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Ellen Berman, l'Italia e le transition town

di Daniel Tarozzi - 08/02/2009

Vi proponiamo la seconda parte dell’intervista ad Ellen Bermann, presidente della nascente associazione Transition Italia. Questa volta approfondiremo il caso delle prime città italiane in transizione, analizzeremo il contesto latino, molto diverso da quello britannico, e allargheremo il discorso al contesto internazionale, con la crisi finanziaria e il sali-scendi del prezzo del petrolio.


 

Ellen Bermann
Ellen Bermann durante il primo incontro italiano sulle città in transizione organizzato ad "Alcatraz"
Ellen Bermann, in Italia si è cominciato a parlare di città in transizione pochi mesi fa. A che punto siamo?

 

“Siamo tuttora all'inizio di un cammino che promette però molto bene per il futuro; l'approccio Transition Town, infatti, comincia a mettere radici anche qui. Grazie alla forza della rete, singole persone che si sono appassionate all'idea hanno iniziato a coordinarsi tra di loro per far nascere un hub italiano: l'associazione Transition Italia che ha come scopo principale quello di divulgare gli strumenti della transizione e quello di proporre momenti di formazione”.

Cosa pensi di iniziative come quelle di Monteveglio, Granarolo, L’Aquila?“Sono i primi germogli sul territorio italiano, che andranno seguiti con cura ed amore in modo che crescano al meglio e possano fungere da ispirazione per quelle che seguiranno. Non dobbiamo dimenticarci che dietro il nome di una città ci sono sempre delle persone. Perone che hanno deciso, con grande coraggio, di prendersi in carico un compito per certi versi mastodontico, ma che spesso dispongono di esigue risorse, sia di tempo che economiche, e che quindi necessitano di una presa di responsabilità quanto più condivisa e di una partecipazione concreta a fattiva di tante altre persone”.

Credi che il contesto italiano sia adatto al movimento delle transition town, o la cultura latina necessità di strumenti diversi?“Questa è una delle principali riflessioni che stiamo facendo. Intuitivamente, vedo sicuramente delle differenze nel contesto culturale e sociale, per cui il modello, di stampo anglosassone con grande enfasi all'esperienza empirica, probabilmente dovrà essere adattato alla nostra realtà e al modo di pensare ed agire che ci è proprio. Anche la sovrastruttura legislativa e burocratica italiana potrebbe richiedere strade alternative. Dall'altra parte se si riuscisse veramente a sprigionare la creatività ed il genio tipicamente latino ed integrarlo con una buona dose di pragmatismo anglosassone, si potrebbe ottenere veramente una miscela esplosiva! Solo facendo e sperimentando saremo in grado di dirlo, al momento è un po' prematuro giungere a conclusioni”.

Le grandi città come Roma, Milano, Napoli, Palermo, hanno qualche possibilità di partecipare al movimento?“Vorrei enfatizzare che parliamo sempre di persone o meglio gruppi di persone, che in questo caso vivono in aree di maggiore concentrazione urbana. Sicuramente il tessuto sociale in genere più frammentato che nelle piccole realtà e l'estensione dell'area urbana stessa comportano una maggiore difficoltà iniziale. In questo caso, a persone che vivono in codeste realtà e che vorrebbero attivarsi, consiglierei di iniziare ad operare per aree più circoscritte, in quartieri, coordinandosi con altre persone con le quale costituire un gruppo guida e proporre, attraverso un lavoro propedeutico, di ricreare dei momenti e dei luoghi di aggregazione. Io stessa, vivendo tra Milano e Como e avendo le mie relazioni sociali anche molto dispersi su un territorio molto vasto, mi sto chiedendo come andare a conoscere persone nelle vicinanze, motivate ad avviare insieme a me un progetto di transizione nella località dove vivo. Chissà, magari la soluzione per cercarsi e richiamarsi potrebbe stare negli strumenti di social networking tramite la rete internet. Stiamo cercando di capire come possiamo utilizzare al meglio tale strumento proprio per far fronte all'isolamento che molte persone percepiscono”.

Lo scenario mondiale è in continuo mutamento. Credi che le transition town riescano a stare al passo con i tempi e con la crisi finanziaria e i sali-scendi del petrolio?“Probabilmente potrà proprio essere questo scenario tanto instabile ed incerto a creare le condizioni che spingeranno sempre più persone a cercare un cambiamento di direzione, passando da una società basata sulla crescita economica perpetua ad una società sostenibile, cioè che sostiene la vita sulla terra. Quello che mi piace delle transition towns è proprio lo spirito flessibile e l'umiltà di ascoltare ed accogliere altri apporti che possano rinnovare costantemente l'approccio”.

Il prezzo del petrolio è ai minimi. Significa che il picco è lontano?“Fermo restando che non si può esattamente definire quando ci sarà il picco di produzione del petrolio a livello globale, in quanto non sempre tutti i paesi produttori rendono pubbliche le loro reali riserve, siamo a mio avviso molto vicino alla massima capacità di produzione. In un certo senso, lo scenario economico attuale che stiamo vivendo è stato in parte anche indotto da un livello di prezzo del greggio non più sostenibile. Siamo all'interno di un collasso sistemico in cui anche il prezzo del petrolio potrebbe avere un andamento schizofrenico”.

Ma in concreto, perché qualcuno dovrebbe cercare di fare entrare la propria città in transizione?

“Perché i cambiamenti in atto o che ancora devono avvenire, possono essere subiti passivamente, magari anche con conseguenze catastrofiche, oppure affrontati proattivamente con intelligenza collettiva. E poi perché in una città “transitata” la vita potrebbe essere veramente vissuta meglio e in modo più ricco e soddisfacente. Non importa se domani la chiameremo ancora transition town o in altro modo”.