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Paracelso e l’Alchimia

di Paolo Lucarelli - 11/02/2009

Fonte: zen-it.com

 

Dovessimo dare una definizione di alchimia e fossimo taoisti, non avremmo problemi: sarebbe ovvio che si tratta di un’arte che mira all’immortalità di chi la pratica, a divenire xen ren.
Altrettanto facile e spontanea sarebbe la risposta per un indiano, buddista tantrico o shivaita: una via che conduce allo stato di jîvanmukti, il liberato in vita.
Un islamico sunnita ortodosso forse avrebbe qualche difficoltà, ma se shi’ita, la definirebbe con semplicità come un metodo per entrare in contatto col divino. Avicenna direbbe, con l’intelletto attivo.
Infine uno junghiano sosterrebbe che si tratta di un sistema per integrare i contenuti dell’inconscio collettivo nella psiche conscia e sanare così la propria mente.
Nell’Occidente cristiano invece la definizione tradizionale ed ufficiale, sin dall’epoca più antica, è più banale e meno eterea. Si può enunciare brevemente: l’alchimia è l’arte che permette di fabbricare oro o argento, o, se si preferisce, di transmutare in metallo nobile quelli di minor valore. Solo verso la fine della sua breve e stentata esistenza ai margini della cultura europea, e sempre con molta prudenza, si trovano accenni ad una Pietra Filosofale non solo transmutatoria, ma anche benefica per il corpo dell’uomo, la Panacea Universale.
Dunque in Europa con alchimia si intende qualcosa di molto pratico, molto profano, e questa visione è ancora più netta agli inizi del XVI secolo, quando Paracelso compare sulla scena del mondo. Anzi, delle due definizioni sarà proprio lui ad enfatizzare la seconda, senza trascurare l’altra, sostenendo nel “Paragrano”, da medico quale era:
Lo scopo dell’alchimia non è, come si è detto, fare oro o argento, ma dare arcani e dirigerli contro le malattie: questo è il risultato, ed è anche la base.
E, coerentemente, nel “Labirinthus Medicorum Errantium”, intitola il V capitolo: Il libro di alchimia, senza la quale nessuno può essere medico. D’altra parte sembra indubbio che Paracelso con questo termine intenda la preparazione di medicine per le varie malattie. Si tratta di una definizione esclusivamente farmaceutica che ha, rispetto a quelle più metafisiche, o “esoteriche”, il vantaggio di essere molto chiara, e, se vogliamo, anche molto moderna.
La particolarità consiste piuttosto nel fatto che, come si è sostenuto, Paracelso pare attribuisca più importanza al metodo di preparazione che non alla natura della sostanza di partenza o del preparato finale. Non è proprio esatto, ma è certo che nella sua teoria la preparazione ha un valore speciale.
Il suo sistema terapeutico si basava sulla convinzione che nelle singole sostanze naturali, i semplici, esistessero potenti energie in grado di agire sugli organi dell’essere umano o sullo specifico malanno. Il problema consisteva nel saperle ricavare, per arte separatoria, cioè spagirica, dalla componente grossolana, escrementizia nel linguaggio paracelsico, per ottenerle in tutta la loro purezza e virtù: in ciò la base dell’arte alchemica, cioè, come ho detto, nella preparazione.
In termini moderni, oggi diremmo che aveva individuato l’esistenza dei “princìpi attivi”, gli arcana, e il problema della loro estrazione, e che questo chiamava “alchimia”.
D’altra parte, Paracelso era ossessionato dall’idea stessa di escremento. Non solo ne parla continuamente – tutto questo mondo per lui è escrementizio – ma anche tutta la sua patologia si fonda sull’idea che il corpo si ammala solo quando non è più in grado di espellere perfettamente, in un modo o nell’altro, gli escrementi, cioè le parti grossolane del nutrimento, compresa l’aria respirata. La cura consiste perciò, sempre, nell’eliminazione di questi elementi estranei, o dal singolo organo o dal corpo nel suo complesso.
Per ottenere questo risultato, data la convinzione che il corpo umano ha già in sé la capacità di curarsi, cioè di liberarsi del male eliminando le parti grossolane estranee, si deve trovare il modo che restituisca vigore all’organo o al complesso umano. Ancora, in termini moderni, un po’ anacronisticamente, potremmo dire che la medicina paracelsica consisteva nel rafforzare il sistema immunitario perché provvedesse da solo alla guarigione.
A questo punto potremmo già tentare una conclusione: Paracelso fondatore di una farmaceutica protochimica, certo in anticipo sui tempi, ma assolutamente ben poco “esoterica”.
In realtà l’occulto, o l’esoterico, espulso da un lato, rientrava dall’altro. Paracelso non poteva non essere uomo del suo tempo, come si vede nel metodo impiegato per riconoscere la sostanza più adatta da utilizzare caso per caso come medicinale.
