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Quale comunicazione?

di Giuseppe Gorlani - 08/02/2009

 

«Così poiché niente hanno e niente possono dare, s’adagiano in parole che fingano la comunicazione»
(Carlo Michelstaedter, “La Persuasione e la Rettorica”, Adelphi, Mi).

Dopo che l'ecumenismo e il pot-pourri mondialista hanno reso accessibili alle masse alcuni testi Zen e di altre tradizioni apofatiche orientali, mi pare che tra gli aspetti negativi che ne sono derivati (oltre a quelli positivi, naturalmente) vada incluso il diffondersi nelle conversazioni e nella corrispondenza – almeno presso certi ambienti pseudo spiritualistici e di scarso spessore intellettuale – della moda aforistica, nello stile koan.
Personalmente non di rado mi capita, rivolgendomi a qualcuno con argomenti fondati sulla logica, di ricevere risposte senza capo né coda.
Si deve considerare che gli aforismi, i koan o i nonsense dei maestri Zen si situano su un piano diverso da quello dialogico e si rivolgono per lo più a persone che con i suddetti maestri hanno una relazione spirituale di aspirazione all'Illuminazione. Solo la guida spirituale, accettata volontariamente da un discepolo, o un caro amico, può dunque permettersi di violare le più elementari regole della comunicazione verbale o scritta, e ciò naturalmente con l'intenzione di aprire un varco sull'Indicibile.
La mia impressione è che spesso dietro le mezze risposte o i mezzi silenzi o le arguzie incomprensibili si nasconda in realtà una sostanziale mancanza di comprensione, associata all'incapacità di affrontare un argomento con il dovuto rigore e alla paura di esporsi.
L'attenzione si nutre di attenzione, il rispetto di rispetto, l'intelligenza di intelligenza. Se ad un discorso portato avanti con energica concentrazione si replica distrattamente, saccentemente o non si risponde affatto (come capita di frequente nei più vari ambiti relazionali), le qualità sovramenzionate vengono tradite e il potere arricchente della comunicazione (da cum-munire, "edificare insieme") si riduce a ben poco.
Milioni di persone oggi "chattano" stolidamente, terrorizzati dal pensiero della morte-nulla che invano tentano di rifiutare, ma quanti si applicano con vigore ad un dialogo che li spinga a superare i limiti dei pregiudizi e il cui primo requisito sia quello di tenersi pronti a correggere le proprie idee, qualora se ne riconosca la necessità?
Un'altra tendenza, collegata alla superficialità della comunicazione e oggi ampiamente diffusa nella cerchia "new age", consiste nel ritenere che la ragione e l'intelligenza debbano essere rigettate affinché possa emergere in noi il "bambino interiore". Tale pretesa, che mi sembra una evidente parodia dell'insegnamento evangelico e della tradizione Zen (secondo la quale l'Illuminato, in stato di satori o kensho, guarda la vita con gli occhi di un vitellino da latte o di un neonato), non ha altro scopo che sospingere viepiù l'individuo nelle panie dell'alienazione. Il rifiuto dell'intelligenza, è invece, secondo me, una tra le più evidenti caratteristiche dell'Era Oscura nella quale siamo immersi.
È certo corretto affermare, apertis verbis, che la ragione dicotomica non sarà mai in grado di accedere alla dimensione della Fede o della Conoscenza metafisica (un non-sapere, dal punto di vista profano), ma va altresì precisato che essa può essere trascesa (non negata) soltanto pregiandola e realizzandola in pieno. Sri Shankara, codificatore dell’Advaita Vedanta, sosteneva che il dono del pensiero andrebbe utilizzato come il rametto incandescente che svanisce nel fuoco da esso stesso acceso.
Bisogna inoltre notare che nel linguaggio tradizionale all'intelligenza sono sempre stati attribuiti due aspetti, uno inferiore e l'altro superiore. Quest'ultimo equivale alla buddhi della tradizione hinduista o al mercurio ignificato (ovvero, vivificato dallo zolfo-spirito) dell'alchimia.
Sul Glossario Sanscrito (ediz. Asram Vidya, Roma), alla voce buddhi, leggo: «L'intelletto superiore, intuizione, intelligenza. L'intuizione discriminativa dell'organo interno. La parte più sottile e pura dell'organo interno (antakharana) che, costituendo nell'individualità umana un piano di rifrazione, capta un riflesso della luce dell'Atman o della pura coscienza. [...] Organo della conoscenza discriminatrice. Ragion pura. Centro dell'essere totale e integrale [...] Intuizione degli universali. Intuizione intellettuale». La sede di tale facoltà – che funge da ponte tra il dicibile e l'Indicibile – è il Centro del Cuore, ovvero l'anahata-chakra, donde emana la consapevolezza di essere.
