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Egitto e striscia di Gaza: la mediazione di Mubarak

di Sergio Romano - 16/02/2009

La striscia di Gaza confina con l'Egitto per pochi chilometri. Non riesco a capire perché l'Egitto dichiari di non potere controllare il transito clandestino di armi attraverso tunnel facilmente individuabili e nessuno gliene chieda conto. Eppure l'Egitto è uno degli attori principali dello scenario mediorientale, fortemente impegnato a risolvere il conflitto e chiaramente a favore di Abu Mazen. Lei come lo spiega?


Angelo Tirelli

 

Caro Tirelli, credo che la spiegazione debba cominciare con qualche considerazione sullo stato di salute del regime politico di Hosni Mubarak. Il presidente è al potere dall'ottobre 1981 e non ha mai revocato le leggi eccezionali che furono adottate immediatamente dopo l'assassinio del suo predecessore, Anwar Al Sadat. Ma ha alternato i sistemi polizieschi a qualche apertura democratica e ha ceduto alle pressioni degli Stati Uniti quando il segretario di Stato Condoleezza Rice, dal podio dell'Università americana del Cairo, predicò all'Egitto la terapia delle libere elezioni. Peccato che dalle elezioni egiziane, come da quelle che si tennero in Palestina nei mesi seguenti, uscisse straordinariamente rafforzato l'islamismo politico-religioso. Furono circa 90 i candidati della Fratellanza musulmana che entrarono allora nell'Assemblea del Popolo; e sarebbero stati molto più numerosi se il governo, che non riconosce la Fratellanza come partito politico, l'avesse autorizzata a presentare candidati in tutti i seggi del Paese. Da allora Mubarak ha stretto i freni. La polizia tiene d'occhio gli oppositori e lo spazio di questi ultimi si è ulteriormente ristretto. Ma il tempo non gioca a favore del presidente. Il capo dello Stato avrà 81 anni in maggio e il figlio Gamal, che sembra destinato a succedergli, non ha ancora spalle sufficientemente robuste per il compito che lo attende. In queste condizioni Mubarak sembra essere giunto alla conclusione che il miglior modo per rinfrescare l'immagine del regime fosse quello di fare dell'Egitto un indispensabile mediatore della questione palestinese. È amico degli americani, degli israeliani e dei palestinesi di Abu Mazen. I suoi servizi di sicurezza conoscono la regione come un palmo di mano. È stato incoraggiato a recitare questa parte da Washington e da Gerusalemme. E ha intravisto nel successo dell'operazione la possibilità di realizzare due obiettivi: scalzare l'Iran dalle posizioni conquistate in Palestina e restringere lo spazio politico della Fratellanza musulmana che è, assai più degli sciiti iraniani, il vero tutore ideologico e spirituale di Hamas. A questo obiettivo non ha ancora rinunciato e cerca di perseguirlo con una nuova mediazione che potrebbe avere per effetto una tregua di diciotto mesi. Ma l'operazione militare degli israeliani, nel frattempo, ha reso ancora più evidente l'esistenza di una scollatura fra la politica di Mubarak e i sentimenti prevalenti nel suo Paese. Per molti egiziani il presidente è soltanto il docile alleato di Israele, l'uomo che ha contribuito all'assedio di Gaza, il leader arabo che ha anteposto l'odio per la Fratellanza agli ideali e alle speranze del suo popolo. Lei si chiede, caro Tirelli, perché il controllo del confine tra Gaza e l'Egitto sia così poco efficace. Credo che la risposta sia per l'appunto nel fossato che divide Mubarak dalla società egiziana. I palestinesi di Hamas possono contare, al di là della frontiera, su molte simpatie e complicità. A queste considerazioni ideali conviene aggiungere un fattore pratico. La città egiziana di Rafah, a ridosso del confine, ha vissuto in questi ultimi tempi di contrabbando. Accuratamente nascosti nei campi, i capolinea dei tunnel sono diventati il retrobottega del negozio nel quale gli egiziani vendono ai cugini palestinesi tutto ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere e, naturalmente, per continuare a combattere.