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Semplificazione ed ecumenismo nella rappresentazione della guerra santa

di Piero Montanari - 27/02/2006

Fonte: Jura Gentium

 

Semplificazione ed ecumenismo nella rappresentazione della guerra santa: Ayman al-Zawahiri e Osama bin Laden (*)

 

Il libro - Al Qaeda dans le texte - raccoglie una scelta di testi di Osama bin Laden, Abdallah Azzam, Ayman al-Zawahiri e Abu Mussab al-Zarqawi. Gli autori vengono introdotti e commentati, rispettivamente, da Omar Saghi, Thomas Hegghammer, Stephane Lacroix e Jean-Pierre Milelli (che è anche il traduttore dell'antologia). Gli specialisti appena citati hanno accompagnato la traduzione con un apparato critico imponente e accurato, di estrema utilità per il lettore non arabofono e non specialista; ogni pagina di testo è affiancata da una pagina di note che identificano gli autori citati, inseriscono l'opera nel contesto storico e culturale appropriato, chiariscono gli usi linguistici e il significato dei termini e dei concetti. Il progetto è stato realizzato sotto la direzione di Gilles Kepel, che ha scritto anche una breve ed efficace introduzione.

Il volume - di cui presto uscirà l'edizione in italiana - è importante perché contribuisce a fare chiarezza sugli aspetti fondamentali del discorso jihadista e a mettere in luce la sua rappresentazione del conflitto in corso. In questo senso l'utilità del libro va paragonata a quella delle antologie dei neoconservatori americani. (1) Con il vantaggio ulteriore che si tratta di una traduzione dall'arabo, lingua che per un europeo è sicuramente meno accessibile dell'inglese. Il pregio maggiore di queste iniziative editoriali è che servono a farci capire come le parti in conflitto vedano se stesse e la propria missione: come mettano in scena la propria azione.

Gli spunti offerti dal libro sono troppi per essere presentati in sintesi. Quindi delimiteremo il campo della nostra riflessione in due modi: 1) esamineremo solo due autori fra quelli proposti nell'antologia: Ayman al-Zawahiri e Osama Bin Laden, i leader qaedisti per eccellenza; 2) tenteremo di leggere il loro discorso alla luce di due aspetti che appaiono essenziali, e strettamente intrecciati, nel testo jihadista: la semplificazione e l'ecumenismo.

1. Semplificazione ed ecumenismo

Per semplificazione deve intendersi la percezione - sui fronti in lotta - che sia emersa con assoluta chiarezza la divisione tra amico e nemico. Il linguaggio in cui si traduce tale percezione diventa necessariamente essenziale, concettualmente molto semplice, se non grezzo. E a un linguaggio brutale possono seguire azioni brutali. Per ecumenismo deve intendersi una mobilitazione massiccia delle risorse simboliche - culturali, religiose, politiche - per giustificare l'appello al conflitto. Gran parte dei musulmani non si identifica affatto con i jihadisti, così come gran parte del mondo occidentale non si riconosce nelle decisioni militari americane. L'ecumenismo è quindi una strategia a cui, in determinate circostanza, una minoranza può ricorrere per consolidare ed estendere la propria legittimazione. Questa mobilitazione totale delle risorse simboliche coincide con una poderosa asseverazione di valore: i nemici si presentano reciprocamente come il Bene contro il Male e intendono la loro lotta come uno scontro supremo per l'affermazione della Libertà (2) o della Legge divina. Ai loro occhi, quindi, la guerra tende ad assumere un significato e una portata universale.

Semplificazione ed ecumenismo sono aspetti tipici di molte guerre, e in particolare delle "guerre di dottrina"; (3) ma si manifestano con una particolare intensità nel conflitto che, ormai da dieci anni, oppone il movimento islamista-jihadista agli Stati Uniti e ai loro alleati. Per questo, di tanto in tanto, metteremo in relazione il discorso jihadista con quello neoconservatore. Ben diversi nel contenuto, i due discorsi esibiscono una marcata affinità quanto alla dinamica (alla logica) che sembra alimentarli. Questo raffronto, inoltre, servirà a ricordarci che semplificazione ed ecumenismo non sono soltanto "luoghi comuni" di un testo (quello neoconservatore o quello jihadista), ma rappresentazioni del nemico e percezioni del conflitto che influenzano concretamente i processi decisionali e le guerre in corso. (4)

2. Ayman al-Zawahiri. Ideologo del jihad

Ayman al-Zawahiri è tutto fuorché il "numero due" di al-Qaeda, o il "vice" di Bin Laden, come ne parlava la stampa prima del recente bombardamento americano sul villaggio di Damadola. Gilles Kepel ritiene che ormai da un anno sia proprio lui la mente di al-Qaeda, e che l'ultimo messaggio di bin Laden sia "un segnale inviato ai suoi seguaci per riaffermarsi come leader". (5) Abu Qatada ha definito al-Zawahiri "il saggio del movimento islamista jihadista", e a tutti gli effetti egli appare come il vero ideologo e lo stratega di al-Qaeda. La sua storia personale è molto importante. (6)

Al-Zawahiri nasce al Cairo, nel 1951, l'anno prima del golpe dei liberi ufficiali. Viene da una famiglia benestante e austera, che annovera una vera e propria aristocrazia intellettuale tra i suoi membri. Al-Zawahiri comincia la sua militanza giovanissimo, tra il 1966 e il 1967, anni segnati rispettivamente dall'esecuzione di Sayyid Qutb, il leader egiziano dei Fratelli Musulmani, e dalla sconfitta araba nella "guerra dei sei giorni". Tra i contemporanei, Qutb resterà sempre il punto di riferimento principale di al-Zawahiri. La sua impiccagione segna l'inizio di una deriva violenta del movimento islamista. I tormenti cui Qutb fu sottoposto nei lunghi anni di prigionia (gli stessi in cui compose le sue opere fondamentali) hanno impressionato profondamente le cerchie islamiste del tempo, e hanno lasciato un segno indelebile sul giovane al-Zawahiri. Alla fine degli anni settanta, dopo la firma del trattato israelo-egiziano voluto da Sadat, al-Zawahiri entra col suo piccolo seguito nel "Jihad", un gruppo militante di ispirazione elitaria e avanguardista guidato da Abd al-Salam Faraj, teorico di grande importanza per la nuova generazione degli islamisti. (7) Nel 1980 la piccola ma influente avanguardia di Faraj si unisce con il "Gruppo Islamico" di Karam Zohdi, un movimento islamista che conta su un largo seguito popolare. Questa progressiva fusione dei gruppi militanti è alla base dell'assassinio di Sadat (1981), cui segue l'arresto e la detenzione di un vasto numero di dirigenti islamisti. Tra loro c'è anche al-Zawahiri, che si è laureato da poco in medicina e lavora come chirurgo in un ospedale del Cairo. Egli non solo non è direttamente coinvolto nell'attentato, ma, venutone a conoscenza poco prima, si dichiara contrario alla sua opportunità, perché considera il movimento islamista ancora impreparato a prendere il potere. Resterà in carcere fino al 1984, rivivendo sulla propria pelle le umiliazioni della tortura già patite dal suo padre spirituale. (8) Ma è proprio nel periodo della prigionia che egli si imporrà come il leader dell'islamismo radicale egiziano. (9)

