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Il carattere di "feticcio" della merce

di Gianfranco La Grassa - 17/02/2009

 

 


  

  1. Malgrado la “civetteria” del titolo, non ho alcuna intenzione di dedicarmi, in questo saggio, ad una sorta di filologia marxiana. Un tempo così si agiva: si fingeva l'esegesi di tale teoria, il rispetto di ciò che aveva “realmente” detto Marx, per poi portare avanti la propria azione di rinnovamento del marxismo (questo fu in fondo il comportamento dell'althusserismo negli anni '60 e '70). Era atteggiamento sostanzialmente corretto giacché vi era ancora la speranza di “rifondare” (veramente, non come fu poi tentato dagli opportunisti di Rifondazione) sia il comunismo che il marxismo. Oggi, ritengo sterile una posizione simile; non c'è più nulla da rifondare, è semplicemente necessario ricominciare a pensare usando un briciolo di cervello. Quindi, addio al comunismo e al marxismo così come questi sono ancora propugnati da sparuti drappelli di “disperati” (secondo la mia opinione, ovviamente); non si riparte certo da zero, ma si deve comunque ripartire.

  Per quanto non credo si possa coniugare, pur seguendo Marx, il feticismo della merce con l'alienazione umana, non mi interessa minimamente entrare in polemica con simili disquisizioni (di un'epoca per me “preistorica”); intendo sviluppare tutt'altre considerazioni. Citerò senz'altro Marx; tuttavia, lo prenderò come punto d'avvio, non come “Bibbia” da cui trarre alcuni “salmi” a comprova di ciò che sostengo. Anzi, le mie argomentazioni saranno spesso lontane dal marxismo; e se qualcuno si scandalizzerà del mio atteggiamento, sarò ben lieto di scandalizzarlo. 

  2. Il Capitale si apre con il capitolo sulla merce (del cui feticismo si discute nell'ultimo paragrafo). Nelle prime righe Marx ricorda che analizza la merce poiché la ricchezza prodotta nella formazione sociale detta capitalistica è costituita da un grande ammasso di merci1, cioè di prodotti del lavoro umano avviati allo scambio reciproco secondo quella specifica forma: nient'affatto naturale bensì storica, cioè implicata da una storicamente specifica struttura di rapporti sociali. In molte altre parti della sua opera, Marx chiarisce inoltre che la forma di merce diventa generale - riguarda cioè la produzione sociale complessiva - solo quando diventa merce la forza lavorativa umana2. Si tratta praticamente di due modi di esprimere la stessa realtà, poiché la forza lavoro assume l'aspetto mercantile - il che implica la liberazione di ogni individuo da rapporti di dipendenza personale - nell'ambito del particolare rapporto sociale dominante che caratterizza il capitalismo (più precisamente: il modo di produzione capitalistico): rapporto tra proprietario delle condizioni oggettive della produzione (terra e mezzi di produzione, fra cui decisivi sono i mezzi di lavoro) e proprietario della sola, personale e individuale, forza lavorativa (manuale e intellettuale).

  D'altra parte, come Marx chiarisce fin dalla Prefazione alla sua massima opera, i vari “soggetti” - quindi capitalisti, operai, proprietari terrieri e via dicendo - sono semplici maschere di rapporti sociali3, punti di snodo d'essi, specifiche funzioni svolte e posizioni occupate nell'intelaiatura costituita da detti rapporti. Non ha senso pensare a individui concreti, empirici, poiché in ambito teorico non esiste l'operaio Toni o il capitalista Piero; si parla di “classi” di soggetti svolgenti funzioni operaie (lavoro salariato che fornisce pluslavoro/plusvalore) e “classi” di soggetti con funzione di capitalisti (proprietari dei mezzi produttivi) che si appropriano del pluslavoro/plusvalore. Non è quindi coerente mettersi a discettare sulla soddisfazione o insoddisfazione che provano operai e capitalisti in quanto empiriche personalità umane.

