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Finirà l'inverno dell'anima, quando ne avremo compreso il significato profondo

di Francesco Lamendola - 08/02/2009

 

Vi sono dei momenti, nella vita di una persona, nei quali l'anima si sente come attanagliata dal gelo dell'inverno: trema di freddo e di solitudine, non vede altro che gelo e vuoto ovunque volga lo sguardo; da nessuna parte un accenno di calore, di primavera.
Vi sono dei momenti nei quali la stanchezza pregressa si fa sentire, quasi di colpo, con tutto il suo peso soffocante; nei quali tutte le delusioni e tutte le amarezze sembrano ridestarsi e mimare una danza oscena, agitando spettrali ricordi; nei quali il coraggio sembra sul punto di venire meno, e la fiammella della speranza diviene sempre più esile, tanto che il prossimo colpo di vento potrebbe spegnerla in un leggero sbuffo di fumo.
Vi sono dei momenti nei quali ci si domanda come sarà possibile andare avanti, continuare a reggere la pressione congiunta delle preoccupazioni e dell'angoscia, loro inseparabile compagna e sgradita ospite delle lunghe notti senza stelle, degli interminabili inverni senza sole; e si ha la sensazione di girare a vuoto, prodigandosi in un inutile sforzo, che non servirà a nulla e non condurrà da alcuna parte.
È allora che bisogna ripensare a fondo se stessi, il proprio cammino, la meta che si intende perseguire; ed è allora che bisogna fare appello a quella forza benevola, superiore all'umana, che taluni chiamano grazia.
Soprattutto, è in quei momenti che bisogna ricordare che nessuna sconfitta è decisiva, se noi non lo vogliamo; che nessuno sbandamento è inevitabile, se conserviamo la fiducia non solo in noi stessi, ma anche nell'Essere da cui veniamo e verso cui andiamo; che nel gelo stesso dell'inverno stanno maturando, in segreto, le gemme della prossima rinascita.
Questa è, forse, la cosa più importante: non perdere mai di vista la connessione necessaria, ontologica e morale, fra il momento della prova e quello della liberazione, fra lo scacco e la ripresa, fra le tenebre e la luce.
Non vi sarebbe luce se non vi fossero tenebre; non vi sarebbe gioia nello sbocciare delle foglie a primavera, se non vi fossero, prima, i lunghi mesi spogli dell'attesa, dell'assenza. A torto li si chiama mesi di squallore: non esiste squallore, se non nell'anima che si abbandona ai suoi peggiori istinti; ma, per chi ha occhi per vedere e una mente capace di comprendere, nulla è di per sé negativo, purché si sappia cogliere lo stimolo alla crescita interiore.
Amarezze, delusioni, sconfitte, malattie e dispiaceri d'ogni genere possono divenire i nostri preziosi alleati, gli strumenti per aiutarci a evolvere, a progredire, a superare continuamente il nostro piccolo io e proiettarci verso l'immensa vita universale dell'Essere.
Anche noi siamo simili alle piante; anche noi attraversiamo periodi di quiescenza, di silenzio, di sbigottimento; e anche noi possiamo ritornare a fiorire, ad aprirci ai caldi raggi del sole, resi più saggi e più compassionevoli dalle difficoltà superate, dagli insuccessi accettati in spirito di umiltà, i quali contribuiscono a renderci più umani.
Non è da invidiare la sorte di coloro che vincono sempre, che avanzano sempre, che non tremano mai; essi non possiedono né il senso del limite, né quello del mistero: le due grandi finestre spalancate sugli orizzonti illimitati dell'Essere.
È la caduta che ci rende umani, è la delusione che ci fa migliori: beninteso, se sappiamo vivere tali esperienze con lo spirito giusto, e cioè tenendoci ugualmente lontani dal vittimismo piagnucoloso e dall'arroganza di chi si crede superiore a tutto e a tutti, e ripete perciò, senza posa, sempre le stesse imprudenze e i medesimi errori.
Ce lo conferma la vita dei grandi santi e dei grandi illuminati: anch'essi hanno conosciuto il momento della prova, della stanchezza, della ribellione; e solo per mezzo della «porta stretta» sono riusciti a penetrare nei giardini fioriti dell'Essere. La loro pace (mai definitiva ed autosufficiente, peraltro) hanno dovuto riscattarla a carissimo prezzo. Nulla fu dato loro gratis: anzi, hanno pagato ogni cosa a dieci volte il suo valore. Tuttavia, a un certo punto, hanno deciso di compiere un supremo atto di umiltà - e si sono abbandonati.
Quella è stata la loro grandezza: abbandonarsi nelle braccia dell'Essere, in un atto di estrema, consapevole fiducia; ma senza alcuna garanzia, senza nulla che tenesse loro le spalle coperte. Hanno accettato il rischio, la sfida dell'assurdo.
«Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; e chi la perderà, la guadagnerà». Non è un concetto assurdo? Eppure, questa è la divina assurdità dei grandi, di coloro che sanno vedere oltre: oltre le apparenze dell'immediato, del relativo, del contingente. Solo le grandi anime sanno fare questo: le anime piccole, non vedono quasi nulla al di là di se stesse.
Pure, l'esempio delle anime grandi trascina, nel lungo periodo, milioni d'individui; quello delle anime piccole, si perde nel vento, come le foglie d'autunno che si staccano dai rami e volano via, chissà dove.