Qui introduce ragionamenti piuttosto sconcertanti, come l’analisi astrologica, la forma simbolica del semplice, la sua “simpatia” con altri corpi, secondo catene analogiche o occulte che peraltro troviamo diffuse in tutto il medioevo. I suoi seguaci ci hanno lasciato testi fitti di tabelle in cui si collegano, secondo sistemi di corrispondenza che lasciano perplessi e sbalorditi, organi umani, pianeti, vegetali e minerali.
Scopriamo così che la vescica biliare è legata a Marte, e di seguito ad ametista, cane, lupo, aquila, aglio, cardo ed elleboro. L’apparato urinario si connette a Venere, ambra, lapislazzuli, smeraldo, asfodelo, coriandolo, miglio, viola, capra, vitello, colomba e pernice . E così di seguito.
Non credo sia possibile riconoscere una qualche logica sensata in queste successioni sgangherate, ma si deve ammettere che è l’unica “stranezza” della sua dottrina.
Per il resto le sue preparazioni sono molto ragionevoli. Per lo più si tratta di semplici operazioni chimiche che tendono tramite l’attacco di solventi, per lo più acidi, a trasformare la sostanza presa in esame in forma salina, perché poi sia più facilmente assimilabile dall’organismo umano. Naturalmente in mancanza di una qualsiasi conoscenza chimica corretta il risultato spesso era, e non poteva che essere, o un sale in realtà inutilizzabile, nel caso di sali metallici, o molto spesso, per i sali vegetali, semplicemente del carbonato di calcio o di potassio ottenuti in tutti i modi possibili. Altrettanto evidente il fatto che le sue preparazioni erano ben lungi dall’essere “pure”, anzi, probabilmente contenevano tutto l’immaginabile.
Vediamone un esempio da un testo, l’“Archidoxis”, considerato uno dei più importanti nella sua pratica. Lo si data al 1525-26, fu pubblicato per la prima volta nel 1568 ed è probabilmente autentico, il che non si può dire per la maggior parte delle altre opere che gli furono attribuite. Qui, dopo una nota preliminare sulla necessità di una buona apparecchiatura, lavoro diligente, esperienza solida nell’arte, inizia a spiegare la chimica della separazione.
Prima di tutto prepara un’acqua forte così: prendi parti eguali di allume, vetriolo e salnitro. Distilla sino ad un’energica acqua forte. Versa sulla parte che è rimasta e ridistilla in una cucurbita di vetro. In quest’acqua forte purifica dell’argento, e poi dissolvivi del salmiax. Dopo che questo è stato fatto separalo in un bagno d’acqua e versalo di nuovo finché alla lunga si trova un olio in fondo, dall’oro un olio molto scuro, dall’argento azzurro lucente, dal ferro rosso o molto scuro, dal mercurio molto bianco, dal piombo color plumbeo, dal rame un verde intenso e dallo stagno giallo.
Si precisa che non tutti i metalli si possono ridurre in olio in questo modo: alcuni richiedono una preparazione precedente, come il mercurio che va sublimato, il piombo calcinato, il rame trasformato in fiori di rame (cioè nel solfuro), il ferro nel suo croco (cioè nel suo ossido), lo stagno va riverberato, ma l’oro e l’argento danno risultati immediati.
Non è sempre chiaro che tipo di prodotto si potesse ottenere. L’oro avrà formato il suo cloruro e questo si accorda col colore ottenuto. L’argento avrebbe dovuto dare una miscela di nitrato e cloruro, che è senza colore, ma la piccola percentuale di rame, che si trova di solito in tutti i campioni d’argento non purificati chimicamente, potrebbe spiegare il colore azzurrino. I composti di mercurio dovrebbero essere incolori. Comunque tutti i composti avrebbero dovuto variare considerevolmente in funzione della concentrazione dell’acido usato e delle condizioni della reazione
Il passo successivo consisteva nell’aggiunta all’olio, ottenuto nel modo precedente, di due parti di acqua forte per poi lasciare il tutto a riposare per un mese in sterco di cavallo, cioè lasciarlo digerire ad una temperatura leggermente superiore a quella atmosferica. Ovviamente questo avrebbe schiarito il liquido facendo depositare ossidi o idrossidi lasciati dal primo processo. La preparazione prosegue:
Poi distilla a fuoco lieve in modo che la materia coaguli in fondo. E l’acqua forte che sale, distillala per bagno maria: allora tu troverai uniti due elementi. E non gli stessi due elementi in tutti i metalli, ma dall’oro rimangono nel bagno gli elementi di terra e acqua. L’aria è in tutti e tre e l’elemento fuoco rimane in fondo, dato che la sostanza e la tangibilità dell’oro è coagulata dal fuoco. Dall’argento rimane in fondo l’elemento acqua, nel bagno gli elementi di terra e fuoco, dato che la sostanza e la corporeità dell’argento deriva dal freddo e umido ed è di una natura fissa e non si può innalzare. Dal mercurio…
