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L'Anticristo ebreo e il misterioso «katéchon», elementi chiave dell'apocalittica cristiana

di Francesco Lamendola - 03/02/2009


666 El Anticristo by Esparta.
 

Sant'Agostino, nella sua monumentale opera «De Civitate Dei», riferisce una profezia della Sibilla Eritrea che si riferirebbe, con alcuni secoli di anticipo, alla venuta del Salvatore annunciato dai cristiani.
Ecco il passo in questione (Agostino, «La Città di Dio», a cura di C. Borgogno, Edizioni Paoline, 1951, vol. 2, pp. 344-47):

«Riferiscono alcuni che in quel medesimo tempo abbia vaticinato la Sibilla Eritrea. Varrone disse che le Sibille furono parecchie, non una sola. Questa Sibilla Eritrea scrisse delle cose molto chiare intorno a Cristo, che noi pure abbiamo letto in versi di cattiva lingua latina, mal composti, per l'imperizia di non so qual traduttore., come ho poi saputo.
Il chiarissimo Flacciano, infatti, uomo di grande eloquenza e dottrina, che era stato anche proconsole, udendoci parlare del Cristo, ci mostrò un Codice greco, affermando che erano i vaticini della Sibilla Eritrea e ci fece vedere un tratto di quel codice in cui, al principio d'ogni verso, le lettere sono disposte in modo da leggervi queste parole: 'Ιησοΰς Χριστòς Θεοΰ ύιòς σωτήρ che significa: Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore. (…)
Questa Sibilla Eritrea, o come i più credono, Cumana, in tutto il suo carme, di cui questa è una minima parte, non ha niente che si riferisca al culto degli dei falsi o degli dei creati: anzi parla tanto contro di essi e contro i loro adoratori, che pare si debba mettere nel numero di coloro che appartengono alla Città di Dio.
Anche Lattanzio nella sua pera inserisce alcuni vaticini della Sibilla sebbene non dica quale, intorno a Cristo…»

Questa, dunque, la profezia della Sibilla Eritrea; profezia dalla dubbia interpretazione, come lo stesso Agostino avverte: perché, non esistendo in latino una lettera corrispondente alla Y greca, l'inizio di ben tre versi del carme (il quinto, il diciottesimo e il diciannovesimo) risulta intraducibile.

«Perciò - dice Agostino - se unendo le lettere iniziali di ogni verso, non leggiamo quelle di questi tre versi, ma in loro luogo consideriamo la lettera Y come se fosse stata realmente posta, con cinque parole si dice: Jesus Christus Dei Filius Salvator, Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore, ma questo si esprime nella lingua greca, non nella latina.»

Sia come sia, questa profezia ha costituito la base per una caratteristica credenza dell'escatologia cristiana medievale, intrecciatasi e sovrappostasi a una produzione ebraica di vaticini sibillini di presunta origine pagana. Naturalmente i rabbini ebrei cercavano di fondare tali testi e tali interpretazioni in senso mosaico, come profezie della venuta di un Messia restauratore della passata grandezza del regno di Davide e Salomone; mentre i monaci cristiani intendevano comprovare l'annuncio della venuta di Cristo da fonti pagane (come avvenne per la famosissima IV ecloga delle «Bucoliche» di Virgilio, di cui ci siamo già occupati nel saggio «Il culto di Virgilio nel Medioevo», sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice).
Il diffondersi, nell'escatologia cristiana medievale, di profezie di origine pagana relative all'avvento del Salvatore preparò, a sua volta, il terreno per l'insorgere di una manifestazione caratteristica dell'apocalittica tardomedievale: quella relativa alla venuta dell'imperatore degli ultimi tempi e dell'Anticristo ebreo, eventi che precederanno immediatamente il definitivo ritorno di Cristo e la fine del mondo, con relativo Giudizio Finale.
Scrive Gian Luca Potestà nel suo saggio «Escatologia, apocalittica, millenarismo» (nell'opera «Il Cristianesimo: grande atlante» diretta da Giuseppe Alberigo, Milano, Garzanti, 2006; vol. 1, «Dalle origini alla Chiesa contemporanea», a cura di Roberto Rusconi, pp. 318-19):