Comunemente si ritiene che l’uomo moderno si sia ammalato per un uso abnorme della ragione, a discapito di altre sue facoltà; a mio modesto avviso, invece, l’uomo si è ammalato di stupidità acuta e di astrazione proprio per aver rifiutato la ragione, l’intelligenza e, in particolare, il suo aspetto sottile-intuitivo, la buddhi, sostituendole con una forma di abilità funzionale al soddisfacimento della sua avidità senza fondo.
Giovanni Reale e Dario Antiseri, in Quale Ragione? (Raffaello Cortina Edit., Mi) si interrogano su quanto sia davvero ragionevole la pretesa scientista di sostituirsi alla religione e di invadere i campi della filosofia e della metafisica. I risultati sono sconfortanti: quelli che oggi sanno ragionare sono davvero pochi. Un esempio, tra i molti, di quanto sia scarsa l'attendibilità dell'ambiente accademico-scientifico ci viene dalla triste vicenda patita dal genetista antievoluzionista Giuseppe Sermonti, il quale, dopo aver pubblicato nel '71 Il Crepuscolo dello Scientismo, una critica serrata alla tendenza generale di ridurre la scienza a ideologia materialista-progressista, non solo perse la cattedra di Genetica a Roma, ma da allora venne fatto oggetto di aspra denigrazione ed ostracismo. Per non dire del caso, da me direttamente appurato, di una studentessa che, in sede d’esame, si trovò in difficoltà per aver osato proporre, con argomentazioni documentate e ragionate, la tesi secondo la quale l’insegnamento del Buddha non faccia che ricalcare quello upanishadico del Sanatana Dharma, tesi ampiamente accreditata in India ma indigesta agli ambienti accademici filobuddhisti di alcune università. E che cosa pensare di certe assurdità elargite dall’alto, secondo le quali è antisemita chiunque critichi la politica sionista dello Stato di Israele o si permetta di manifestare solidarietà col popolo palestinese di razza semita? E come si può accettare che la verità storica venga dettata a suon di intimidazioni, di leggi o di ricatti di stampo terroristico? Non si può certo sostenere che dagli esempi riportati emergano perspicacia, onestà intellettuale e sensatezza.
Del resto, dato che l'intelligenza (da intus-legere o inter-legere) è di chi sa penetrare o mettere le cose in relazione tra loro, non può essere detto intelligente l'uomo le cui ragioni provengano da una visione fondata esclusivamente su abitudini definitorie della percezione o, per dirla con altre parole, su pregiudizi e luoghi comuni; una visione, cioè , che non sa contemplare spassionatamente se stessa.
Sono pertanto convinto che soltanto attraverso un'affermazione completa della ragione si possano sconfiggere i morbi dello scientismo e del “pensiero unico”; una ragione pienamente espressa riconosce necessariamente i propri limiti e si inchina al Silenzio che la sovrasta.
Ma ritorniamo al tema portante delle nostre riflessioni, ovvero alla comunicazione.
Si sa che gli Antichi dedicavano giorni interi e le proprie migliori energie all’otium sacrum, nel quale, oltre alla contemplazione o alla creatività artistica, erano inclusi discorsi volti a sviscerare il senso essenziale dell'Essere.
In Tibet si narra che una donna, dopo aver intrattenuto una conversazione profonda (ovvero un rapporto tantrico) con un certo viandante illuminato, se ne andò per dieci anni in mezzo alle montagne a meditare.
Nella biografia di Tolkien, di H. Carpenter, mi ha colpito il fatto che il grande narratore e filologo inglese dedicasse numerose sere a letture comuni a cui seguivano riflessioni, commenti e discussioni sui temi fondamentali dell'esistenza. Uno tra i suoi più grandi amici, C.S.Lewis, da agnostico si fece cristiano dopo aver trascorso un'intera notte a riflettere con Tolkien e Hugo Dyson sul valore dei miti e, in particolare, su quello dato per storicamente vero della crocifissione e risurrezione di Gesù.
Oggi, tuttavia, a parte alcune rare isole in cui si continua a celebrare l'"edificare insieme", pare che siano la superficialità, la maldicenza, la menzogna sistematica e l’ebetudine consumistica, enormemente amplificate dai media, a dominare pressoché incontrastate.
