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Catastrofe senza catarsi

di Luciano Fuschini - 04/02/2009

    

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Nella fase decadente delle società, l’individuo prevale sulla comunità, il significato della vita viene posto nella ricerca della felicità personale e nel conseguimento del piacere, si presta sempre più attenzione alla cura del corpo; la generale indisciplina provoca una pletora di regolamenti, sempre più inutili e sempre meno osservati; non ci sono più fedi forti, bensì un diffuso scetticismo fra i ceti più colti e un ritorno a superstizioni e settarismi fra il popolino; tutti i legami sociali, compreso il più basilare, quello familiare, si allentano; le donne si mascolizzano e gli uomini si deresponsabilizzano, in una crescente confusione di ruoli; la mentalità che giustifica la ricerca del piacere come obiettivo primario della vita favorisce la diffusione di pratiche sessuali sempre più devianti, fino alla perversione; nel relativismo dilagante si perde il senso del confine netto fra ciò che è bene e ciò che è male, per cui quasi tutto finisce con l’essere prima tollerato, poi permesso, infine accolto con una sorta di compiacimento; anche nelle arti e nella letteratura si perde il senso delle regole e delle distinzioni dei generi: tutto gode della stessa considerazione, purché risponda alla legge del profitto e procuri piacere; in un clima di falsa tolleranza, che è in realtà indifferenza a ciò che non comporti un utile immediato, si può dire tutto perché nulla abbia più valore.
Quando una società è giunta all’estremo della decadenza, una crisi disastrosa fa sì che vengano recuperati i valori profondi, i miti fondanti su cui si costruì quella comunità, o si assumono più forti valori, introdotti da altri popoli. Ritorna così una fase eroica, piena di vitalità, di grandi speranze e di slanci: il ciclo riprende. In genere questo succede attraverso il trauma di una rivoluzione sociale, quando i comportamenti della classe dirigente sono in contraddizione troppo aperta con gli ideali che propugna e col ruolo che le è attribuito, perdendo ogni prestigio davanti a quella parte della società non ancora contaminata dalla decadenza dei costumi, oppure attraverso la sconfitta in una guerra con un popolo più vigoroso e aggressivo, non ancora infiacchito dalla degenerazione.
Ebbene, non c’è alcun dubbio che quel mondo che si usa definire occidentale e che oggi pretende di esportare il suo modello in tutto il globo, col suo cinema, le sue mode, la sua musica, il suo ricatto finanziario e i suoi bombardieri, vive la sua fase di decadenza estrema, quella decadenza che prelude al crollo e alla rigenerazione. Ma c’è una grande novità: i meccanismi tradizionali attraverso i quali maturano le crisi delle società decadenti e si recuperano valori più sani, non funzionano più. Questa è la vera tragedia dell’Occidente: essere condannato a una lunghissima agonia, catastrofe senza catarsi.
Oggi non è più possibile una grande rivoluzione sociale in Occidente perché lo sfruttamento sistematico delle risorse del resto dell’umanità ha permesso un altissimo tenore di vita non solo all’élite dirigente ma anche alla maggioranza della popolazione, la minoranza di esclusi non avendo la forza né la volontà di rovesciare la situazione, anche perché le opportunità di mobilità sociale vantate dal sistema, magari attraverso la vincita  a una qualche lotteria, sono una delle tante illusioni che inibiscono le velleità di una qualche ribellione; e, oltre a ciò, le dinamiche demografiche, riducendo la percentuale dei giovani rispetto a quella delle persone mature o anziane, riducono il peso delle generazioni più inquiete e più disposte ai cambiamenti, generazioni del resto a loro volta infiacchite dai costumi degradati e dalla droga.
D’altra parte non c’è neppure più la possibilità di una rigenerazione attraverso il trauma di una guerra perduta, perché l’odierna guerra supertecnologica, combattuta dall’alto dei cieli e da un corpo ristretto di specialisti attrezzatissimi, permette di sconfiggere anche popoli più vigorosi e coraggiosi.
Così abbiamo un mondo in cui il trenta per cento dell’umanità vive in uno spreco di risorse mai visto prima, mentre il settanta per cento si trova in condizioni miserabili. I ritmi di vita e la competizione esasperata di tutti contro tutti, la perdita di radici e lo smarrimento del senso del vivere civile, inducono però alla disperazione anche quel trenta per cento che si crede felice. La generalizzazione del modello occidentale, che è poi quello della modernità capitalista senza più alternative, ha creato un settanta per cento di derelitti e un trenta per cento che per non suicidarsi, per sopportare questa vita, deve impasticcarsi di psico-farmaci, droga legalizzata, forse l’emblema più significativo di questo sistema che pretende di imporsi come il migliore. Ecco la grande tragedia della nostra epoca: una lunghissima decadenza senza possibile alternativa. Non è un’alternativa il movimento che, con un’espressione estremamente infelice, è stato definito no-global: Ethos contro kratos è sempre perdente; il cosiddetto terrorismo, poi, non è altro che il frutto di una delirante disperazione, dettata dall’impotenza, la cui pericolosità è stata ingigantita e strumentalizzata dal potere anglo-americano per estendere e approfondire il suo dominio.
Così siamo condannati a una decadenza lunghissima che finisce in putrefazione.
I segni sono evidenti ovunque, sono nella cronaca quotidiana, irrompono nella nostra vita, anche nei suoi aspetti apparentemente banali. Negarli o ignorarli significa voler essere ciechi e sordi.