Uscito dal carcere, al-Zawahiri si trova a dover riorganizzare da cima a fondo il Jihad Islamico. L'Egitto è ormai terra bruciata. Quindi, nel 1985, dopo un breve soggiorno in Arabia Saudita, egli parte per Peshawar, dove era già stato in missione umanitaria prima della prigionia. Sul fronte afgano opera Abdallah Azzam, il leader del jihad antisovietico; ma piuttosto che allearsi con lui, al-Zawahiri sembra molto più interessato a guadagnarsi il sostegno di un giovane sceicco miliardario, Osama bin Laden, il quale ha raggiunto l'Afghanistan nel 1980 ed è diventato una vera celebrità in Arabia Saudita. L'incontro è decisivo. Influenzato dalla personalità di al-Zawahiri, e dalla sua idea che il jihad vada esteso ai regimi empi di Egitto e Arabia Saudita (idea cui Azzam è del tutto contrario), bin Laden rompe definitivamente con l'organizzazione di Azzam e si unisce al Jihad Islamico guidato dal nuovo leader egiziano. Nel 1989 Azzam viene assassinato e bin Laden dà vita al Qâidat al-Mâ'lûmat - l'embrione di al-Qaeda, un "data base" di combattenti, prevalentemente arabi, da reclutare e integrare successivamente all'interno di un comando più organizzato. (10)

Con il ritiro sovietico dall'Afghanistan e l'invasione irachena del Kuwait comincia a emergere una temporanea divergenza tra i due leader jihadisti. Entrambi si trasferiscono in Sudan, a Khartum. Sono anni decisivi per la formazione della rete terroristica internazionale: per i reduci del fronte afgano, nuovi fronti del jihad si aprono in Egitto, Algeria, Bosnia e Cecenia, mentre la comunità islamica di Londra (il "Londonistan") diventa un'importante centrale di informazione per i militanti. Al-Zawahiri si concentra sempre di più sulla rifondazione del Jihad Islamico egiziano, convinto che il vero nemico sia quello "vicino" (al-'aduw al-qarîb) e in particolare il regime di Mubarak (il "Faraone").Bin Laden, invece, è ormai sicuro che la priorità sia quella di combattere al-'aduw al-ba'îd, quel "nemico lontano" (gli Stati Uniti) che ha occupato a tempo indeterminato i luoghi santi dell'islam (l'installazione delle basi americane in Arabia Saudita è una ragione fondamentale di questo cambiamento strategico, e determina la rottura definitiva tra bin Laden e il governo saudita). (11) Per rianimare il Jihad Islamico, al-Zawahiri compie una lunga serie di viaggi in giro per il mondo in cerca di finanziamenti (Europa, America Latina, Balcani e Caucaso) (12) e progetta una lunga catena di attentati in territorio egiziano, compreso l'assassinio del presidente, ma tutte le operazioni si risolvono in un fallimento. L'unico successo è l'attacco suicida contro l'Ambasciata egiziana a Islamabad (1995), (13) ma l'anno seguente il leader jihadista è costretto ad abbandonare il Sudan e far ritorno in Afghanistan, a Jalalabad, dove i talebani hanno assunto il controllo del territorio e bin Laden ha cominciato a costruire i primi campi di addestramento di al-Qaeda. Tra il 1997 e il 1998 la strategia dei due leader torna a convergere: insieme a bin Laden e altri gruppi islamisti, al-Zawahiri, come capo del Jihad Islamico egiziano, dà vita al "Fronte islamico mondiale per il jihad contro gli ebrei e i crociati". Il 26 febbraio 1998, il Fronte emette la nota dichiarazione di guerra - la fatwa che segna l'inizio della guerra santa contro il "nemico lontano": dovere di ogni musulmano, ovunque si trovi, è quello di "uccidere gli americani e i loro alleati, civili o militari che siano" e "saccheggiare i loro beni", finché i luoghi santi dell'islam non verranno liberati. (14) Il doppio attentato contro le ambasciate americane in Kenya a Tanzania (agosto 1998) inaugura questa nuova strategia del terrore, che dovrà culminare nell'attacco del "martedì benedetto, 23 Joumada al-Thani 1422" (11 settembre 2001).

La dottrina di al-Zawahiri non presenta motivi di grande originalità teorica rispetto ai testi "classici" dell'islamismo radicale sunnita (Qutb, Mawdudi, Faraj e, in parte, Azzam). Piuttosto, sono l'eterogeneità delle fonti islamiche citate e il respiro ecumenico della sua sintesi ad attirare l'attenzione. Questo aspetto lo accomuna sicuramente a Osama bin Laden, ma il discorso dello sceicco saudita, come vedremo, si pone su un registro espressivo completamente diverso. A sostegno delle sue argomentazioni, al-Zawahiri mobilita tutta la tradizione sunnita, citando autori e scuole diversissime tra loro; si richiama anche alla tradizione sciita e integra, dove serva, persino il lessico nazionalista, marxista e terzomondista. La necessità di un'ampia legittimazione religiosa e popolare è più che evidente. Religiosa: gli "ulema del jihad" devono scalzare l'autorità spirituale degli "ulema di palazzo", i quali, per necessità o per corruzione, non riescono più ad emettere pareri giuridici coerenti con il bene della comunità dei credenti. (15) Popolare: con lo spettacolo delle sue operazioni e della sua dedizione, l'avanguardia islamista deve conquistare e mantenere il sostegno delle masse popolari al jihad. La semplificazione prodotta da questa doppia esigenza di legittimazione è tale che l'essenza dell'islam sembra ridursi a due soli dogmi: il tawhid e il jihad.

