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Ci sono troppe cose che non quadrano nel racconto biblico dell'Esodo

di Francesco Lamendola - 04/02/2009

 


C'è poco da fare: qualche cosa non torna nel racconto biblico della schiavitù del popolo di Israele in terra d'Egitto, della sua fuga e della migrazione attraverso il deserto, del suo arrivo nella terra di Canaan e, infine, della conquista di quest'ultima, a cominciare dalla presa di Gerico al suono delle trombe che ne avrebbero sbriciolato le mura.
Non si tratta di particolari. Il problema non riguarda il fatto che esistono delle incertezze circa i tempi e i modi di tali eventi, ma coinvolge tali eventi nella loro globalità.
Tanto per cominciare, noi non sappiamo quando si sarebbero svolti. Non è che ignoriamo il momento preciso: ignoriamo tutto; ignoriamo i nomi dei faraoni che vi sarebbero stati coinvolti; ignoriamo il secolo in cui si sarebbero svolti; ignoriamo perfino se davvero vi era un popolo ebreo in Egitto, e, a maggior ragione, se esso vi fosse tenuto in condizioni di schiavitù.
Tutte queste cose le racconta il Pentateuco, ossia l'insieme dei primi cinque libri dell'Antico Testamento: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio. Questi scritti vennero compilati molti secoli (secoli, non anni o decenni) dopo i presunti avvenimenti, che si possono collocare, forse (ma la cosa è dubbia, e oggetto di interminabili discussioni), attorno al XIII secolo avanti Cristo.
Il fatto è che nessuna fonte egiziana, nessuna fonte extrabiblica vi accenna minimamente, nemmeno di sfuggita; silenzio assoluto.
La cosa è strana, comunque la si voglia considerare.
Si dirà che, per un'epoca storica così remota, non è affatto insolito dover ricostruire una determinata vicenda sulla base di un'unica fonte. È vero: ma qui non si parla di un evento trascurabile. Anche a non voler prendere per buono il numero degli Ebrei che, secondo la Bibbia, avrebbero lasciato l'Egitto sotto la guida di Mosè (603.350 secondo il Libro dei Numeri, capitolo 2, versetto 34), e ammettendo che la cifra reale fosse enormemente più modesta, resta il fatto che qui si parla di un popolo intero: uomini, donne e bambini, con tutti i loro beni e il loro bestiame.
Ora, lo Stato egiziano era - per l'epoca - un autentico prodigio di organizzazione, di efficienza, di precisione: la sua amministrazione registrava tutto, prendeva nota di ogni cosa avesse una sia pur piccola rilevanza nella vita del regno. Eppure, della partenza di un intero popolo straniero che sarebbe stato tenuto in servitù, nessuno scriba, nessun papiro, nessuna iscrizione hanno conservato memoria.
Non sappiamo affatto chi furono i faraoni coinvolti in una tale vicenda: alcuni studiosi hanno pensato a Ramsete II, che combatté duramente contro gli Ittiti; altri al famoso Amenofis IV, autore del velleitario tentativo di introdurre in Egitto un monoteismo solare (tanto è vero che alcuni hanno immaginato un collegamento tra il monoteismo di quel Faraone e quello predicato da Mosè); ed altri hanno pensato a ulteriori possibilità, come il Faraone Merneptah. Ma la verità è che non sappiamo niente di niente: se non che, presso il delta del Nilo, nel Basso Egitto, dovevano essersi stabilite delle popolazioni semite di varia provenienza, praticamente indistinguibili le une dalle altre e, comunque, nessuna delle quali identificabile con Israele.
Le modalità dell'Esodo sono altrettanto misteriose. Tutto quel che sappiamo è che la Penisola del Sinai, attraverso la quale si sarebbe svolta la migrazione, era ed è un deserto tremendamente inospitale, che nessun gruppo umano - e men che meno un gruppo piuttosto consistente - poteva o potrebbe attraversare a piedi, dimorandovi per quattro decenni, per l'assoluta impossibilità di rifornirsi di cibo e, più ancora, di acqua.
Pertanto, alla luce della evidenza geografica, non vi fu alcun passaggio del Mar Rosso (che giace molto più a sud del Delta del Nilo); nessuna peregrinazione nel deserto, con o senza manna, con o senza sorgenti che scaturiscono dalla roccia (come narra il racconto biblico).