L'anima, dopo il gelo dell'inverno, si schiude più forte e più bella di prima: come i bucaneve che spuntano sui pendii soleggiati, annunciando la prossima fine della stagione fredda e l'arrivo imminente delle prime giornate tiepide, carezzate dalle dolci brezze del Sud.
Perciò è importante accogliere il momento della prova come una benedizione, come un'occasione preziosa, insostituibile; e non già imprecare e maledirlo come un intruso, ladro e cattivo. Esso non ci potrà mai portare via nulla, che sia davvero nostro; al contrario, potrebbe lasciarci le ricchezze di un tesoro nascosto, se lo accoglieremo virilmente.
Il concetto è sempre lo stesso: nulla di quel che ci può essere tolto era veramente nostro; ma niente di quello che è davvero nostro, ci potrà mai essere portato via.
La persona superficiale, che mai si è fermata a riflettere sul senso della propria vita, ignora tutto questo e crede sue le cose che non lo sono; viceversa, forse non sa nemmeno di possedere qualcosa di prezioso, che niente e nessuno gli potranno mai sottrarre.
La persona superficiale concentra le proprie attenzioni e i propri sforzi per conseguire e accumulare ciò che è secondario; ma non si prende affatto cura di ciò che è essenziale. È ignorante, nel senso più profondo del termine; e le abitudini sbagliate di una vita intera non l'aiuteranno certo a riacquistare una giusta prospettiva sulle cose. Essa fa come il cercatore d'oro inesperto, che esulta per aver trovato qualche minerale senza valore che, dell'oro, ha soltanto l'apparenza; e si lascia sfuggire il filone buono, perché non sa riconoscerlo.
Lo fa con le cose, con i luoghi, con gli altri esseri umani: sopravvaluta smisuratamente ciò che ha poco valore, volge le spalle a ciò che è prezioso. E lo fa ugualmente con se stessa: non vede, non riconosce, nemmeno intuisce la parte più preziosa di se stessa; mentre carezza e lusinga senza posa la sua parte più caduca e più frivola: il piccolo io che non sa mai dire «tu», perché non sospetta nemmeno il diamante che custodisce in se stessa.
Questa, se vogliamo, è l'ironia della vita, della vita mancata: correre dietro a illusori miraggi di felicità, e tenersi ben lontano dalle vere sorgenti della pace interiore.
Milioni e milioni di vite si consumano in questa ignoranza profonda, in questa impossibile rincorsa, in questa parodia dell'autentico movimento spirituale. Ciechi che guidano altri ciechi, destinati a cadere nel vuoto e trascinare con sé, nella caduta, chissà quante altre anime.
Eppure una vita umana è abbastanza lunga da offrire numerose occasioni per aprire gli occhi, per vedere e per meditare su quali siano le cose importanti, quali i mezzi più adatti per raggiungerle, quali i pericoli e gl'inganni da evitare. Non è lunga quanto vorremmo? Ma, come già osservava Seneca, non sarà mai lunga abbastanza, per chi non la sa usare bene.
Che sia lunga o breve, ciò dipende da noi: in senso spirituale, si capisce; ossia, nel suo significato più serio e più profondo. E non occorre essere dei filosofi stoici per convenirne: basta mettersi in ascolto della voce dell'Essere, che sempre parla dentro di noi. Quella voce ci dice che non siamo fatti per la morte, ma per la vita; e che veniamo al mondo non per odiare, ma per amare.
Però, bisogna imparare ad ascoltarla; e, per ascoltarla, bisogna saper mettere a tacere i molti, troppi rumori inutili, dai quali ci lasciamo frastornare così spesso.
Bisogna fare silenzio nell'anima: perché l'anima è un giardino delicato, che odia il chiasso, la volgarità e ogni forma di attaccamento smodato alle cose fuggevoli. Come un timido capriolo che si aggira nel bosco, essa fugge quando ode rumori ingiustificati: ma si lascerà vedere e, forse, avvicinare, da chi le viene incontro in punta di piedi, con cuore leale.
Accade di frequente che noi diventiamo estranei a noi stessi, nel senso più profondo dell'espressione: non sappiamo più chi siamo, perché ci troviamo qui e dove stiamo andando. Non ricordiamo da dove siamo venuti: se così non fosse, non ci muoveremmo a caso lungo le strade della vita, smarrendoci di continuo per sentieri erti e spinosi, che non portano in alcun luogo: ma punteremmo dritti alla meta, come l'esperto scalatore che non perde di vista la vetta che si è prefisso di raggiungere, pur dovendo procedere nel labirinto delle valli sottostanti.