3. Il tawhid e la condanna della "religione democratica"

Il tawhid, il dogma dell'unicità divina, recitato solennemente nella shahâda (la dichiarazione di fede), è il primo pilastro dell'islam. La sura Yusuf (Giuseppe) recita: "Il giudizio appartiene solo ad Allah" (Cor. 12: 40). "Giudizio" traduce qui il termine arabo hukm, che significa anche "potere". L'ambiguità semantica è fondamentale. I jihadisti, seguendo Abu Ala al-Mawdudi e Sayyid Qutb, intendono il termine proprio come "potere": la hukma illâ lillâh, cioè il potere appartiene a Dio soltanto. Il dogma dell'unicità si salda naturalmente con la condanna di ogni associazionismo (shirk). Nella sura al-kahf (la caverna), per esempio, è scritto: "All'infuori di lui [Allah] non avranno patrono alcuno ed Egli non associa nessuno al Suo giudizio" (Cor. 18: 26). (16) Nessuno è associabile a Dio (la sharika lahu). I jihadisti, influenzati dalla corrente wahabita, interpretano il tawhid in senso molto rigido per scomunicare ogni deviazione politeistica e idolatrica; in breve: ogni "frazionamento dell'unicità divina". (17) La condanna islamista e jihadista della democrazia, del parlamentarismo e del diritto positivo dipende interamente dall'interpretazione di questi due versetti. (18)

Riconoscendo nel popolo (sha'b) o nei suoi rappresentanti la vera fonte del potere, la democrazia diventa un regime radicalmente anti-islamico: la sua affermazione nega ipso facto il dogma dell'unicità e implica immediatamente il peccato di associazionismo. (19) Quanto al diritto positivo, pur essendo meno deprecabile del principio democratico, esso ricade sotto la stessa condanna, perché impedisce ogni autentica riforma religiosa (islah). Più avanti, rifacendosi ad Abu Muhammad al-Maqdisi, al-Zawahiri definisce la democrazia come una "nuova religione", che sostituisce il popolo a Dio nell'origine della sovranità. E sulla scorta di al-Mawdudi, oppone la vera sovranità (hâkimiyya), cioè il potere divino, alla sovranità democratica, definita come "moderna jâhiliyya", religione degli empi. (20) È interessante notare che in al-Zawahiri è presente una sorta di relativismo religioso, che trova un precedente nella scuola hanbalita e poggia su un versetto coranico (109: 6): "A voi la vostra religione e a me la mia" (sura al-Kâfirûn, i miscredenti). Si tratta di un'affermazione dell'arbitrarietà della Legge, a proposito della quale Stéphane Lacroix commenta: "la legge religiosa deve essere valida in sé, non ha bisogno di poggiare su alcuna razionalità, né sulla ragione naturale né su quella storica". Insomma, la superiorità della legge islamica su quella democratica viene semplicemente asseverata, senza ulteriori speculazioni che non porterebbero da nessuna parte. Un'altra peculiarità del testo di al-Zawahiri è il suo accenno alla centralità del "desiderio" [hawâ] nelle democrazie: oltre che sulla "divinizzazione del popolo", i regimi democratici poggiano sull'assolutizzazione del desiderio. Si tratta di una constatazione che lascia trapelare un livello più profondo della critica di al-Zawahiri - un livello sociologico più che religioso - su cui però le esigenze di semplificazione non permettono di insistere. La scomunica del regime democratico viene quindi fatta dipendere dalla perfezione coranica (Cor. 5: 3).

La condanna (takfîr) del principio democratico viene rivolta ai regimi arabi miscredenti (o apostati) - in particolare all'Egitto e al suo codice misto (21) - seguendo una strategia di delegittimazione già consolidata in Qutb; quindi si estende per cerchi concentrici all'Occidente, ai crociati e agli infedeli. Ma negli scritti che stiamo discutendo - risalenti al 1990-1991 - il pretesto immediato della critica è offerto dalla corruzione spirituale dei Fratelli Musulmani. Al-Zawahiri denuncia gli effetti nefasti dell'intreccio tra i Fratelli e le ricche monarchie del Golfo e fa un bilancio sostanzialmente negativo di tutta l'esperienza storica del movimento - con la sola eccezione di Sayyid Qutb, la cui influenza sull'islamismo radicale fu decisiva negli anni sessanta. Ma già nel 1969, Hassan al-Hudayibi (guida suprema dei Fratelli a partire dal 1951) rompe esplicitamente con il pensiero di Qutb e riporta il movimento al principio della predicazione pacifica (da'wa) sostenuto dal suo fondatore, Hassan al-Banna. Nel 1990, inoltre, proprio mentre al-Zawahiri conta i frutti di questa "amara messe", lo sceicco saudita Abd al-Aziz Ben Baz emette una fatwa che autorizza l'ingresso dei musulmani in parlamento. (22) Aderendo al principio della predicazione e alla fatwa di Ben Baz, sostiene al-Zawahiri, i Fratelli Musulmani corrompono la comunità dei credenti (umma), contribuiscono all'arresto del jihad contro i tiranni miscredenti, aprono le porte alla sedizione (fitna) nella "casa dell'islam" e violano il principio dell'"alleanza e della rottura". (23)

4. La dimensione globale e totale del jihad

Se il tawhid è il pilastro fondamentale dell'islam, il jihad ne è la sommità. Un hadith frequentemente citato dai jihadisti, recita: "Se la base dell'islam è la preghiera, il jihad ne è la vetta" (l'Autentico). Nei testi di al-Zawahiri successivi alla svolta del 1998, la necessità, la strategia e le implicazioni della guerra santa occupano tutta la scena. Semplificazione ed ecumenismo toccano l'apice. (24) Abbiamo già visto che, diversamente da gran parte della tradizione islamica classica, l'islamismo radicale salafita considera la guerra santa come un dovere individuale (fard 'ayn), e non soltanto come un dovere collettivo (fard kifâya) cui adempiere in caso di aggressione (cfr. supra, nota 6). E sappiamo che a partire dal 1996-1997, i jihadisti di al-Qaeda cambiano radicalmente la loro priorità strategica, indirizzando il jihad non solo ai regimi empi del Medio Oriente, ma soprattutto allo straniero che ha occupato e umiliato i due luoghi santi: "l'alleanza giudeo-crociata guidata dagli Stati Uniti". Va ora notato che a questo progressivo déplacement del dogma corrisponde uno spostamento geografico della lotta verso le periferie dell'islam. Il "risveglio" del jihad, infatti, comincia ai margini dell'islam: Afghanistan, Cecenia, Daghestan, Turkestan ecc. È questo, dice al-Zawahiri, "il vero capitale della nostra epoca" - un capitale che occorrerà far convergere nuovamente verso il centro, il Medio Oriente arabo, che resta sempre "il vero campo di battaglia dell'islam". (25)