E dire che persino l'acuto Elémire Zolla sosteneva di intravvedere nella diffusione dell'esperienza virtuale e della telematica una possibilità per molti di liberazione dall'ignoranza-avidya. Pur apprezzando il grande studioso, dotato tra l'altro di una sensibilità all'Ineffabile fuori dal comune, ritengo che su questo punto egli si sia nettamente sbagliato.
Che se ne fa una mente robotizzata - votata alla produzione, al consumo e alla paranoica negazione del silenzio - delle tanto decantate possibilità cognitive offerte da internet? Accumulo di nozioni e conoscenza di sé sono due cose affatto diverse. Con ciò non si vuole sostenere l’impossibilità totale di padroneggiare e utilizzare creativamente la tecnologia più sosfisticata, trasformando il veleno della quantità nel farmaco della qualità, ma che nella maggior parte dei casi le persone vengono ulteriormente frastornate e annichilite dal bombardamento informatico.
E che cosa va a fare il turista in ogni angolo del pianeta, trasportato da veloci jet o da altri veicoli sofisticati, se non ad autocompiacersi per essere riuscito, identificandosi nel "pacificatore-macellaio" di turno, a rinchiudere in zoo per umani gli sconfitti e i non civilizzati? (In proposito si consiglia la lettura della bella poesia Los Indios di Pablo Neruda, tratta da Canto General del Chile – Sansoni, Fi -, di cui cito solo alcuni versi: «e quelli che fucilarono la terra, / quelli che nei sentieri difesi / dal gladiatore abbacinante / della nostra propria riva / entrarono sparando e contrattando, / li chiamarono 'Pacificatori' / e gli moltiplicarono i gradi»).
Quando a Benares, seduto in mezzo a sadhu, lebbrosi, vacche e pellegrini, vedevo arrivare frotte di turisti su pullman lussuosi, beh, devo essere sincero, questi ultimi, emblemi del progresso occidentale, mi apparivano come enormi sacchi o scatole dalle quali una mano invisibile spalava cadaveri: bevevano coca-cola, mangiavano patatine e fotografavano, ma non vedevano e non sentivano nulla.
Non ho mai "rubato" nella mia vita, tranne due volte, in India, dove ho vissuto per quasi tre anni, senza denaro né passaporto. Gli oggetti di cui mi appropriai furono una malandata macchina fotografica ed un orologio; questi ammennicoli, che ai miei occhi, come a quelli di milioni di indigeni, non avevano alcun significato, acquistavano un valore soltanto se trasformati in chapati e puri (due tipi di pane) , chai (tè con latte e spezie) o bidi (minuscoli sigari di tabacco avvolto in foglie di non so quale albero).
Forse vi scandalizzerò, ma non mi sento assolutamente in colpa per quei "furti"; anzi, se mi fosse stato possibile, vi assicuro che avrei rubato anche tutti i televisori e i computer per poter aggiungere a quanto sopra un po' di incenso da offrire a Shiva (il nume della natura selvatica, dei diversi, dei non integrati nella retorica della polis democratica), un buon lunghi (rettangolo di cotone da avvolgersi intorno alle reni) e una pannocchia abbrustolita.
In sintesi, l’uomo in quanto tale necessita di realtà, non di virtualità. Ha bisogno del fuoco, delle nubi, del grano, dei boschi, di paesaggi da contemplare con amore e nella cui bellezza riconoscersi. L’uomo ha bisogno di conoscersi, di penetrarsi nell’intimo, di comunicare armonicamente con gli altri enti, umani e non umani, che sono gli innumerevoli volti del Purusha, il Sé-Atman consapevole di essere l’Essere. L’esatto contrario di quel che propone o impone la cosidetta civiltà moderna. Questa ci spinge verso l’orrido baratro dell’apparenza, verso la nescienza e l’autodistruzione.
"Anche tu però possiedi un computer", obbietterà qualcuno. Già, è vero! Amici "ladri" e voi, ultimi uomini liberi ed integri, fatevi pure avanti: qui c'è un nulla da rubare che non serve a nulla. Quale stupendo prodigio evochereste se riusciste a trasformarlo in un buon tè caldo e in un fuoco acceso intorno al quale dialogare serenamente.
Riuscirà mai Prithivi, la nostra madre terra, a digerire tutto il pattume moderno derivato dalla magnificazione del nulla?