«Nella "Città di Dio" (XVIII, 23) viene riportato un carme attribuito alla Sibilla Eritrea, la quale avrebbe profetizzato la venuta del messia molto tempo prima di Gesù. Anche grazie all'autorità di Agostino, un antico genere letterario di origine preclassica trovava dunque posto nella dottrina cristiana. Le sibille del mondo antico erano figure leggendarie di profetesse, originariamente collocate in Asia Minore. Nella Roma repubblicana e imperiale un collegio di appositi sacerdoti aveva custodito i testi sibillini, consultati per scrutare il futuro in caso di pericoli o di catastrofi. Al più tardi dal II secolo a. C. era stata avviata da ambienti ebraici la produzione di vaticini attribuiti alle sibille, nei quali si propagandavano le credenze religiose e le attese messianiche ebraiche. In ambito cristiano le predizioni vennero modificate in modo tale che alle veggenti pagane fossero attribuiti lontani preannunci dell'avvento di Gesù Cristo. Nella vasta raccolta nota come "Oracula Sibyllina" ("Oracoli Sibillini") eventi quali guerre e cataclismi naturali, conquiste, stermini e cadute di regni e imperi si trovano ricondotti entro un disegno da lungo tempo noto alle sibille, e per tramite loro comunicato agli uomini, culminante nel primo avvento di Gesù e nel suo atteso ritorno finale.
Se concentriamo il nostro sguardo sulle valenze escatologiche dei testi sibillini cristiani tardoantichi e altomedievali, ci imbattiamo immediatamente nella "Sibilla Tiburtina". Il testo originario siriaco è andato perduto. Il testo greco, databile agli inizi del VI secolo, non contiene la sezione apocalittica finale, che invece compare nelle redazioni latine, allestite con tutta probabilità in Italia meridionale tra la fine del X e i primi decenni dell'XI secolo. La sezione apocalittica attestata nelle redazioni latine della Sibilla presenta molti elementi comuni con la sezione finale delle "Revelationes" ("Rivelazioni") dello Pseudo-Metodio, testo composto in ambienti monastici siriaci intorno al 691, per rilanciare il prestigio imperiale entro territori mesopotamici da poco caduti sotto la dominazione islamica, e noto in occidente fin dal secolo VIII (le  redazioni latine di entrambi i testi ebbero notevole diffusione, come dimostra l'elevato numero di manoscritti rimasti).
Allo stato attuale, non si può affermare con certezza se la sezione apocalittica dello Pseudo-Metodio sia derivata dalla "Sibilla Tiburtina" o viceversa. In ogni caso, si deve pensare a un modello creato nei territori orientali dell'Impero in un periodo anteriore alla fine del VII secolo. Dopo aver narrato la storia del mondo, le partici conclusive di entrambi gli scritti presentano gli eventi finali attesi come imminenti, offrendo un esempio storicamente importante dei possibili utilizzi politici e propagandistici del genere apocalittico. Viene innanzi tutto previsto l'avvento di un sovrano dei romani e dei greci destinato a regnare per un tempo lunghissimo e a liberare le terre invase dagli infedeli. Durante il suo regno vi saranno ricchezza e abbondanza, i popoli nemici della fede saranno vinti e il paganesimo sarà annientato. Nel frattempo nascerà l'Anticristo, un ebreo proveniente dalla stirpe di Dan, cioè da una delle dieci tribù perdute di Israele. L'imperatore si recherà quindi a Gerusalemme pere deporvi le insegne imperiali e consegnare il suo regno a Dio. Non essendo più trattenuto da alcuna forza benefica (nella "Tiburtina" e nello Pseudo-Metodio l'imperatore dei tempi ultimi rappresenta il "katéchon" preconizzato in 2 Ts. 2), l'Anticristo  potrà allora imperversare a Gerusalemme, abbatterà il patriarca Enoch e il profeta Elia ricomparsi sulla terra per cercare di opporglisi, ma infine sarà eliminato per intervento divino.
La visione apocalittica della "Tiburtina" e dello Pseudo-Metodio fa perno su due figure fra loro contrapposte: l'imperatore dei tempi ultimi e l'Anticristo ebreo.  Nei primi secoli l'Anticristo era stato tendenzialmente identificato con Nerone o con un "Nerone redivivo" (tradizione attestata nell'apocalittica delle origini cristiane e negli "Oracula Sibyllina"  e riecheggiata fra l'altro nella stessa "Sibilla Tiburtina"). La sua provenienza dal popolo ebraico era stata prospettata da Ireneo e da Gerolamo, e proprio Ireneo aveva proposto, sul fondamento di un esile fondamento scritturistico, che egli dovesse provenire dalla discendenza di Dan. La "Tiburtina" e lo Pseudo-Metodio determinarono così la prima diffusione di due miti escatologici destinati a sopravvivere fino all'Evo moderno.
In occidente l'attesa del sovrano dei tempi finali e dell'Anticristo ebreo venne riproposta nel "De ortu et tempore Antichristi" ("Nascita e tempo dell'Anticristo"), una biografia immaginaria dell'Anticristo, composta fra il 949 e il 954 dal monaco Adsone di Montier-en-Der. Gli elementi fondamentali della leggenda siriaca permangono in forme riviste e aggiornate: in particolare: il sovrano degli ultimi tempi viene qui identificato con un re dei Franchi (non a caso l'opera si presenta come una lettera diretta a Gerberga, moglie di Luigi IV, re dei Franchi occidentali). Combinando indicazioni desunte dallo Pseudo-Metodio con altre offerte da Gerolamo, Adsone spiega che l'Anticristo sarebbe nato a Babilonia, sarebbe cresciuto a Betsaida e Corazin - le due cittadine maledette da Gesù - a avrebbe infine concluso la propria carriera a Gerusalemme, insediandosi  nel tempio ricostruito. Anche per Adsone la vicenda escatologica è destinata a compiersi a Gerusalemme, città considerata in occidente, quanto meno fino al XII secolo, come il centro del mondo, nel senso non so della storia, ma anche della geografia della salvezza.»