La perifericità del risveglio islamico riflette, e al tempo stesso produce, sia una globalizzazione dell'aggressione sia una deterritorializzazione del jihad. L'aggressione contro i musulmani, scrive bin Laden nella "dichiarazione di guerra" del 1996, è una realtà che si manifesta ovunque nel mondo: teatri di guerra non sono soltanto l'Iraq, la Palestina e il Libano, ma il Tadjikistan, la Birmania, il Cachemire, l'Assam (India), le Filippine, il Pattani (Tailandia), la regione etiopica dell'Ogaden, la Somalia, l'Eritrea, la Cecenia, la Bosnia. (26) La globalità del jihad, a sua volta, è implicita nella priorità assunta dal nemico lontano. Scrive al-Zawahiri: "Non possiamo condurre una lotta per la fondazione di un Stato islamico come fosse una questione regionale. Alla luce di quanto precede, appare chiaramente che l'alleanza giudeo-crociata guidata dagli Stati Uniti non permetterà ad alcuna forza musulmana di arrivare al potere in nessun paese musulmano. Se questo accadesse, essa mobiliterebbe tutte le sue forze per abbatterla e cacciarla dal potere, aprendo un campo di battaglia su scala mondiale. ... Di conseguenza, in questa nuova situazione, dobbiamo prepararci a una lotta che non sia limitata una sola regione, ma implichi il nemico interno apostata tanto quanto il nemico esterno giudeo-crociato". (27)

La stessa percezione globale del conflitto e della minaccia la troviamo nei neoconservatori americani, e in particolare in un articolo del 2002 di Daniel Pipes ("Who is Enemy?"). Dopo aver dato un nome e un volto al nemico reale degli Stati Uniti - cioè "l'islam militante" - Pipes arriva a stimare che circa mezzo miliardo di musulmani sparsi per il mondo siano simpatizzanti di al-Qaeda e potenziali nemici degli americani. (28) Inutile ribadire che questa deterritorializzazione della guerra sovverte tanto l'idea islamica e tradizionale del jihad quanto l'idea occidentale e classica della guerra, legate entrambe alla definizione di un territorio e di un nemico, così come all'esistenza di codici di guerra consolidati. Sono quindi guerre che non possono essere comprese né nel quadro del diritto pubblico europeo (che contempla solo guerre tra Stati) (29) né alla luce delle interpretazioni coraniche tradizionali in materia di jihad difensivo. Non è un caso se molti predicatori musulmani, come lo sceicco egiziano Yusuf al-Qardawi, mentre legittimano le operazioni-martirio contro Israele (intese come jihad difensivo), denunciano come aberrazioni illecite gli attentati-suicidi contro gli americani e gli europei. (30)

Oltre che essere globale, il jihad deve assumere anche una dimensione totale e penetrare ogni sfera della vita sociale e affettiva dei musulmani. "La nostra battaglia - dice al-Zawahiri - è quella di ogni musulmano... È una lotta che tocca ciascuno di noi - nel lavoro, nella vita famigliare, nei figli e nella dignità". (31) La pervasività esistenziale del jihad mette in gioco una questione decisiva per i leader di al-Qaeda: il rapporto tra l'avanguardia dell'organizzazione e la comunità dei credenti. Affinché il jihad sia totale bisogna conquistare "le masse dell'umma", e per guadagnare il loro sostegno, sostiene Zawahiri, è necessaria sia una chiara definizione del nemico e sia una "direzione" in cui i musulmani abbiano fiducia e di cui intendano il discorso. Anche al-Zawahiri si pone la domanda "Who is Enemy?" e lo fa in una prospettiva che, a suo modo, presenta una sua spietata razionalità e un'elevata dose di "realismo politico".

Tanto per cominciare è un motivo ricorrente dei jihadisti la convinzione che il risveglio islamico abbia il merito di polarizzare i fronti in lotta, determinando una semplificazione oggettiva del conflitto: il jihad costringe il nemico a dissipare ogni malafede, a rivelare la sua vera natura e le sue vere intenzioni, ponendolo di fronte alla decisione di continuare la guerra o ritirarsi. Per entrambi i fronti, curiosamente, l'esperienza algerina segna uno spartiacque importante: secondo le dichiarazioni di Willy Claes, il Segretario generale della NATO, la guerra civile algerina ha dimostrato che l'islam militante è il pericolo più temibile che l'Alleanza atlantica si trova a fronteggiare dopo il comunismo (anzi, esso costituisce una minaccia maggiore, perché presenta elementi di arretratezza e fanatismo assenti nel comunismo); (32) secondo al-Zawahiri, invece, il colpo di Stato del 1992 mostra che le buone intenzioni dell'Occidente sono pura e semplice ipocrisia, e che il principio delle elezioni democratiche è soltanto una trappola tesa ai militanti islamisti (33) (argomento che torna a suonare sinistramente familiare dopo la schiacciante vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi del 25 gennaio 2006). È esattamente questo tipo di malafede che il risveglio della guerra santa rimuove dalla scena planetaria, spazzando via ogni menzogna. Sei giorni dopo l'operazione "ardita e bella" dell'11 settembre 2001, Bush è costretto a dichiarare la verità - "Questa crociata, questa guerra contro il terrorismo, non sarà breve" - e a nulla possono servire le smentite del giorno seguente. (34) La nuda verità ha fatto breccia, proprio come gli aerei hanno colpito i loro bersagli. La battaglia "è universale" e i crociati hanno identificato il loro nemico nel fondamentalismo islamico. Su questa "oggettiva" dualizzazione occorre innestare l'azione dell'avanguardia jihadista, il cui compito è di radicalizzare ulteriormente il processo e ottenere in questo modo l'adesione totale dei fedeli. Il discorso di al-Zawahiri si fa sempre più realistico, e verte su alcune nozioni fondamentali: pedagogia dell'esempio, operazioni-martirio e mediatizzazione del conflitto.

