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Palestina? Niente di nuovo

di Stefano Andrade Fajardo - 15/02/2009

Fonte: italiasociale

 


Dunque, alla fine la “moderata” Tzipi Livni è riuscita ad avere la meglio per un seggio (28) sul “falco” Benjamin Nethaniau (27), come appare sui titoli dei maggiori quotidiani nostrani.
Peccato che il sistema elettorale israeliano sia proporzionale e che la destra sionista e religiosa, nel suo complesso (Likud, la formazione di Avigdor Lieberman, giunta terza, ed i vari partitini ultra-ortodossi), arrivi, secondo le prime stime, a 65 seggi (sui 120 di cui è composta la Knesset, il parlamento mono-camerale israeliano) contro i 55 che la Livni, con il partito “centrista” di Kadyma, ed Ehud Barack, con il partito laburista (al suo peggior risultato di sempre), potrebbero – teoricamente – mettere in capo: dico teoricamente visto che dovrebbero comunque allearsi con la sinistra pacifista che, messi al bando i partiti arabi accusati di “collaborazione con il nemico” (ossia Hamas), è forse riuscita ad intercettare almeno parte del voto degli israeliani di origine araba (circa 1,5 milioni contro i 5,2 milioni di ebrei).
Non essendoci i numeri per un governo di “centro-sinistra” (che comunque sarebbe un “ircocervo” visto che per nascere dovrebbe, appunto, riunire gli artefici dell’operazione “Piombo fuso” e chi, una esigua minoranza, si batte per la fine dell’occupazione militare e coloniale della Palestina), le ipotesi si restringono a due: o un governo di “unità nazionale”, subito rilanciato dalla Livni, o un governo di destra - che più a destra non si può – con l’appoggio decisivo di Lieberman, al confronto del quale Le Pen ed il compianto Haider appaiono dei dorotei.
Comunque vada, il denominatore comune di tali ipotesi di governo consisterà in quella “voglia di sicurezza” che è stato il leit-motiv di tutta la campagna elettorale: la stessa operazione “Piombo fuso” è stata cinicamente condotta in tal senso sulla pelle dei Palestinesi di Gaza: per raccogliere qualche voto in più, dimostrando all’elettorato che il governo Olmert, di cui la Livni e Barack facevano parte, sapeva fare, se necessario, la faccia feroce esattamente come avrebbe fatto Nethaniau se fosse stato al potere.
Se con un governo di “unità nazionale” il processo di pace subirebbe un ulteriore rallentamento (del resto, quel poco che resta della Palestina è occupato manu militari dal 1967 e, nonostante gli accordi di Oslo del 1993, gli insediamenti coloniali sono aumentati vertiginosamente anche con il sostegno – politico ed economico - dei governi via via succedutisi: anche di quelli che si sono detti favorevoli al piano “Due popoli, due Stati”), un governo di destra porrebbe, sicuramente, una pietra tombale sul processo medesimo.
Se, infatti, sono note le posizioni razziste e scioviniste di Lieberman (le quali non solo non gli hanno impedito in passato di rivestire la carica di ministro ma lo hanno addirittura premiato in queste elezioni), non va dimenticato che il leader del Likud, che molte simpatie raccoglie, ahimé, tra i “destristi” al di qua ed al di là dell’Oceano, ha sempre proclamato che non avrebbe mai riconosciuto uno Stato palestinese (con tanti saluti alla politica “moderata” di quel buonuomo di Abu Mazen, che a parte qualche pacca sulla spalla non ha ottenuto alcun risultato concreto per il suo popolo) né, tanto meno, avrebbe ordinato lo sloggio anche di una sola colonia, fosse essa abusiva o meno (cosa che, in ogni caso, non fa differenza visto che Tsahal, l’esercito israeliano, difende anche le prime).
Considerato che i coloni in Cisgiordania sono circa 460.000 e viste le non poche difficoltà con cui Ariel Sharon nel 2005 riuscì a sloggiare 7.000 coloni dalla Striscia di Gaza, è facile immaginare come nessun politico israeliano sia in grado – e soprattutto abbia intenzione (a meno di non mettere in preventivo la prospettiva di fare la fine di Itzak Rabin) – di mettersi in tale vespaio, bruciandosi immediatamente il consenso elettorale appena guadagnato.
D’altra parte, se l’occupazione è continuata fino adesso, può benissimo continuare sine die: tanto ad Israele gli Stati Uniti d’America, indipendentemente dal fatto che chi governi sia repubblicano o democratico, non faranno mai mancare il proprio sostegno militare, politico-diplomatico e finanziario (Barack Obama, che ha problemi ben maggiori da risolvere a casa propria, si è appena affrettato a complimentarsi con il presidente Shimon Peres per l’”esempio di democrazia” venuto dalle elezioni israeliane ed a garantire il proprio appoggio a chiunque sarà il premier).
E, comunque, è ormai tempo che Israele non ascolta più neppure i timidi inviti alla “moderazione” lanciati dal suo potente alleato (fossi nella dirigenza iraniana sarei molto preoccupato da questi risultati…).
Quanto all’Unione Europea, forte coi deboli e debole coi forti, al di là di qualche sdegnata reprimenda umanitaria (sempre accompagnata, si badi bene, quasi in una sorta di mantra, dalla dura condanna per Hamas che “vigliaccamente usa la popolazione civile come scudi umani”) continuerà a fare affari con Israele (del resto, li fa anche con la Cina) ed a lanciare velleitarie iniziative diplomatiche per la pace, al cui felice esito possono credere soltanto gli ingenui.
Sulla mitica solidarietà pan-araba, poi, è meglio stendere un velo pietoso…
Se a tutto ciò si aggiungono, infine, le divisioni nel campo palestinese (tra una ANP che di Autorità non ha più nulla e Hamas, che avendo la sfortuna di non essere sufficientemente forte militarmente, sarà sempre additata dall’Occidente come “organizzazione terrorista”), le prospettive per lo sfortunato popolo palestinese di avere, finalmente e presto, uno Stato degno di questo nome (e non un “bantustan” di sudafricana memoria) appaiono, purtroppo, sempre più lontane.