  E' inutile presupporre che l'operaio (Toni allora) si sente deprivato nella realizzazione del prodotto del proprio lavoro. Sono considerazioni di chi fa pasticci teorici, confondendo ambiti sociologici e psicologici. Del resto, solo certi intellettuali pensano l'operaio come fosse sempre il Charlot di Tempi moderni. Ci sono lavoratori salariati - e perfino d'ordine manuale, che comunque non sono i soli salariati esistenti - in grado di provare soddisfazione nella loro prestazione, mediante la quale realizzano se stessi essendone orgogliosi, ecc. Tutto questo non c'entra un bel nulla. Il problema è molto semplice: l'operaio (individuo libero che vende come merce la propria forza lavoro manuale e/o intellettuale), da una parte, e il capitalista (proprietario dei mezzi produttivi), dall'altra. Pur presupponendo - presupposizione raramente valida nel concreto empirico - che la forza lavoro, in quanto merce, venga venduta al suo valore (lavoro contenuto: nei mezzi di sussistenza storico-sociale dell'operaio), il capitalista/proprietario si appropria del di più di valore creato dal venditore di forza lavoro nel corso della giornata lavorativa liberamente contrattata. Tutto lì e nulla di più; il resto sono orpelli “filosofici” del tutto superflui e devianti. Questa la mia netta convinzione. 

  3. La merce, nella sua figurazione elementare, mena un'esistenza antichissima; con approssimazione ai tempi “storici”, potremmo dire che esiste da sempre. Tuttavia, il prodotto scambiato come merce aveva in altre formazioni sociali carattere solo interstiziale, sussidiario; non era certo determinante per la vita associata degli individui. La merce diventa invece base essenziale, e ineliminabile, di tale vita solo nel capitalismo, quindi nella società a modo di produzione basato sul rapporto tra proprietà dei mezzi produttivi e lavoro salariato (forza lavoro in quanto merce). Il valore d'uso del prodotto lavorativo si duplica - in via generale, non più occasionale e limitata - in valore di scambio; e quest'ultimo, quando la merce diventa appunto forma generale dei prodotti e perciò fondamento della vita sociale, si rappresenta nel denaro, cioè in definitiva nelle sue diverse concretizzazioni monetarie (“materiali” o “virtuali” poco importa in questo contesto).

  Parlare del feticismo della merce ha dunque senso solo nella società a modo di produzione capitalistico, cioè strutturata secondo il suddetto rapporto sociale. Quando la merce è forma sporadica, interstiziale, non sussistono le cosiddette “leggi dello scambio”, che vigono esclusivamente nel capitalismo. Non vi è dubbio che anche per Marx esiste la smithiana “mano invisibile”; solo che egli non la considerava frutto della finalmente scoperta modalità del produrre secondo ragione e natura (per cui, come affermò nella Miseria della filosofia, “c'è stata storia ma ormai non ce n'è più”). Il mercato è un prodotto integralmente storico (e dunque transeunte) come qualsiasi altro rapporto tra uomini nelle varie formazioni sociali. Tuttavia, non esisterebbe feticismo della merce se la “mano” fosse “visibile”, e dunque controllabile dagli uomini in società. Il carattere di feticcio è appunto strettamente derivato dal fatto che lo scambio mercantile segue determinate “leggi” impersonali, cioè socialmente oggettive, cui i vari individui (le varie “classi” di posizioni occupate e di funzioni svolte da questi ultimi) devono adeguarsi.