Dunque, l'inverno dell'anima può anche essere lungo e doloroso; ma non deve indurre a smarrire la speranza della rinascita.
Esso non è, di per sé, un fattore negativo, se non come la fiamma che forgia il metallo e lo rende più forte, più resistente. Noi siamo come il metallo, il momento della prova è come la fiamma che tempra e che purifica, eliminando le scorie.
Non si può crescere, se non passando per la porta stretta: chi passa per la porta larga, rimarrà sempre una persona piccola.
Può darsi, anzi è probabile, che la maggioranza degli uomini non la veda così: per la mentalità dominante, il successo è sempre un valore autoevidente; mentre la prova, lo scacco, sono sempre il segno di una debolezza, di una incapacità.
La cosa non deve stupire affatto. È stato detto «Gli uomini di questo mondo, nei loro rapporti con gli altri, sono più astuti dei figli della luce» (Vangelo di Luca, 16, 8). Ma l'astuzia di questo mondo, per quanto possa garantire il successo nel regno della quantità, è una ben misera forma di sapienza, rapportata al piano dell'assoluto.
Se non vogliamo tradire noi stessi, la parte più profonda della nostra natura, dobbiamo sempre ricordarci questo: che solo la nostra parte effimere vive al livello della quantità; per tutto il resto, noi siamo proiettati verso l'assoluto. Tale è la nostra meta, tali sono la nostra vocazione e il nostro ultimo destino.
Perciò, fin da ora, dobbiamo esercitare le nostre gambe a salire verso l'alto; i nostri polmoni, a respirare l'aria rarefatta delle cime.
Solo così, cadendo e rialzandoci, impareremo a vedere nel momento della prova una occasione di crescita e di arricchimento e non soltanto una esperienza negativa, da dimenticare il più in fretta che sia possibile.
Buone gambe e buoni polmoni ci vogliono, per salire; e nessuna paura della solitudine, delle critiche ingiuste, dei sorrisetti di commiserazione.
Del resto, non dovremo fare tutto da soli; qualcuno o qualcosa ci aiuterà, quando ne avremo realmente bisogno.
E non dovremo preoccuparci troppo di cercare la strada giusta: perché, quando troveremo il coraggio di non aggrapparci più alle cose, sarà la strada a venirci incontro, come una vecchia amica che da sempre era rimasta ad aspettarci.
E questo è tutto.
Più semplice di quel che non si creda, dopo tutto.
L'importante è non smarrire mai la speranza; ricordare che le gemme maturano a lungo, in silenzio, nel mistero dei rami intirizziti e, in apparenza, morti; ma, in realtà, covano la vita futura.