A questo punto, andiamo a controllare l'affermazione di san Paolo nella Seconda lettera ai Tessalonicesi (si noti, peraltro, che non tutti i filologi neotestamentari sono concordi nell'attribuzione paolina di quel testo). Ed eccone le precise parole (traduzione dalla «Bibbia di Gerusalemme», capitolo 2, versi 1-11):

«Ora vi preghiamo, fratelli, riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e alla nostra riunione con lui, di non lasciarvi così facilmente confondere e turbare, né da pretese ispirazioni, né da parole, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente. Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti dovrà avvenire l'apostasia e dovrà essere rivelato l'uomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e s'innalza s'innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio.
Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, venivo dicendo queste cose? E ora sapete ciò che impedisce la sua manifestazione, che avverrà nella sua ora. Il mistero dell'iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene. Solo allora sarà rivelato l'empio e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà all'apparire della sua venuta, l'iniquo, la cui venuta avverrà nella potenza di satana, con ogni specie di portenti, di segni e prodigi menzogneri, e con ogni sorta d empio inganno per quelli che vanno in rovina, perché non hanno accolto l'amore della verità per essere salvi. E per questo Dio invia loro una potenza d'inganno perché essi credano alla menzogna, e così siano condannati tutti quelli che non hanno creduto alla verità, ma hanno acconsentito all'iniquità.»

Si rilegga il versetto 7: «Il mistero dell'iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene».
Paolo, dunque, attribuisce il ritardo della Parusia (il ritorno definitivo di Cristo) a qualcosa o a qualcuno che "trattiene": il "katéchon", appunto; ossia una forza o una persona che impedisce la manifestazione dell'Anticristo, evento che necessariamente dovrà precedere la Parusia stessa.
D'altra parte, fin quasi dalle origini del cristianesimo e lungo tutto il Medioevo, l'escatologia era stata contraddistinta dalla convinzione (già espressa da Paolo nella «Lettera ai Romani», capitoli 9-11) che, prima della Parusia, anche gli Ebrei si sarebbero convertiti; e che il ritardo di essa fosse dovuto proprio alla loro ostinazione nel perseverare nell'errore.
Ricordiamo, per inciso, che i rapporti fra le prime comunità cristiane e le comunità ebraiche sparse nell'Impero romano non era o mai stati idilliaci: gli Ebrei consideravano i cristiani come una setta eretica e blasfema, e si adoperarono spesso per istigare le pubbliche autorità contro di essi, fin dal tempo della persecuzione di Nerone (dietro la quale c'era Poppea Sabina che, a sua volta, era vicinissima ai circoli giudaici della capitale).
Ci piace, in proposito, citare una pagina di Vittorio Messori (da: «Pensare la storia. Una lettura cattolica dell'avventura umana», Edizioni Paoline, 1992, pp. 407-08):

