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La lunga marcia del mais

di Claudio Magris - 10/02/2009

     
 
Claudio Magris intervista lo storico dell’economia Roberto Finzi sulla funzione sociale, economica e culturale che il mais ha svolto nelle campagne italiane fra XVI e XX secolo, in occasione dell’uscita del libro di Finzi Sazia assai ma dà poco fiato. Dall’intervista emerge come l’alimentazione contadina prevalentemente a base di farina di mais fu la causa della diffusione permanente della pellagra nelle regioni del nord Italia durante il XIX secolo. Solo le trasformazioni socio-economiche del XX secolo permisero di debellare questa devastante malattia dalle campagne italiane. Secondo Finzi il mais prese il nome di granoturco in Italia perché la definizione di “turco” designava, nell’immaginario italico d’età moderna, tutto ciò che era forestiero, altro, insomma estraneo alla propria cultura.

Il cacao arriva in Spagna dal Nuovo Mondo nel 1520, ma viene introdotto nei Caraibi nel 1525 e di lì rimbalza in Europa e tante storie simili si possono narrare per il caffè, il tè e altre colture, patata compresa; l’esotico e l’originario si scambiano spesso i ruoli. Le geografie della storia sono un orizzonte affascinante per la conoscenza delle civiltà, dell’uomo, dei progressi e degli errori che segnano il suo cammino; su questo tema sono stati scritti capolavori storiografici. Un recente, incisivo e affascinante libro che segue tali tracce è il volume di Roberto Finzi, Sazia assai ma dà poco fiato. Il mais nell’economia e nella vita rurale italiana. Secoli XVI-XX [...]. Storico dell’economia [...] Finzi mostra nei suoi libri come la storia dell’economia sia fatta di grafici, di cifre, di parametri, ma anche e soprattutto di avventure e passioni umane, di calcoli e di sentimenti irrazionali, e sia una parabola dell’intraprendenza e insieme della fallibilità umana, con le sue conquiste, le sue ingiustizie, i suoi abbagli, le sue sofferenze.
Nella sua vasta opera, rigorosa e affidata a una felice scrittura che fonde analisi e narrazione, Finzi si è occupato dei temi più vari, dai classici dell’economia quali Turgot o
Smith alla storia del clima e a quella della scienza; dall’antisemitismo all’avvento del mondo industriale alla storia dell’agricoltura, in cui natura, tecnica e questione sociale si fondono in unità. [...]
In questo libro di Finzi, «la lunga marcia del mais» alla conquista dell’Europa, e specialmente dell’Italia, s’intreccia, con grande suggestione anche letteraria, alla storia sociale del nostro Paese e della sua lunga miseria contadina e anche alla storia, clinica e sociale, della medicina, in quanto una nutrizione basata quasi soltanto sul mais — la polenta dei miei avi friulani — causa la
pellagra, con le sue devastanti e abbrutenti conseguenze fisiche e psichiche, la cui natura e le cui origini sono oggetto di discussione scientifica e investono teorie antropologiche (lo stesso Lombroso). [...]

«Nel tuo libro — gli chiedo — il dibattito sull’origine della pellagra, affrontato senza forzature ideologiche bensì in rigorosa chiave scientifica, sfocia inevitabilmente nelle discussioni con tutta una cultura (le teorie sulla degenerazione e sull’inferiorità psichica) e con un sistema economico-sociale alla base, almeno in buona parte, della malattia. La lotta per debellare quest’ultima è pure lotta politica. Se ne deduce che, in generale, la conoscenza, per essere tale, deve trapassare in azione?».
«Sai meglio di me che, specie in storia, bisogna essere assai cauti nelle generalizzazioni. E tuttavia non soltanto la vicenda della pellagra mostra che, per dirla con una lontana formula oggi dimenticata, solo pensiero e azione insieme possono davvero risolvere i problemi. Nel caso della pellagra c’è uno scontro sulla eziologia che è pure dissidio politico. Gli uni — che inizialmente hanno minori prove “scientifiche”, di laboratorio — attribuiscono il male alle condizioni sociali delle campagne e all’alimentazione da esse determinata; dunque per debellare il male occorre mutare le condizioni di vita degli strati più indigenti del mondo rurale. Gli altri — dalla cui parte stanno microscopi e provette — attribuiscono la malattia al mais guasto e dunque ne accollano la responsabilità in primis a quegli stessi che ne sono vittime. Dando vita, dirà un avversario di questa tesi, a una giusta guerra “alle muffe e alle truffe”. Ché il mais guasto fa di certo male. D’altra parte, chi pensa che la pellagra venga dal mais avariato, non trova altro rimedio per combattere la malattia che nutrire i malati con una alimentazione adeguata, dando implicitamente ragione agli avversari».