Ma c'è di più. Noi non sappiamo affatto chi fosse, realmente, il personaggio chiamato Mosè: nessuna fonte antica ne parla, all'infuori del Deuteronomio. E non basta: non sappiamo nemmeno se fu lui a introdurre presso i suoi seguaci il culto di Yahwehh, o se non fece altro che rafforzare e istituzionalizzare un culto preesistente; e, se fu lui a introdurlo, da dove lo avesse, a sua volta, acquisito. In altre parole, non sappiamo se gli Ebrei fossero, o no, monoteisti prima della partenza dall'Egitto (ammesso che tale partenza vi sia stata; e che, anzi, vi sia stato un soggiorno in Egitto sotto forma di schiavitù). La Bibbia, che è la nostra unica fonte in proposito, non lo lascia capire in maniera chiara e incontrovertibile.
Le carovane che volevano passare dall'Egitto in Palestina, e viceversa, si servivano della pista costiera, che correva lungo il Mediterraneo e collegava Pelusio a Rafia. Non c'erano altre vie per traversare il deserto, e anche quella era piuttosto difficile, sempre per l'assoluta mancanza d'acqua, per cui bisognava farne buona provvista prima di intraprendere il viaggio. E quell'unica strada era, ovviamente, presidiata dalle guarnigioni egizie che vigilavano alla frontiera: quella era la porta d'accesso al loro Paese, e dalla sua difesa dipendeva la sicurezza contro possibili invasioni di origine asiatica.
Ma, ripetiamo, nessun documento egiziano parla dell'esodo degli Ebrei dall'Egitto: che è come dire che le guarnigioni militari dislocate lungo la costa del Mediterraneo non videro nulla d'insolito, assolutamente nulla.
Anche per l'arrivo degli Israeliti nella cosiddetta Terra Promessa (promessa loro da Yahweh) esistono molti più interrogativi di quante siano le risposte che siamo in gradi di fornire. Gli studi archeologici sembrano portare ad escludere che Gerico poté essere l'obiettivo iniziale della conquista; anzi, per dirla tutta, molti studiosi pensano che non vi sia stata alcuna conquista, ma solo una graduale e pacifica infiltrazione degli Ebrei in Palestina, in mezzo alle popolazioni ivi preesistenti: Cananei, Filistei, nonché quelle delle regioni limitrofe, come gli Amorrei, gli Amaleciti, eccetera.
Davanti al silenzio assordante di tutte le fonti extra-bibliche circa quegli avvenimenti, molti studiosi della scuola, chiamiamola, così, tradizionale, hanno argomentato che una tradizione come quella dell'esodo non può sorgere dal nulla, tanto più che si tratta non di un'epopea vittoriosa, ma della rievocazione di una vergognosa schiavitù in terra straniera. Nessun popolo, essi dicono ragionando per assurdo, si inventerebbe un passato del genere: dunque, il racconto del Pentateuco circa la schiavitù e circa l'esodo deve ritenersi veritiero.
Chi ragiona così, per quanto possa essere un esperto conoscitore della lingua e della cultura ebraica, si lascia sfuggire il punto essenziale della questione: e cioè che gli Ebrei non ragionavano come i Greci o come gli altri popoli a noi noti dell'antichità classica, o quali fondavano il proprio "ethos" nazionale su imprese eroiche e vittoriose dei loro progenitori (sul tipo di quelle che possiamo leggere nell'Iliade o nell'Eneide).
Gli Ebrei erano un popolo teocratico: un popolo-religione; dunque, per essi, non avrebbe avuto alcun senso glorificare la propria potenza politica e militare, almeno fino a che non si erano ben radicati nel culto di Yahweh (altro discorso va fatto per l'epoca più tarda, culminante nei regni di Davide e Salomone). Al contrario, essi intendevano glorificare non se stessi, ma il Dio da essi adorato; e tutto l'"epos" biblico, se così vogliamo chiamarlo, si basa sulla costante volontà di far risaltare la potenza di Dio in contrasto con l'impotenza degli uomini. Tale impotenza tocca il punto più basso quando il popolo di Yahweh si allontana dalla vera religione, e subito viene sopraffatto dagli altri popoli; ma, finché esso si mostra a lui fedele, è lo stesso Yaweh a moltiplicarne le forze e a guidarlo di successo in successo.
Quanto al fatto che una tradizione così importante e radicata nella vita di un popolo, come lo è quella della schiavitù in Egitto e dell'esodo verso la Terra Promessa, non può nascere dal nulla, si tratta di un ragionamento senz'altro valido e condivisibile: nessuna tradizione storica, o anche mitica, di un popolo (i due piani, anticamente, erano indistinguibili) nasce dal nulla: questo è poco ma sicuro.
