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Disumani

di Andrea Marcon - 10/02/2009

    
Su casi come quello di Luana Englaro, lo confesso, faccio molta fatica ad avere una posizione precisa. Guardo con interesse, e anche un pizzico d’invidia, a tutti coloro che su simili vicende, così come su altre questioni cosiddette etiche, manifestano opinioni estremamente nette, frutto di convinzioni radicali. Io tutte queste certezze non le ho: se sia giusto o meno porre fine alla vita di chi è ridotto ad un vegetale da quasi 20 anni, credo sia un dilemma angoscioso al quale non riesco che dare risposte contraddittorie.
Tuttavia tutta questa vicenda, anche senza entrare nel suo merito più profondo, suggerisce a mio avviso non poche riflessioni e suscita altrettanti timori, per non dire orrori. Più il dibattito sul destino di Eluana Englaro si è acceso, più media, politici, Chiesa, gente comune si sono rincorsi in una discussione senza soste e senza fine, più ho sentito dentro di me crescere un’istintiva insofferenza. E non parlo solo di quella generata dal ripugnante meccanismo mediatico di spettacolarizzare tutto e tutti, ad esempio violando ripetutamente l’intimità e la sofferenza di persone come il padre di Eluana. No, ho sentito subito che c’era dell’altro dietro il mio crescente disagio, che si manifestava uguale a prescindere dal fatto di assistere a interventi favorevoli o contrari alla sentenza che ha decretato il “diritto” di Eluana a morire. Dopo un po’ sono riuscito a focalizzare la fonte del mio malessere interiore: era la netta sensazione di assistere ad uno spettacolo disumano. Non so, lo ripeto, se sia giusto togliere l’alimentazione ad una persona in coma irreversibile da così tanto tempo. Ma avverto come profondamente aberrante che su una simile questione si interroghino e decidano dei giudici piuttosto che dei medici o altri “tecnici” considerati quali novelli sacerdoti detentori delle chiavi di misteri come la Vita e la Morte. Percepisco qualcosa di orrendamente contro natura in tutto ciò, respiro quel clima asettico e inumanamente freddo che deve avvertire un moribondo sul letto di una camera di ospedale tra l’odore di disinfettante e la visione di quei colori verdastri tenui e senz’anima. Nella nostra società ipertecnologizzata e dove tutto è oggetto di delega, il destino dei nostri simili è lasciato ad una cerchia di “esperti” chiamati a pronunciarsi sulla base di cifre, bollettini medici, diagrammi, statistiche. Persino uno dei momenti culminanti dell’esistenza, ovvero la sua fine, è sottratta alla nostra sfera di intimità e fatta rientrare nell’ambito di chi vanta maggiori competenze specifiche, come se la vita e la morte non fossero in fondo anch’essi che fenomeni scientifici da studiare e sezionare alla luce del diritto o della medicina.
Lungi da me esprimere un giudizio sulle scelte del padre di Eluana Englaro: non voglio anch’io far parte del codazzo di tanti importuni suggeritori o censori. Però la sua scelta mi sembra rientrare in questa fiera della disumanità: non parlo della volontà di far morire la figlia, ma della decisione di ricorrere ad un Tribunale perché ciò possa avvenire. Che un gesto di simile portata si debba esprimere attraverso le carte dei legali mi fa rabbrividire. Dov’è l’Uomo in tutto questo?