«…Chi conosce la storia della Chiesa primitiva sa che essa si salvò dalla distruzione da parte ebraica solo grazie alla potenza romana che imponeva la sua legge. Gli ""Atti degli Apostoli" ci testimoniano di Paolo e degli altri apostoli e discepoli più volte salvati dalle mani della Sinagoga grazie al rude intervento dell'autorità imperiale. Non si salvò Stefano, lapidato dagli ebrei con un colpo di mano, né Giacomo di Zebedeo, il fratello di Giovanni, decapitato nel 44 da Erode Agrippa esplicitamente per ingraziarsi le autorità giudaiche. Nel 61 bastò (lo racconta un giudeo come Giuseppe Flavio) che il procuratore romano Festo morisse e che il successore Albino tardasse a venire perché il Sinedrio condannasse a morte l'altro Giacomo, il "fratello" di Gesù, il primo vescovo di Gerusalemme, "e altri (cristiani) colpevoli di avere violato la Torah", dice Guseppe. Quando, 5 anni dopo, nel 66, scoppiò la prima, terribile rivolta, la comunità cristiana, privata della protezione della legge e delle armi di Roma, si salvò dall'ira ebraica soltanto fuggendo in massa in Perea, in territorio in maggioranza pagano.
Ma, nel 132, ecco la seconda rivolta, capeggiata da Simone Bar Kokheba, acclamato Messia anche dal rande rabbi Akiba. Quella volta, non ci fu tempo per fuggire, per rifugiarsi sotto l'autorità di quella Roma che nel cristianesimo primitivo assolse a un ruolo insieme di protezione  e di persecuzione. (Anche qui, verità impone di non dimenticare che alcune almeno delle persecuzioni pagane si devono alle denunce presso l'autorità romana fatte dalle autorità dell'ebraismo, allora "religio licita", riconosciuta dalle leggi dell'Impero, a differenza della "eresia dei Galilei". Per molti storici, è certo che, nel 64, Nerone dirottò sulla comunità cristiana le accuse di aver incendiato Roma - scatenando il crudele massacro - dietro consiglio di Poppea la quale, come molte matrone romane, si circondava di rabbini, probabilmente essendosi fatta "proselita", cioè convertita all'ebraismo. Del resto,  Svetonio ci informa che già verso il 50 Claudio era stato costretto a espellere da Roma "i Giudei i quali, ad impulso di Cresto, facevano frequenti tumulti". Per dirla con Max Weber, il famoso sociologo, soprattutto della religione: "Il fortissimo inasprimento delle relazioni tra giudaismo e cristianesimo è stato, nei primi secoli, provocato essenzialmente non da parte cristiana ma giudaica. Gli ebrei, in una posizione garantita verso i Romani, sfruttavano la posizione precaria dei cristiani, non protetti dai loro privilegi verso il dovere del culto all'imperatore, per mettere in movimento contro di essi la forza dello Stato. Essi furono quindi considerati dai cristiani come i primi responsabili della persecuzione").
Per tornare al 132, a quando l'ebraismo, scacciati i Romani, ritorna, per un paio di anni, padrone di Israele e si coniano addirittura monete con impresso "Anno primo dell'era messianica", abbiamo al proposito la testimonianza di Giustino, nato in Plestina, che scrive pochi anni dopo soltanto. "Bar Kokcheba - testimonia quel santo - fece subire ai cristiani, e ai cristiani solamente, gli estremi supplizi, se non rinnegavano e non bestemmiavano Gesù Cristo".
Da questo -e da molti altri inquietanti precedenti - sembra sicuro che, se con Costantino e successori, l'Impero si fosse convertito all'ebraismo e non al cristianesimo, per quest'ultimo ci sarebbero state ben poche possibilità di sopravvivere, almeno alla luce del sole…»