D'altra parte, ripetiamo che il tempo trascorso tra le vicende relative all'esodo narrate nella Bibbia e il momento in cui esse vennero trascritte, è stato un tempo semplicemente enorme. Perciò, bisogna distinguere tradizione da tradizione.
La critica neotestamentaria ha discusso a lungo se, nell'arco dei pochi decenni che separa la morte di Gesù dalla composizione degli scritti paolini e, poi, dei Vangeli canonici, una tradizione come quella della religione cristiana avrebbe potuto essere creata dal nulla: e tutti gli studiosi seri, o quasi tutti, sono giunti alla conclusione che ciò è impossibile.
Quando furono composte e largamente diffuse le lettere di San Paolo e, poi, lo furono anche i quattro Vangeli, la generazione che aveva assistito ai fatti narrati in quegli scritti era ancor viva e vegeta. Se il racconto della vita di Cristo fosse stato inventato dal nulla o se, quanto meno, fosse stato inventato il racconto relativo agli eventi della sua predicazione, del processo, della condanna a morte e relativa esecuzione, migliaia di persone si sarebbero levate a smentirlo, a gridare alla mistificazione.
Ne dobbiamo dedurre che quei fatti erano sostanzialmente veri: e coloro che avversavano le prime comunità cristiane (la Sinagoga e i farisei tradizionalisti) non si spingevano affatto a negare che Gesù fosse vissuto, avesse predicato e fosse stato mandato a morte sotto Ponzio Pilato: negavano, piuttosto, che egli fosse il Figlio di Dio e, quindi, che fosse risorto. Ciò risulta chiaramente dagli Atti degli Apostoli, ma anche da fonti extra-bibliche, come la storia della guerra giudaica scritta dallo storico ebreo Giuseppe Flavio.
Ma il caso dell'esodo del popolo d'Israele dall'Egitto è completamente diverso. Qui assistiamo a una narrazione che fu compilata non alcuni anni o, al massimo, pochi decenni dopo lo svolgersi dei fatti, bensì centinaia di anni dopo.
Se collochiamo l'esodo dall'Egitto, come oggi tende a fare la maggior parte degli storici, intorno al 1250 avanti Cristo, e fissiamo la composizione del Libro dell'Esodo, la nostra fonte principale su quegli avvenimenti, intorno al IV-V secolo avanti Cristo, come oggi si tende a fare, rimane pur sempre una voragine di circa otto secoli. Otto secoli di distanza tra i fatti e la loro narrazione sono veramente tanti; un po' troppi, si sarebbe portati a pensare, perché ci si possa aspettare di aver a che fare con una narrazione veritiera, e sia pure nelle cose essenziali e tralasciando i dettagli (dove avvenne il passaggio del "Mar Rosso"; quale strada percorsero gli Ebrei nella Penisola del Sinai; quale sia il monte da identificare con quello ove Mosè ricevette da Yahweh i Dieci Comandamenti, tanto per citarne alcuni).
Non vogliamo, comunque, sostenere la tesi che tutto il racconto dell'esodo, dal soggiorno in Egitto al trasferimento verso la Palestina, sia totalmente "inventato"; vogliamo solo sottolineare, da un lato, l'impossibilità pressoché totale di definire gli aspetti qualificanti di quella vicenda, a cominciare dall'introduzione del monoteismo; dall'altro, l'incredibile disinvoltura con cui generazioni e generazioni di storici hanno preso per buona la tradizione biblica e, sull'unica base di essa, hanno accettato anche i particolari più dubbi, per non dire inverosimili, del suo racconto.
Per essere precisi, una sola fonte extra-biblica è venuta alla luce: una stele di basalto nero trovata a Tebe nel 1895, in cui si legge un'iscrizione relativa alla "distruzione" di Israele da parte del faraone Merneptah. Ma - nuovo problema - nell'esodo non si parla affatto della distruzione di Israele; al contrario, si dice che furono gli Egiziani a perire travolti dalle acque, mentre inseguivano gli Ebrei in fuga. Dunque, buio totale anche da questa parte.

Si prenda il caso di John Bright, stimato biblista americano e studioso della storia di Israele. Di formazione presbiteriana, nato a Chattanooga nel Tennessee, diplomato in Teologia nel 1931 presso l'Union Theological Seminary, in Virginia (dove ha poi insegnato ebraico e interpretazione dell'Antico Testamento fino al 1975), è morto nel 1995.