  Quando Chandler parlò dell'affermarsi della mano visibile, intendendo riferirsi al capitalismo delle grandi corporations (e del passaggio dalla proprietà al managerialismo), sembrò formulare una brillante tesi (sembrò anche al sottoscritto); era invece una “illusione ottica”. Ancora una volta prevalse la cosificazione di un rapporto sociale; ciò che prese il davanti della scena furono le grandi dimensioni d'impresa, la forma di mercato monopolistica, per cui si suppose ormai finita la fase “anarchica” del capitalismo. Il funzionamento dei mercati capitalistici era ormai trasparente, per cui diveniva possibile la loro regolazione. Chi interpretò “da sinistra” il discorso di Chandler sostenne la fine della contrapposizione tra capitalismo, in quanto anarchia mercantile, e socialismo come pianificazione generale della produzione. Tutto si sarebbe giocato attorno a chi avrebbe avuto in mano l'ordinamento dei mercati (ora appunto “visibili”): se gli apparati manageriali delle grandi imprese oligopolistiche oppure i rappresentanti dei lavoratori. Niente più necessità di abbattere, tramite violenza rivoluzionaria, lo Stato difensore degli interessi dei proprietari privati “anarchici”; era sufficiente prendere per via “democratico-parlamentare” il controllo degli apparati “pubblici”, e tramite questi orientare i mercati (“trasparenti”) al perseguimento degli interessi della collettività lavoratrice. Tutta la fine del XX secolo è piena di inganni ideologici del genere, spazzati via dall'attuale crisi (quella economica ma soprattutto l'inizio dell'epoca multipolare): sostituiti tuttavia, almeno per il momento, da ulteriori fumisterie di tutti i generi. 

  4. Il feticismo della merce dipende dunque da un rapporto sociale, quello di una società fondata sulla generalizzazione degli scambi mercantili. Marx afferma che in tal caso i lavori privati, eseguiti da singoli soggetti (non singoli esseri umani), si socializzano solo indirettamente tramite il mercato. I rapporti tra uomini - in quanto però “maschere” di rapporti sociali, in quanto occupanti determinate posizioni e svolgenti date funzioni, non lo si dimentichi mai - diventano rapporti tra cose, rapporti sottratti al controllo dei singoli soggetti in questione, i quali possono soltanto decidere come lavorare e che cosa produrre, ma in base ai segnali lanciati “oggettivamente” dal rapporto (presunto sociale) tra cose/merci. La socialità sembra quindi fondarsi sul rapporto mercantile, un diaframma - supposto appunto oggettivo - che si frappone tra gli individui e si impone loro come qualcosa di incontrollabile, retto da “leggi” sue proprie. Bisognerebbe semplicemente prendere atto di queste “leggi” e adeguare ad esse la propria azione.

  Porre in questo modo la questione del feticismo della merce non è errato, ma limitativo. In effetti, sembra si stia parlando di una società mercantile semplice, di una struttura di rapporti sociali tra produttori individuali (magari costituiti da gruppi societari di produttori) di merci. Insomma, una società in cui è generale - non occasionale, non interstiziale - la forma di merce, ma non viene in evidenza il rapporto specifico del capitalismo, quello tra proprietà dei mezzi produttivi e venditori di forza lavoro in qualità di merce. Si contravviene a quanto esplicitato dallo stesso Marx: la merce diventa forma generale del prodotto lavorativo umano (ed esige l'intermediazione del denaro nelle sue figure monetarie) solo quando la forza lavoro diviene merce (venduta al capitalista proprietario dei mezzi di produzione). Oppure, il che ha lo stesso significato, soltanto la ricchezza (somma di valori d'uso) prodotta capitalisticamente diventa un enorme ammasso di merci (aventi valore di scambio).

  Bisogna cambiare prospettiva. Il feticismo che si appiccica alla merce dipende da un rapporto sociale in cui preliminarmente - in senso logico, poiché empiricamente, come al solito, il tout se tient - diventa merce la capacità lavorativa dell'“uomo”, cioè di quel soggetto che può attuare la sua funzione lavorativa solo dopo aver venduto in forma di merce la sua potenzialità di lavoro. Quest'“uomo”, reso libero da rapporti di dipendenza personale, si mantiene in vita - nell'ambito di una forma di società giunta ad un determinato livello di evoluzione storica - solo “oggettivando” il proprio “lavoro” (che è in realtà semplicemente la capacità di svolgerlo) e vendendolo quale merce. Non si tratta però della capacità concreta, delle particolari attitudini - sia manuali che intellettive - di questo o quel lavoratore. O per meglio dire, tali capacità concrete non scompaiono ma si ritirano nettamente in secondo piano rispetto al fatto che il soggetto, necessitato a lavorare per vivere, cede come merce la sua potenzialità in tal senso, ricevendo un compenso che è, mediamente, l'equivalente in valore dei prodotti (merci essi stessi) indispensabili a riprodurre la sua esistenza di “funzionario” del lavoro.