5. Dimensione mediatica e razionalità del jihad

In un intervista della CNN, del 12 maggio 1997, a bin Laden viene chiesto quale messaggio vorrebbe inviare al presidente degli Stati Uniti. Lo sceicco saudita risponde "un messaggio senza parole, perché non esiste parola che egli possa intendere". (35) L'unico linguaggio che gli Stati Uniti comprendono è quello dell'atto, di un atto esemplare che riveli loro la vera natura del conflitto e l'entità della rabbia (36) che i musulmani nutrono nei loro confronti dopo gli orrori dell'embargo e della guerra in Iraq. Alla domanda "Quali sono i vostri piani per l'avvenire?", bin Laden risponde: "Li vedrete e ne sentirete parlare dai media, se Dio vuole". Le coordinate della nuova strategia bellica sono tracciate: fare breccia nei media con azioni spettacolari, e quindi stabilire un'equivalenza tra scena mediatica e azione militare. A partire dalla guerra del Golfo, del resto, la copertura mediatica dei conflitti - e l'accesso mediatico al conflitto - diventa una componente fondamentale nella conduzione e nella comprensione delle nuove guerre. Non a caso i jihadisti si pongono il problema di come rompere "l'embargo mediatico" e fare breccia nei "sistemi internazionali di comunicazione, le agenzie di informazione e le catene satellitari", in cui individuano una delle forze più potenti del nemico. (37) L'azione bellica e i media devono essere "consustanziali". La svolta del 1998 è governata anche da questa necessità; le azioni condotte da al-Qaeda tra il 1992-1996 - nella periferia dell'islam o entro i confini del "nemico interno" - non riescono a produrre quell'impatto emotivo su scala mondiale che possono scatenare solo le spettacolari azioni compiute nel cuore del nemico esterno - gli Stati Uniti e l'Europa.

Torniamo alla questione centrale posta da al-Zawahiri: quella del nuovo ruolo della "direzione" del movimento - o, meglio ancora, la questione della rifondazione del rapporto tra elite dirigente (che conserva sempre la sua matrice "putschista" e avanguardista) (38) e masse popolari. La fusione tra la dimensione internazionale del jihad e la sua "mediatizzazione", infatti, segna anche un passaggio organizzativo di grande importanza, basato sulla pedagogia dell'esempio, che si affianca all'idea islamista tradizionale di un reclutamento e di una legittimazione ottenute con l'azione sul campo, tramite associazioni educative ed benefiche che operano capillarmente sul territorio e assicurano alle popolazioni quella protezione che la debolezza delle burocrazie statali non è in grado di garantire. "Il movimento jihadista - scrive al-Zawahiri - deve accostarsi alle masse, difenderne l'onore, proteggerle, guidarle, portarle alla vittoria, precederle nel sacrificio, tentare di far loro capire la propria causa in uno stile che renda la verità accessibile a chiunque la voglia conoscere, riferire i fondamenti della religione e le sue verità semplici senza espressioni difficili o vuote speculazioni". (39) E prosegue: "Non dobbiamo lasciare nessun buco scoperto; dobbiamo guadagnare la fiducia delle popolazioni, il loro affetto, il loro rispetto, perché ci ameranno soltanto se avvertono che noi le amiamo, che ci prendiamo cura di loro e le difendiamo... Il movimento jihadista deve far partecipare tutta l'umma al suo jihad, e l'umma parteciperà soltanto se gli slogan dei mujahidin saranno comprensibili alle masse". La semplificazione, oltre che un processo oggettivo, è una necessità strategica che implica una radicale riforma del linguaggio religioso; e una componente essenziale di questo nuovo "stile" sono le immagini. (40) L'indifferenza o la partecipazione dell'umma, e quindi l'effettiva capacità della sua "direzione", si giocano tutte su questo piano. (41) Proprio come il terrore dei lontani nemici, anche l'adesione della comunità dei fedeli va provocata con lo spettacolo esemplare offerto da un leadership totalmente devota alla causa e da un ardito drappello di mujahidin disposti a tutto, fino al martirio supremo.

Lo stesso realismo strategico impiegato per forare l'embargo mediatico contribuisce a spiegare il grande interesse con cui, dal 1998, i jihadisti cominciano a guardare al conflitto israelo-palestinese, in particolare dopo la seconda intifada (l'intifada "benedetta" di al-Aqsa). Se portare l'attacco sul territorio del nemico lontano è il solo linguaggio che i media occidentali riescano a intendere, porre la questione palestinese al centro del jihad globale è il passo fondamentale che occorre compiere per guadagnare il sostegno delle "masse dell'umma". Ricordando la Palestina (ma anche l'Afghanistan e la Cecenia), al-Zawahiri rammenta che i jihadisti hanno "assunto una posizione centrale alla testa dell'umma quando hanno fatto proprio lo slogan della liberazione nazionale contro il nemico straniero", trasfigurandola in una lotta tra l'islam e gli empi. (42) "La verità innegabile - aggiunge poco oltre - è che la causa palestinese non solo è capace di riunire tutta l'umma dopo oltre cinquant'anni, dal Marocco all'Indonesia, ma è anche la sola causa che riunisca tutti gli arabi, credenti o empi, buoni o malvagi". Poco prima degli attentati di Madrid, al-Zawahiri aveva dichiarato: "sappia il mondo intero che non tollereremo che in Palestina si ripeta la tragedia dell'Andalusia. Preferiremmo veder perire l'intera umma piuttosto che vedere la moschea di al-Aqsa distrutta, la Palestina giudaizzata e il suo popolo espulso". (43) La Palestina è tanto importante che l'intera comunità dei credenti diventa sacrificabile per la sua liberazione.

È grazie all'intifada di al-Aqsa che gli attentati suicidi guadagnano popolarità all'interno della comunità dei credenti. Le operazioni-martirio organizzate da al-Qaeda in Occidente, quindi, vanno interpretate sia come una risposta "razionale" all'embargo mediatico sia come una conseguenza dell'islamizzazione del conflitto in Palestina. È un'ulteriore conferma della razionalità strategica (della tecnica) degli attacchi suicidi, di cui Robert Pape ha offerto una dimostrazione illuminante. (44) A proposito delle operazioni-martirio, il realismo di al-Zawahiri diventa spietato: in primo luogo si tratta di "gesti supremi" che attirano la simpatia dei musulmani; quindi "sono le operazioni più adatte a infliggere perdite al nemico e le meno costose in termini di mujahidin"; infine sono percepite dall'Occidente come l'espressione di una violenza cieca e fanatica -quando in realtà, come ci ricorda giustamente Stéphane Lacroix, si tratta di una "messa in scena della violenza cieca", di una rappresentazione spettacolare impiegata per imporsi all'attenzione dei media ("il solo linguaggio che l'Occidente sia in grado di comprendere").