Si tratta di uno dei più noti studiosi, apprezzato per la sua chiarezza e per il suo metodo innovativo, che consiste in una combinazione dello studio della storia con quello della teologia. Per usare le sue parole, «una storia d'Israele che non sia in qualche misura una storia della sua fede non è né significativa né possibile» (con qualche incongruenza logica, dato che se una cosa non è possibile, cade il problema se essa debba venire considerata significativa oppure no).
Fedele a questo postulato, egli ha combinato insieme i risultati delle ricerche archeologiche, le fonti storiche del Medio Oriente antico e un attento esame delle Scritture, servendosi di queste ultime per integrare e, quando necessario, per colmare le lacune della documentazione "esterna" (come lui stesso la chiama), ossia extrabiblica.
Vediamo dunque come egli ci presenta le vicende essenziali dell'Esodo, e domandiamoci se, per qualunque altro argomento della storia umana, sia antica che moderna, accetteremmo un metodo di ricostruzione che si basa quasi interamente su una sola fonte, per giunta spesso contraddittoria. Leggendo il seguente brano, noteremo  la disinvoltura con cui ricorre, da un lato, la frequentissima constatazione dell'ignoramus et ignorabimus, dall'altro la sbrigativa conclusione che, comunque, non è poi tanto importante sapere come e perché sono andate le cose, dato che disponiamo, comunque, di quell'unica fonte (cioè il Deuteronomio) e, pertanto, non è possibile mettere in dubbio la fondamentale veridicità di quanto ivi asserito.

Scrive. Dunque, John Bright nel suo testo più famoso, che ha venduto oltre centomila copie ed è stato tradotto in quattro lingue, «Storia dell'antico Israele. Dagli albori del popolo ebraico alla rivolta dei Maccabei» (titolo originale: «A History of Israel», 2000; traduzione italiana di Patrizia Benfenati, Lucilla Rodinò , Anna Tabet, Roma, Newton Compton Editori, 2002, 2006, pp. 137-47 passim):

«Sebbene non vi sia alcuna testimonianza diretta nella documentazione egiziana circa la presenza di Israele in Egitto, la tradizione biblica richiede fede a priori: non è quel tipo di tradizione che un popolo inventerebbe! Non si tratta di un'epica eroica di migrazione, ma il ricordo di una servitù disonorevole, dalla quale solo la potenza di Dio portò una liberazione, suffragato inoltre da un buon numero di fattori oggettivi La prevalenza di nomi egiziani nell'antico Israele, specialmente nella tribù di Levi, certamente fanno intendere un legame con l'Egitto. (…)
Dell'esodo di per se stesso non abbiamo nessuna prova extrabiblica. Ma la testimonianza della Bibbia è così impressionante da lasciare pochi dubbi che qualche incredibile liberazione debba aver avuto luogo. Israele ricordò  l'esodo per tutto il tempo a venire come l'evento costitutivo  che lo avrebbe reso un popolo. (…)
Riguardo a questi eventi, non possiamo certamente aggiungere nulla a ciò che la Bibbia ci dice. (…)
Dal momento che molti dei luoghi menzionati  sono difficili da individuare, l'esatta locazione dell'esodo è incerta. (…) In ogni caso, non si tratta di una questione di primaria importanza. La locazione precisa dell'esodo è marginale  per la fede di Israele, come lo è quella del Santo Sepolcro per la cristianità [sic].
Da questi dati [?] discende poi la questione legata alla datazione della conquista, che è stata molto dibattuta. Mentre non è possibile stabilire le date esatte di nessun o dei due eventi, possiamo essere abbastanza certi che l'esodo non avvenne prima del XIII secolo. (…)
Non possiamo avventurarci a ricostruire i dettagli della marcia di Israele nel deserto, sia perché gli eventi effettivi furono senza dubbio più complessi di quanto  la narrativa biblica indichi, sia perché quasi nessuno dei luoghi menzionati può essere identificato con certezza. Non si può tuttavia dubitare che proprio durante questo periodo che Israele ricevette la sua fede distintiva e divenne un popolo.
Secondo la Bibbia, ciò avvenne sul monte Sinai (o Horeb, come è anche chiamato), dove Israele si trattenne dopo aver lasciato l'Egitto. Sfortunatamente, la collocazione del Sinai è incerta. (…)
Tutto considerato, quindi, una locazione per il Sinai  che si avvicini a quella tradizionale sembra preferibile. Ma dobbiamo ammettere che non lo sappiamo.  Né il problema riveste una importanza cruciale per la storia di Israele.
