si sono (anche da noi in Italia) affrettati ad allinearsi con soddisfazione. Io sarei stato, al posto loro, più prudente. L’avventura afghana ha avuto, come immediato effetto, la destabilizzazione del vicino Pakistan; in sette anni il governo di Karzai non è riuscito a consolidarsi, molte aree sono tornate sotto il controllo dei talibani o di forze analoghe, il resto è parcellizzato tra gruppi tribali e “signori della guerra”. Anche qui, il fallimento di Bush è stato evidente: davvero Obama vuol proseguire su quella linea fallimentare? Davvero vuol continuar a prestar unilaterale ascolto alle lobbies dei petrolieri e a quelle militar-industriali?

     Per il Vicino Oriente, il problema passa essenzialmente attraverso i nodi della sicurezza d’Israele e della soluzione del problema palestinese. Sono due facce della stessa medaglia: Israele no sarà mai sicura finché i tre milioni e mezzo di palestinesi non avranno trovato una loro stabile, definitiva e possibilmente equa sistemazione: ma lo stato ebraico è in grado di diventare fino alle sue estreme conseguenze uno stato democratico, accordando pieni diritti agli “arabo-israeliani” e collaborando sul serio alla creazione di quello stato palestinese che avrebbe dovuto nascere già da quarantadue anni? Sta pericolosamente crescendo, nell’opinione pubblica israeliana, la tesi secondo al quale due stati, al di qua del Giordano, non potranno mai convivere. E’ questo il nodo da sciogliere, se non vogliamo (e spero che nessuno lo voglia) consegnare del tutto l’opinione pubblica palestinese ad Hamas.  Perché una cosa dev’essere chiara: dopo la mattanza di Gaza e il quasi silenzio di Abu Mazen, il suo prestigio presso i suoi stessi sostenitori è sceso ai minimi storici. Se l’Occidente lo indica a interlocutore privilegiato, stiamo freschi. Se non si abbandona la linea del sistematico disconoscimento di forze come Hamas ed Hezbollah finora riduttivamente considerate solo “terroristiche” e si accetta realisticamente il fatto che esse rappresentano oggi, lo si voglia o no, buona  parte dell’opinione pubblica di palestinesi e  libanesi (cristiani compresi), non si va da nessuna parte.  La realtà è questa. O si preferisce, dopo la scellerata qualifica di rough states anacondendosi dietro la quale il nefasto mister Bush si rifiutava pregiudizialmente di trattare con alcuni governi, coniare anche l’etichetta di rough peoples per tutti i popoli che, delusi e abbandonati dalla politica occidentale, per disperazione si buttano tra le braccia degli estremsiti? Perché anche questa è una battaglia da combattere: e si spera che non solo Obama, ma anche i suoi consiglieri politici e i suoi più sicuri alleati vicino-orientali se ne rendano conto.

     Ed eccoci al nodo davvero definitivo: la Siria e l’Iran. Che sul piano diplomatico la loro alleanza vada disarticolata come premessa a una stessa seria ed efficace lotta al terrorismo, è ovvio. Il modo migliore per farlo, sarebbe  ad esempio avviare di nuovo, anche a livello internazionale, le trattative per risolvere la faccenda del Golan. E’ davvero irremovibile il dogma strategico-geopolitico attualmente sostenuto dalla dirigenza israeliana, che cioè quell’area debba continuar a restare occupata? Non c’è dubio che, sa Parigi valeva bene una messa, il Golan varrebbe altrettanto bene un allontanamento qualificante di Damasco da Teheran: con un vantaggio per la sicurezza di tutti, Israele compresa, perché è quella una delle causa dell’appoggio della Siria ai gruppi terroristi.

     Infine, l’Iran. Qui bisogna stare molto attenti. Obama ha dato sostanziali e decisi cenni di simpatia nei confronti dell’Islam sunnita. E’ un gran passo avanti, certo: a patto che esso non si risolva in un’ulteriore e più dura chiusura non tanto antisciita (il problema non è certo teologico-religioso), cioè antiraniana. Non è un mistero per nessuno che i rapporti tra Teheran e Riad ed emirati vicini alla potenza saudita  sono pessimi. La politica della “mano tesa” all’Islam partirebbe col piede sbagliato se mirasse unilateralmente a isolare l’Iran. Valgano al riguardo due considerazioni. Primo: il potere e il consenso di Ahmedinejad  non sono così forti e stabili, e male in passato la politica statunitense fece a sabotare praticamente un personaggio come Khatami, ma un “khomeinismo moderato” esiste e bisogna guardar ad esso con maggior attenzione. Secondo: fermo restando il trattato di non-proliferazione, che è un mostro giuridico ma forse un’esigenza politica,  l’avversione pregiudiziale al diritto del popolo iraniano di dotarsi di un nucleare civile è obiettivamente iniqua (gli statunitensi stanno appoggiando lo sviluppo nucleare di paesi come l’Albania!) e le possibilità di evitare attraverso un efficace controllo internazionale che esso si trasformi in nucleare militare possibile. Da notare che, così facendo, si stabilisce comunque che l’Iran  dovrà restar inerme tra potenze che il nucleare invece ce l’hanno, come Israele, il Pakistan, l’India e perfino qualche repubblica centroasiatica. E’ ovvio che questa è una situazione d’ingiustizia obiettiva, su cui la propaganda estremista può far leva. Riaprire il dialogo su questi temi, con rigore e prudenza ma  con minor chiusura, potrebb’essere importante.

     Infine, due note: una positiva, l’altra negativissima. Obama ha dato segno di volersi muocere sul serio sulla via del multilateralismo. Ha parlato della necessità di coinvolgere nel rinnovato rapporto con l’Islam anche la Russia: giusto e necessario, specie per le questioni centroasiatica e iraniana. L’asse d’alleanza russo-iraniano è storico, almeno da quattro secoli. Non si può prescinderne. Ma nemmeno una parola, se non ho letto male, è stata dedicata dal Presidente al ruolo dell’Europa. Inammissibile, specie per tutto il quadrante mediterraneo. Qui, il protagonismo di Sarkozy non è sufficiente. L’Unione Europea dovrebbe muoversi sul serio.  Se ne ha la forza. Se esiste. Se non è solo Eurolandia.

     Buona fortuna, Presidente Obama. E, se Lei è in buona fede e fa sul serio, stia molto attento. Ai pericoli lontani e a quelli vicini. Il cammino della pace è inviso a molti. A troppi. Si ricordi di John F. Kennedy: sia prudente, e che Dio L’aiuti.