Quest'ultimo punto è straordinariamente importante: il fanatismo che attribuiamo al "terrorismo suicida" - senza darci pena di distinguere tra il pensiero degli strateghi e quello degli esecutori materiali - è esattamente il tipo di percezione che i jihadisti intendono provocare in noi con lo spettacolo di una violenza irrazionale. Solo questo genere di violenza attira la nostra attenzione, irrompe nelle nostre case, ci lega ai teleschermi, ci pone di fronte all'esistenza di un nemico con un nome e un volto. È come se al-Zawahiri stesse dicendo: "conosciamo ciò che vi colpisce e stiamo manipolando abilmente la vostra percezione degli eventi". Lasciamo ad altri il compito di giudicare se si tratti di estrema razionalità o di estrema follia. (45)

6. Osama bin Laden. Simbolo del jihad

Se al-Zawahiri è l'ideologo del movimento jihadista, Osama bin Laden ne è il simbolo. Il termine va preso sul serio. A leggere il resoconto di Robert Fisk, (46) bin Laden appare sì come un leader carismatico, ma soprattutto come un autentico visionario, convinto lui per primo di incarnare una missione storica in una fase epocale per tutta la comunità dei credenti. Faris al-Zahrani lo fregia del titolo di mujaddid (rinnovatore). Nella tradizione islamica, questo titolo - che in epoca contemporanea è già stato attribuito all'ayatollah Khomeini e al fondatore dei Fratelli Musulmani, Hassan al-Banna - designa una sorta di attesa messianica: "la venuta di un uomo, discendente dal Profeta, per restaurare la religione nella sua ortodossia". (47) I testi di bin Laden possiedono una forza evocativa maggiore di quelli di al-Zawahiri. E questo perché la figura di Bin Laden è integralmente simbolica, deliberatamente collocata in un tempo che è ugualmente mitico e storico: la sua storia rimanda sempre al suo mito. L'uomo coincide - e deve coincidere - con l'immagine leggendaria del rinnovatore dell'islam. Così bin Laden rappresenta se stesso; e così lo vedono i suoi mujahidin. (48)

Se indugiamo sulla figura di bin Laden è perché il modo in cui tale figura si presenta può dirci qualcosa di interessante sulla concezione storica jihadista e sulle modalità con cui l'elite del movimento costruisce la propria legittimazione. Come si presenta bin Laden a Jamal Ismail, il cronista di Al-Jazira? (49) In terza persona, secondo la tradizione. Poi racconta la sua partenza da "al-Malazz" (il quartiere "empio" di Riyad) alla volta di Medina, partenza che allude all'egira del Profeta e intende comunicare una forte idea di predestinazione. Lo stesso vale per l'affermazione della provenienza medinese dei mujahidin afgani, quei "leoni" dell'islam che condividono con il giovane Osama l'esperienza della guerriglia contro i sovietici - un'esperienza esemplare per tutta una generazione di combattenti. (50) Il modo in cui viene presentata la figura paterna è altrettanto importante. In realtà Bin Laden non dice quasi nulla di se stesso, ma si presenta attraverso la figura del padre, cui si riferisce come vero servitore dei luoghi santi (51) e benefattore dell'islam. Ogni risvolto personale viene radicalmente espunto dalla narrazione: semplicemente non conta.

Lo stesso procedimento viene utilizzato nella narrazione degli eventi presenti. Non conta la loro individualità, ma la loro iscrizione all'interno di un universo simbolico più ampio. Alcuni esempi. Quando il comandante al-Muthanna al-Chaybani, al tempo del califfato di Omar, incoraggia l'esercito intimorito prima dello scontro con l'impero persiano, le sue parole sono ugualmente rivolte ai mujahidin schierati nella battaglia contro la superpotenza americana. (52) Al-Zawahiri assimila il lassismo dei regimi empi a quello dei murgiti (53) e le false conversioni del presente ai tempi oscuri dell'invasione mongolica. Ancora al-Zawahiri definisce gli americani e i loro alleati come "i nuovi Quraysch", riunitisi contro i musulmani a Medina. (54) Non potendosi muovere dall'Afghanistan, bin Laden invia una lettera ai fratelli iracheni, dove ricorda le parole del Profeta: "Giuro su Colui che possiede la mia anima che, se non dovessi occuparmi dei musulmani, non sarei rimasto seduto a guardare un drappello partire per combattere nel nome di Dio". (55) Gli iracheni di oggi diventano "i discendenti di Saladino", i figli di Omar, Abu Bakr e al-Muthanna, "il popolo di Rabia e Mudar"; Baghdad è ancora la sede del Califfato. (56) L'azione dei dirottatori dell'11 settembre viene letta alla luce del racconto coranico dei "compagni della caverna". (57) la Le vicende presenti vengono sistematicamente iscritte (e spiegate) nei versetti coranici e negli hadith, spesso ripetuti ad nauseam.

7. La concezione jihadista della storia

Insomma, nella letteratura jihadista la "storia" diventa una risorsa evocativa potentissima, ma al tempo stesso si estende fino ad annullarsi in una circolarità integrale, come se fosse arrivata a un punto di saturazione. È una "storia" che sottrae l'evento alle leggi del divenire (a quel mondo "insensato" dell'assoluta trasformazione che è oggetto della scienza storica positiva), e considera ogni vicenda sub specie aeternitatis, come se ogni accadimento, ogni lotta, ogni gesto del presente non fossero ormai che la ripetizione di uno stesso paradigma. Tutto appare già scritto nel Corano e nella Tradizione. Tutto sembra essersi già verificato nella "lunga marcia" dell'islam, dai tempi dei califfi "ben guidati" alle crociate. La storia appare come un enorme repertorio di exempla ed eventi primi: una sacra costellazione di punti fissi.

Questa impressione di immobilità è dovuta al fatto che i jihadisti concentrano tutta l'attenzione sulla lotta presente. La storia diventa quindi la rappresentazione di questo dramma fondamentale, una scena che richiede la mobilitazione di ogni possibile risorsa simbolica. Il finalismo, la conoscenza delle cause, persino la vittoria - tutto questo non può che restare sullo sfondo: ciò che conta è il fuoco sul jihad, un jihad che può ancora essere perso (nonostante gli americani siano una "tigre di carta", un esercito di "somari" e "codardi"), (58) perché il musulmano (e l'arabo in particolare) è oggi come "l'agnello tra i lupi". (59) Più che la certezza del trionfo, la visione storica jihadista mette in scena questo scontro decisivo e l'attesa che lo accompagna. Bisogna rimuovere ogni incertezza, ogni timore indotto dalla soverchiante potenza dell'avversario. E questo spiega l'onnipresente richiamo non solo alle battaglie vinte sul campo (l'agiografia di Jalalabad!), ma all'ethos tradizionale del guerriero islamico: il suo storico coraggio, certo, ma soprattutto la sua pazienza, la sua fermezza, e addirittura la sua tranquillità (sequina). (60)

Questo presente carico di sacre tensioni, e la sua trasfigurazione simbolica, emergono perfettamente da un passo cruciale di al-Zawahiri: "Se il nostro obiettivo è il cambiamento totale e se la nostra strada, come ci insegnano il Corano e la nostra Storia, è una lunga marcia di jihad e sacrifici, allora non dobbiamo perdere la speranza di fronte alla ripetizione dei colpi e alla ricorrenza delle catastrofi, né deporre le armi quali che siano le nostre perdite e i nostri sacrifici". (61)