Sebbene la locazione del Sinai sia incerta, non vi è motivo di dubitare che fu lì che Israele ricevette quella legge e quell'alleanza che l'avrebbero reso un popolo. (…)
Se Yahweh fosse o no adorato prima di Mosè è una domanda alla quale non si può fornire una risposta. Molti studiosi favoriscono l'ipotesi che Yahweh fosse conosciuto  tra i clan madianiti (Keniti) della penisola del Sinai e che  e che Mosè ne sia venuto a conoscenza dal suocero, Ietro. Ciò non è da escludere. (…)
Dobbiamo ammettere comunque che non sappiamo se Israele abbia adottato la venerazione di Yahweh dai Madianiti o no. (…)
Secondo il libro dei Numeri, Israele, una volta lasciato il Sinai, si fermò per qualche tempo a Kadesh, una grande oasi a circa ottanta chilometri a sud di Bershabea. Poi, dopo aver fallito nel tentativo di attaccare la Palestina da sud e dopo altre marce nel deserto, fu effettuata una grande deviazione attraverso la Transgiordania, che culminò nella conquista del regno amorreo di Chesbon. L'evidenza esterna getta poca luce su queste tradizioni. Le marce di Israele non possono essere chiarite dettagliatamente, sia perché la maggior parte dei luoghi menzionati sono sconosciuti, sia perché le stesse tradizioni sono a volte difficili da armonizzare  l'una con l'altra. È probabile che nella tradizione si associano le marce di diversi gruppi.
Cionondimeno, possiamo affermare che il quadro rappresentato è autentico.(…)
Quando arriviamo ai racconti della conquista, abbiamo a nostro vantaggio il sostegno delle prove esterne. Ma si deve dire che questa, sebbene impressionante, è in molti punti ambigua, anche confusa, e non sempre facile da  correlare con la narrativa biblica.
Il problema sorge in parte dalla Bibbia stessa, dal momento che essa non presenta una singola e coerente descrizione della conquista. (…)
Sicuramente, l'evidenza non è mai stata completamente non ambigua. In particolare, si sono sempre avute difficoltà ad adattare a Gerico una tale ipotesi [ossia la conquista israelita alla fine del XIII secolo a. C.], specialmente alla luce degli scavi più recenti.»

Il lettore avrà notato il continuo ricorrere di espressioni come «non abbiamo alcuna testimonianza diretta», «non siamo in grado di dire» o «non si può fornire una risposta»; fino a raggiungere dei veri e propri contorsionismi verbali, come nella frase: «Sicuramente, l'evidenza non è mai stata completamente non ambigua».
Che cosa vogliamo concludere da tutto questo?
Due cose.
Primo, e fino a prova contraria, per l'esodo biblico si dovrebbe adottare lo stesso criterio di ogni altra presunta vicenda che non è riportata se non nel racconto delle origini di un determinato popolo: ossia inscriverla nella dimensione del mito (così come lo intendevano gli antichi, e non già come lo intendono i moderni) invece che in quella della storia.
Secondo, che gli storici dovrebbero adottare, nei confronti della storia dell'antico Israele, esattamente lo stesso atteggiamento spassionato e obiettivo che assumono allorché si parla degli Egiziani, dei Sumeri, degli Assiri o degli Ittiti, senza lasciarsi influenzare dal fatto che l'Antico Testamento è una raccolta di libri sacri di due religioni tuttora vitali, ebraismo e cristianesimo; senza, cioè, mescolare il piano teologico con quello storico.
In ciò ci sembra consistere l'errore capitale dell'approccio di  studiosi come John Bright, i quali, credendo di aver fatto chissà quale scoperta, tendono a riportare il metodo della scienza storica indietro di secoli e di millenni: a prima di Tucidide e a prima di Erodoto.
La verità teologica, infatti, si colloca su un diverso ordine di realtà rispetto alla verità storica. Non è che quella sia meno vera di quest'ultima, tutt'altro: ma si tratta di due ordini di verità diversi e incommensurabili. Eccezionalmente, le loro strade possono anche incrociarsi, ma per poi subito tornare a dividersi.
La teologia, di per sé, non potrà mai supportare la storia, sostituendosi ai dati documentari mancanti: ciò vorrebbe dire fare della cattiva storia; e, oltretutto, della pessima teologia.