La separazione finale è così descritta:
Ora si deve notare che il restante, cioè l’elemento corporeo in fondo, va ridotto di nuovo in olio con nuova acqua forte con un bagno. Allora questo elemento è completo e perfetto. E prendine una parte…
Paracelso pensava in questo modo non di ottenere, come in realtà invece avveniva, dei composti salini dei corpi trattati, ma di estrarne la parte attiva, vigorosa e pura, che chiama quintessenza del corpo. Appare molto chiaramente nel capitolo III dello stesso libro, dove dà una definizione piuttosto estesa di cosa intende con questo termine:
La quintessenza è una materia che si estrae fisicamente da tutte le cose e da tutte le cose in cui si trovi vita, separata da tutte le impurità e da tutto ciò che è mortale, resa sottile e purificata da tutto, separata da tutti gli elementi. Ora si deve capire che la quintessenza da sola è la natura, potenza, bontà e medicina che è racchiusa in tutte le cose senza incorporazioni estranee, inoltre può essere il colore, la vita e la proprietà della cosa, ed è uno spirito, come lo spirito di vita, con questa differenza che lo spirito di vita della cosa è permanente e lo spirito di vita dell’uomo è mortale.
Comunque queste non erano le “medicine” più potenti. C’erano ancora gli arcana, che rappresentano in qualche modo il non plus ultra delle possibilità farmaceutiche. Ne parla nel IV libro, dove li definisce in questo modo:
Quello solo è un arcanum che è incorporeo ed immortale, possiede vita eterna, e supera la comprensione della natura e la conoscenza dell’uomo. Essi hanno il potere di alterare, cambiare e rinnovare, restaurare, come gli arcani di Dio, secondo il loro giudizio.
Ci sono quattro arcana: quello della prima materia, che rinnova la giovinezza, quello della pietra dei filosofi, che muta il corpo umano come il fuoco pulisce quello della salamandra, il mercurius vitae che fa ricrescere denti e capelli, e la tintura che fa oro dall’argento e leva la corruzione dall’uomo.
Non ci si lasci ingannare dal nome suggestivo e dalle proprietà fantasiose: siamo ancora in presenza di preparati chimici piuttosto banali, anche se un po’ stravaganti. Lo vediamo, per esempio, dalla descrizione di come si può ottenere uno degli arcani più potenti. Lo si prepara dal mercurius essensificatum, cioè dal mercurio molto purificato, che viene in seguito sublimato con antimonio sino a che entrambi evaporino e “diventino un’unica cosa”, cioè formino un composto (in questo caso una specie di amalgama) nel raccoglitore dell’alambicco. Il prodotto è ridissolto su marmo e coagulato quattro volte. Questo procedimento darebbe il mercurius vitae che conforta in vecchiaia.
Potrei proseguire, parlando ancora dei magisteri, degli elixir, dei circolati, ma mi sembra che questi esempi bastino a dare un’idea dell’alchimia di Paracelso.
Che sia “vera” alchimia o no, ognuno lo decida secondo la definizione che vorrà dare a questo termine. Come abbiamo visto, le alternative ci sono e piuttosto ampie. Il vero merito del medico svizzero fu quello di aver dato inizio ad un processo di modernizzazione della farmaceutica antica, di cui risentiamo benefici ancora oggi.
Subito dopo la sua morte i suoi ammiratori iniziarono una serie di studi e di sperimentazioni sempre più precisi, nell’esame di possibili composti chimici che potessero servire a curare la varie malattie. Un secolo dopo cominciano a comparire i grandi trattati di Glaser, Lemery, van Helmont, per non citare che i più famosi. Boyle e più tardi lo stesso Lavoisier dovranno riconoscere a Paracelso il merito di averli indirizzati sulla via di una nuova scienza chimica.
Ancora oggi, sfrondati dalla terminologia immaginifica e un po’ occultistica, come ho già notato più volte, ci serviamo di concetti paracelsici nello studio della nostra farmacopea più avanzata.
Quindi, in conclusione, se Paracelso sia stato “alchimista” mi pare una discussione peregrina; ma che sia stato medico di grandi intuizioni e chimico abile e attento sperimentatore, questo è indubbio. Anche se la maggior parte dei suoi medicinali erano probabilmente inefficaci, e forse talvolta – specialmente quelli mercuriali – più nocivi che salutari, resta la visione originale che predispose il terreno alla nascita di una nuova dottrina e di nuovi sistemi terapeutici.
Per questo, ritengo, è ancora oggi ammirato e studiato da tutti gli storici della scienza.