Paradossalmente, a questa concentrazione assoluta sulla lotta presente, è proprio al-Zawahiri ad aggiungere una visione di ampio respiro - la restaurazione del Califfato - e una strategia di lungo periodo per realizzare tale visione - l'instaurazione di una base islamica in seno al mondo arabo. Il richiamo alla creazione di uno Stato islamico (come pre-condizione per il ritorno del Califfato) è molto più organico in al-Zawahiri che in qualsiasi altro teorico jihadista. (62) Scrive il leader egiziano: "Se i nostri successi contro i nemici dell'islam, e i gravi danni che abbiamo inferto loro, non saranno inseriti in un piano per istituire uno Stato islamico in seno al mondo musulmano, essi rimarranno - quale che sia la loro entità - semplici operazioni di logoramento, e il nemico riuscirà presto a contenerle e a superarle, malgrado le perdite subite".


Note

*. Commento a G. Kepel (a cura di), Al Qaeda dans le texte, Paris, PUF, 2005.

1. Ricordiamo, per esempio, quella uscita in italiano: I nuovi rivoluzionari. Il pensiero dei neoconservatori americani, a cura di Jim Lobe e Adele Oliveri, Feltrinelli, Milano, 2003.

2. Sotto il vessillo della Libertà combattono gli americani e la "coalizione dei volenterosi". Il richiamo alla libertà come valore fondamentale dell'Occidente è continuamente ribadito da Gorge W. Bush, che ovviamente stigmatizza il nemico in senso contrario (tirannia, oppressione, fanatismo). Nei suoi messaggi al popolo americano, Bin Laden ha reagito spesso contro questo genere di stigmatizzazione, replicando che i suoi mujahidin combattono proprio per liberare i loro territori dall'occupazione straniera e assimilando il presidente degli Stati Uniti a un tipico tiranno mediorientale. Cfr. Al-Qaeda, p. 101 sgg.

3. L'espressione è di Martin Wight, che ha classificato le guerre in tre grandi categorie: "wars of gain", "wars of fear" e "wars of doctrine", definendo queste ultime "guerre missionarie e o di crociata, guerre per asserire un principio e difendere una causa. Cfr. M. Wight, Power politics, Continuum, New York-London, 2004, pp. 138 sgg.

4. Diamo per scontato che si possa parlare di guerra, ma ricordiamo che si sta parlando di "war against terror" e di "jihad contro gli ebrei e i crociati". È una guerra che di "classico" non ha più nulla, e somiglia piuttosto a un'interminabile caccia tra gatto e topi, o a una gigantesca operazione di polizia interna. Abbiamo suggerito altrove che possa trattarsi di una modalità inedita di lotta partigiana. Ci permettiamo di rinviare alla nostra recensione di Robert Pape, Dying to win. The strategic logic of suicide terrorism, Random House, New York, 2005 (in questo sito, sotto la rubrica "Guerra, diritto e ordine globale").

5. Intervista apparsa su La Repubblica, 27/01/2006, p. 9.

6. Sulla biografia di al-Zawahiri, Stephane Lacroix attinge ampiamente al lungo e interessante articolo di Laurence Wright, "The man behind bin Laden", apparso su The New Yorker, 16/09/2002.

7. Faraj è autore di un'opera molto celebre - al-farîda al-ghâ'iba (l'imperativo occultato), pubblicata nel 1981 - dove, rifacendosi al teologo hanbalita Ibn Taymyyia, pone il jihad come sesto pilastro dell'islam e ne fa un dovere individuale (fard 'ayn) per ogni musulmano che si trovi a essere governato da tiranni miscredenti. Faraj opera anche l'importante distinzione tra il "nemico lontano" (gli infedeli) e il "nemico vicino" (i regimi che hanno corrotto e rinnegato l'islam), dando la priorità al jihad contro quest'ultimo. È proprio l'inversione di questa priorità che caratterizzerà l'azione di al-Qaeda dopo il 1998.

8. Ne rimarrà tanto segnato da dedicare all'argomento, dieci anni dopo, un libro intero: Il libro nero. La tortura dei musulmani sotto la presidenza di Hosni Mubarak.

9. La fase della prigionia, per al-Zawahiri, significa anche l'abbandono di una concezione elitista del jihad (l'azione rivoluzionaria condotta da una piccola avanguardia, il cui fine è prendere il potere con il minimo spargimento di sangue). Il periodo successivo sarà sempre più segnato dall'ossessione del rapporto tra l'avanguardia e le "masse dell'umma".

10. Azzam e bin Laden pare avessero anche idee molto diverse sul tipo di organizzazione da dare al jihad. Si veda il commento di Omar Saghi (Al-Qaeda, pp. 19-20). Sul significato del termine "qaeda", cfr. id., p. 34.

11. All'indomani dell'invasione del Kuwait, infatti, bin Laden aveva chiesto al re il permesso di organizzare una forza armata arabo-musulmana per difendere il suolo sacro e cacciare il tiranno di Baghdad dalla penisola. Come sappiamo, il re rifiutò l'offerta e affidò lo stesso incarico all'esercito americano, che sarebbe rimasto in territorio saudita dal 1990 al 2003. L'Arabia Saudita revocherà a bin Laden la cittadinanza nel 1994.

12. Nel 1993, dopo l'attentato al World Trade Center, al-Zawahiri compie persino un viaggio in California, nella Silicon Valley.

13. Cui va aggiunto, almeno per il ruolo che gioca nell'agiografia jihadista, il contributo dato dai mujahidin arabi (inviati dalle basi sudanesi e yemenite di al-Qaeda) alla guerriglia contro gli americani presenti in Somalia ai tempi dell'operazione "Restor Hope".

14. Per la "Dichiarazione", cfr. Al-Qaeda, p. 63 sgg. Il testo del 1998 riprende, legittima e sviluppa i termini esposti due anni prima da bin Laden in un'altra "dichiarazione di guerra" (cfr. id., p. 51 sgg.).

15. Su questo punto, cfr. Al-Qaeda, p. 277 sgg.

16. Cfr. anche Cor. 18: 38 e 3: 64.

17. L'espressione è di Giulio Soravia. Si veda la sua introduzione al Trattato sull'unicità divina (Risalat at-Tawhid) di Muhammad 'Abduh (Casa editrice il Ponte, Bologna, 2003, pp. 7-32).