  Il primo prodotto/merce - primo sempre in senso logico - è dunque la potenzialità lavoratrice di detto “funzionario”. Si tratta tuttavia di un prodotto sui generis, perché non esce certo da un normale, usuale, processo di produzione (che esita valori d'uso); viene invece riprodotto il rapporto capitalistico specifico che, ad uno dei due poli, vede appunto ricomparire, alla fine di ogni ciclo produttivo, il “funzionario” in questione obbligato a rimettere in vendita la sua capacità lavorativa. Non ha gran senso parlare di un uomo concreto che aliena se stesso, oggettivando la propria effettiva personalità e cedendola ad un'altra personalità, quella del capitalista. Il lavoratore non aliena alcuna sua personalità; stabilisce - mediante contratto tra individui situati per diritto in posizione di parità; individui di cui conta esclusivamente questa titolarità di diritti eguali - di mettere a disposizione del cosiddetto “datore di lavoro” (obbrobriosa definizione ideologica di chi possiede le condizioni oggettive di ogni attività produttiva) la propria capacità lavorativa per tot ore al giorno. Ciò che riceve in cambio è il valore di questa sua merce; una merce invero un po' particolare, il cui valore è semplicemente equivalente a quanto gli serve per acquistare poi le merci necessarie a riprodurre la sua esistenza in quelle “storicamente determinate” condizioni di sviluppo della società.

  Ovviamente, il valore è maggiore o minore a seconda delle attitudini di detta capacità; non però per le sue connotazioni psicologistiche, bensì solo per le “qualifiche specialistiche” più o meno elevate che caratterizzano lo svolgimento delle sue funzioni. In ogni caso, le differenze di remunerazione (salario) non premiano queste diverse “qualità”; servono alle maggiori o minori spese che devono essere sostenute per riprodurre l'esistenza sociale (del possessore) di quella merce (forza lavoro) dotata di maggiori o minori capacità di apporto al valore delle merci prodotte mediante veri e propri processi lavorativi, controllati e diretti dal “funzionario” capitalistico.  

  5. La merce appare come feticcio perché i rapporti tra merci si autonomizzano e si affrancano dalla possibilità di controllo dei vari soggetti associati; sono anzi questi ultimi a dover svolgere la loro specifica funzione adeguandosi alle “leggi” dei mercati. Tale feticismo è appunto conseguenza della “causa prima”, in ordine logico, costituita dall'assunzione della forma di merce da parte della forza lavorativa dei soggetti “espropriati” per quanto concerne il controllo sui mezzi impiegati nei processi, in cui essi attuano la loro potenzialità di lavoro. Il processo storico che precipita nel divenire cosa-merce della forza lavoro si nasconde dietro quello che sembra il suo risultato definitivo: tutti i soggetti implicati nei rapporti sociali sono possessori di merci. La maggioranza dispone liberamente della merce forza lavoro, una minoranza possiede i mezzi produttivi o comunque il denaro/moneta quale capitale da investire nell'acquisto e controllo di tali mezzi. Questa “piccola” differenza viene obliterata, oscurata dall'ideologia giuridica che segnala esclusivamente il generale possesso - garantito dal diritto (di proprietà) - delle merci, di un qualsiasi tipo, di cui tutti i soggetti in società dispongono tramite libera contrattazione.