«Anche il mais conosce la modificazione genetica, oggi sempre più frequente in ogni settore, superstiziosamente demonizzata o ciecamente celebrata. Illuminista, razionalista e progressista, nemico di ogni pathos misticheggiante e apocalittico, tu sei illuministicamente critico nei confronti di ogni scientismo trionfalistico e dogmatico, privo di autocritica. In questo libro sottolinei pure certe inquietanti conseguenze del mais transgenico e le incognite della manipolazione genetica, che pure fornisce tante risorse. Il mais dunque quale esempio simbolico della dialettica del progresso, delle liberazioni e dei disastri che ci possono arrivare dalla tecnica?».
«Anche. Mais e patata, scriveva Adam Smith nella Ricchezza delle nazioni, nel 1776 — sono forse i due maggiori progressi derivati all’Europa dalla sua proiezione al di là degli oceani. Ma, per essere accettati, dovettero superare numerosi sospetti. Che non erano, come a lungo si è detto, frutto della sola ignoranza. Il titolo del libro viene da una notazione di un agronomo del ‘600 che la attribuisce ai contadini che mangiano la polenta: buona, che riempie la pancia ma “dà poco fiato”, non dà forza. Si mangia di più e si rende di meno. La diffidenza verso il progresso, dunque, non è aprioristica; è il risultato di una esperienza. I mais ibridi sono stati un grande progresso, ma hanno creato nuove dipendenze. Non è infatti possibile piantare un seme di mais ibrido e ottenere di nuovo mais ibrido, sicché il diretto coltivatore deve di anno in anno comperare le sementi. Per i transgenici nessuna ripulsa, ma precauzione sì».

«Come il mais nelle culture precolombiane degli indios nell’America Centrale, il frumento ha avuto in Europa un grande significato spirituale: nell’antica Grecia l’iniziazione ai Misteri Eleusini si concludeva con la contemplazione di una spiga di grano; nel Vangelo il chicco di grano che muore e rinasce è un simbolo centrale e nell’Eucarestia il pane diventa il corpo di Cristo. Nel Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché, si dice che “di mais giallo e di mais bianco venne fatta la carne dei nostri padri”; la coltivazione del mais ha prodotto arte (per esempio la musica del tamburo che scandisce la macinazione) e la sua difesa viene affermata quale difesa di tutta una civiltà da un capitalismo alienante: “noi siamo fatti di mais e se vendiamo quello di cui siamo fatti facciamo mercato della nostra stessa carne”, si dice in Uomini di mais di Asturías, premio Nobel 1967. Esiste in Italia, in Europa, sia pure in tono minore, un qualche alone simbolico del mais, magari evocato dalla suggestione esotica del termine granturco?».
«Un alone simbolico esiste di certo. E l’esempio più curioso viene proprio, come tu noti, dal termine “granturco”. Perché mai turco un cereale che viene dall’America? Fino alla sconfitta definitiva degli Ottomani nel 1683 sotto le mura di Vienna, il “turco” è l’altro, il diverso, il “forestiero”, e pure il nemico, per eccellenza. Oltre il mais, altre piante che hanno attraversato l’Atlantico, come il fagiolo e il peperone, vengono indicate come “turche”. Quanto non è cristiano, evoca la terribile angoscia del “nemico interno”. Ed ecco che, ad esempio, in Catalogna correva la voce che pomodori e peperoni fossero velenosi e che fossero stati portati con loro dai Mori, di modo che erano morti più Catalani per averli mangiati che in battaglia».

Roberto Finzi, Sazia assai ma dà poco fiato. Il mais nell’economia e nella vita rurale italiana. Secoli XVI-XX, Bologna, Clueb, 2009, pp. 154, € 20.