18. Gli scritti di al-Zawahiri cui ci riferiamo in questa parte sono "L'amara messe. I sessant'anni dei Fratelli Musulmani " (p. 243 sgg.) e "Consiglio all'umma di rigettare la fatwa dello sceicco Ben Baz" (p. 263 sgg.).

19. Far coincidere islam e democrazia, dice al-Zawahiri, è tanto assurdo quanto identificare Muhammad in Musaylima (cfr. Al-Qaeda, p. 275).

20. L'espressione è di Mawdudi e viene ripresa da Qutb. Il termine jâhiliyya - l'età dell'ignoranza, anteriore all'avvento dell'islam - ha una connotazione fortemente negativa nella letteratura jihadista. Curiosamente solo bin Laden fa eccezione, riferendosi al coraggio esemplare degli arabi pagani. Cfr. Al-Qaeda, p. 75.

21. Id., pp. 265, 267 e 278.

22. Gran Muftì del regno saudita e autorità spirituale dell'islam sunnita di obbedienza wahabita. Nello stesso anno, Ben Baz emette anche una fatwa favorevole all'intervento di una coalizione guidata dagli americani per difendere il territorio saudita.

23. "I credenti non si alleino con i miscredenti, preferendoli ai fedeli" (Cor. 3: 28). Il principio è centrale in tutta l'opera di al-Zawahiri, a maggior ragione dopo la svolta strategica del 1998 (cfr. Al-Qaeda, p. 317 sgg.).

24. Ci riferiamo a Cavalieri sotto lo stendardo del Profeta (2001) e L'alleanza e la rottura (2002), opere di cui l'antologia che stiamo commentando riporta ampi stralci.

25. Al-Qaeda, p. 305.

26. Id., p. 51.

27. Id., p. 303.

28. La rappresentazione del nemico offerta da Pipes procede per anelli concentrici: al primo anello troviamo la rete terroristica vera e propria ("poche migliaia di fanatici"); al secondo, la popolazione dei militanti che non fanno parte delle organizzazioni terroristiche ("il 10-15% della popolazione musulmana mondiale"); nel terzo anello, infine, rientrano circa 500 milioni di musulmani che, pur non concordando con l'ideologia islamista e qaedista, simpatizzano con lo "sfacciato antiamericansimo" di bin Laden. Cfr. J.Lobe, A. Oliveri (a cura di), I nuovi rivoluzionari..., op. cit., pp. 124-139.

29. Dopo la "lunga tregua" offerta da bin Laden nella sua ultima dichiarazione pubblica (gennaio 2006), Rita di Leo ha puntato il dito contro gli Stati Uniti, rei di non aver concesso ai qaedisti "lo status di nemico in guerra", ma di averli definiti ribelli, privandoli così di una soggettività giuridica che avrebbe permesso un accordo di tregua (cfr. il Manifesto, 25/01/2006, p. 10). Secondo l'autrice, "la concezione del mondo «dei ribelli»" è il "principale ostacolo dell'american rule". Ora, se è lecito contestare la debolezza delle strategie belliche o egemoniche adottate dagli americani nella loro "guerra al terrore", è del tutto evidente che, dal punto di vista del nostro diritto di guerra, la conversione giuridica proposta da Di Leo non avrebbe avuto alcuna consistenza. La definizione dei ribelli di cui parliamo, semmai, rievoca ed estremizza lo spettro di problemi evocato da Carl Schmitt nella sua analisi della figura del "partigiano".

30. Queste critiche riflettono una profonda divisione in seno all'islam, tra quanti sostengono la dimensione locale-nazionale del jihad e quanti si appellano alla sua globalità.

31. Al-Qaeda, p. 307. In un passo molto originale, invece, bin Laden parla a questo proposito di difesa della "virilità" (rujûla). Trasferendo il discorso su un registro universalistico (decisamente insolito nella letteratura jihadista), egli afferma che la lotta dei musulmani coincide con la difesa della loro 'essenza di uomini', prima ancora che di correligionari. Il diritto di difendersi dagli aggressori, dal saccheggio dei propri beni, dalla corruzione del proprio culto ecc. è un diritto universale di resistenza all'oppressione che appartiene a "tutte le creature viventi, a tutti gli uomini, per non parlare dei musulmani" (id., pp. 73-75).

32. Cfr. J.Lobe, A. Oliveri (a cura di), I nuovi rivoluzionari..., op. cit., pp. 127.

33. Id., p. 287.

34. Sulla funzione rivelatrice dell'11 settembre, si veda Al-Qaeda, pp. 85-87 e p. 310.

35. Id., pp. 59-61.

36. Non è chiaro quale sia il motivo che scatena la dichiarazione di guerra jihadiista. Sicuramente non si tratta di un singolo evento, ma di un insieme di cause che infine fanno tracimare un sentimento di ingiustizia incontrollabile: l'occupazione dei due luoghi santi, le vittime innocenti dell'embargo in Iraq, la "giudaizzazione della Palestina" (ecc.). A questo proposito, è interessante notare che bin Laden si riferisce spesso a un profondo senso di risentimento, a una lunga gestazione dell'odio. Con Robert Fisk, lo sceicco saudita parla di una "enorme carica di rabbia"; e riferendosi agli attentati dell'11 settembre, sostiene che essi hanno mostrato "l'ampiezza del nostro rancore verso i crociati" (Al-Qaeda, p. 87). Impossibile non pensare al grande libro di Abdelwahab Meddeb, che proprio nel risentimento - in senso nietzscheano - ha individuato "la malattia dell'islam" (A. Meddeb, La maladie de l'islam, Seuil, Paris, 2002).

37. Al-Qaeda, p. 285. Le altre leve utilizzate dal nemico sono l'ONU, i governi fantoccio dei paesi musulmani e le "ONG utilizzate per spiare, complottare, fare proselitismo e contrabbando di armi".

38. Matrice tipica, del resto, di tutte le "rivoluzioni" mediorientali, con la sola eccezione dell'Iran.

39. Corsivo nostro. Per questa citazione e le seguenti, cfr. Al-Qaeda, p. 291 sgg.

40. Ancora una volta bisogna ricordare che questa semplificazione del linguaggio costituisce una sfida diretta alle autorità religiose tradizionali (agli "ulema di palazzo").

41. Al-Zawahiri critica aspramente ogni "santificazione" dell'elite dirigente. La leadership va conquistata sul campo, e le sue capacità vanno misurate con l'effettivo grado di mobilitazione e di consenso popolare che essa sa conquistare. Cfr. Al-Qaeda, p. 289-291 sgg.

42. Id., p. 293 ("Cavalieri sotto lo stendardo del Profeta").