Ciò detto, ritorniamo alla misteriosa figura del "katéchon", di "colui che trattiene" la forza maligna dell'Anticristo e, in questo senso, ritarda la fine della storia e l'avvento definitivo di Cristo sulla Terra.
Non è qui possibile fare una esposizione, neanche in modo sommario, delle esegesi che si sono intessute attorno alla sua figura, nella teologia cristiana, nel corso dei secoli; il loro numero è così grande che sarebbe necessario compilare, come minimo, un apposito volume, solo per rendere conto delle più significative tra esse.
Carl Schmitt, in particolare, vi ha visto non già una figura individuale, ma una forza storica: quella che, volta a volta, trattiene l'umanità dal conflitto generalizzato, dallo scatenamento degli istinti di violenza di tutti contro tutti; per lui, dal XVI al XX secolo la funzione di "katéchon" è stata svolta dallo Stato (strano: la sua teoria si potrebbe rovesciare come un guanto e vedere nello Stato la più virulenta forza distruttrice della storia, autentico Anticristo della modernità).
Ma, per tornare ai nostri giorni, il concetto del "katéchon", di colui che trattiene le forze della distruzione, è stato trattato da Maurizio Blondet nel suo libro ormai famoso «Gli Adelphi della dissoluzione. Strategie culturali del potere iniziatico» (Milano, Edizioni Ares, 1994). Questi sostiene che al filosofo Massimo Cacciari, nel corso di una intervista nella sua casa veneziana, nel settembre del 1993, sarebbe sfuggita una frase enigmatica, di cui era sembrato subito pentirsi: «Il papa deve smettere di fare il katéchon!».
C'è qualcuno, oggi, che vorrebbe eliminare la presenza del "katéchon", per aprire le porte alla grande distruzione degli ultimi tempi, per spianare la strada all'Anticristo? Esistono, nell'ombra, delle forze potenti - finanziarie, politiche, culturali - interessate a sbarazzarsi dello sforzo di "colui che trattiene", ad aprire le porte al Male?
Parlare di simili cose, ormai, è divenuto pericoloso per gli studiosi amanti del quieto vivere, della pubblicità, dell'accesso ai grandi mezzi d'informazione. Il pericolo è quello di vedersi bollati di oscurantismo "medievale", di alimentare la psicosi di un "complottismo" internazionale tanto minaccioso, quanto vago e privo di riscontri documentabili.
Maurizio Blondet, che non ha mostrato un timore di questo genere, è stato di fatto estromesso dal salotto buono della cultura italiana (con la scusa che è «un fascista»: apostrofe che ormai non significa più nulla, nel gran mare del conformismo politicamente corretto); e non sono in molti quelli che hanno voglia di mettersi sulla sua stessa strada.
Gli intellettuali italiani sono i più liberi e coraggiosi del mondo, finché si resta nel campo delle parole; ma, non appena fiutano nell'aria il concreto pericolo di perdere le loro prebende  e le loro pingui rendite, diventano di colpo prudentissimi e abbottonatissimi: il tutto dietro lo scudo  ipocrita della serietà professionale. Secondo loro, non sarebbe serio perder tempo con teorie, campate per aria, d'improbabili complotti; né sollevare scomodi interrogativi circa gli odierni poteri occulti, se non si hanno in mano prove lampanti di quanto si afferma.
Già, prove lampanti: niente di più facile.
Ma il vero motivo di tanta preoccupazione per la "serietà"  scientifica" non sarà, per caso, un altro: e cioè che molti di lorsignori sono, appunto, iscritti nel libro paga di quei poteri occulti, dei quali vorrebbero persuaderci che non esiste traccia?
Gira e rigira, torna sempre alla mente la frase di Baudelaire: «Il diavolo non è mai così contento  come quando si nega la sua esistenza».