  In realtà, chi possiede la sola merce forza lavoro, ma è privo della proprietà e controllo dei mezzi necessari alla sua attuazione nel processo produttivo, dipende dalle scelte di “investimento dei capitali” da parte di chi li ha. Tali scelte dipendono a loro volta dalla convenienza (profittabilità) degli investimenti (acquisto, impiego e controllo di quelle cose/merci che sono i mezzi produttivi) in questo o quel settore produttivo. E la profittabilità degli investimenti deriva dalla possibilità di maggiore o minore ottenimento di pluslavoro/plusvalore in questo o quel settore produttivo di merci da vendere (per cui certamente vi è anche un problema di realizzazione del plusvalore oltre che di sua “estrazione” dalla forza lavoro). In merito alla producibilità e realizzabilità di questo plusvalore, da cui discende il profitto, si possono fare diverse ipotesi economiche, che non influenzano tuttavia la questione teorica centrale: la libera vendita della propria forza lavoro come merce è in relazione di dipendenza rispetto alla capacità di certi soggetti (capitalisti) di acquistare i mezzi di produzione e di impiegarli con profitto in qualche settore di attività produttiva di merci; dipende cioè dalla possibilità che i capitalisti riescano con modalità appropriate, in specie innovazioni ecc., a estrarre adeguate quantità di pluslavoro/plusvalore dai venditori della merce forza lavoro. La libertà di contrattazione mercantile nasconde questo fatto; e l'ideologia dei dominanti vi sguazza a suo perfetto agio.

  Allora constatiamo però che nemmeno Marx - avendo iniziato (e credo non potesse fare diversamente) la sua analisi dalla merce, pur dichiarando che essa è forma generale del prodotto esclusivamente sotto la vigenza del rapporto sociale capitalistico - si esprime in modo adeguato, rinviando il suo aspetto feticistico al fatto che lavori individuali (non di singoli esseri umani, ma di loro gruppi), eseguiti privatamente, si socializzano indirettamente tramite il mercato. Quest'ultimo assume così il dominio sull'attività degli individui in questione; e sarebbe perciò per tal motivo che essi trattano la merce come fosse un feticcio, una deità alla cui volontà debbono piegarsi. In realtà, però, gli individui, il cui lavoro privato si socializza indirettamente, sono gruppi di soggetti, divisi al loro interno in due sottogruppi svolgenti funzioni tra loro diversissime: quella proprietaria (e di controllo) dei mezzi produttivi e quella di proprietari/fornitori di mera merce forza lavoro. Il primo, e più decisivo feticismo, consiste dunque nel nascondimento (e trascendimento) di questa cruciale relazione - che vede il soggetto lavoratore dipendere dalle scelte e convenienze del soggetto proprietario dei mezzi di produzione - dietro la parvenza della libera contrattazione tra singoli, tutti eguali in quanto semplici possessori di una merce qualsiasi. 

  6. La forma di mercato, concorrenziale o mono(oligo)polistica, non cambia in nulla quanto appena chiarito. La parità di diritti tra tutti gli individui, nella società capitalistica pienamente “sbocciata” e liberatasi di ogni orpello delle precedenti formazioni sociali, fa si che a ogni individuo venga garantita la proprietà di “qualcosa”: ognuno è titolare del diritto al godimento di tale proprietà, ma il godimento implica la vendita di questo “qualcosa” in qualità di merce, implica dunque il generale interscambio mercantile. L'attuazione dell'attività lavorativa si scinde dalla sua mera potenzialità; e quest'ultima diviene una cosa che entra nel generale circuito delle merci, quel circuito le cui “leggi” si affermano come indipendenti rispetto alle decisioni dei possessori delle stesse; sono le decisioni a doversi invece adeguare alle “leggi”, a doverle cioè riconoscere come tali affinché si sia in grado di muoversi nel mondo delle merci, cercando di realizzare in esso nel miglior modo possibile il diritto alla libera disponibilità della propria merce, diritto che da affermazione di principio si trasforma in realtà di fatto soltanto quando si è compiuto l'atto di compravendita.

  Quella cosa, la forza lavoro, il cui divenire merce ha reso generale tale forma dei prodotti lavorativi nella società capitalistica, resta sempre nella libera disponibilità del suo possessore; tuttavia la sua vendita introduce esplicitamente - e se così non fosse, la forza lavoro non avrebbe alcun valore di merce - lo svolgimento dell'attività lavorativa che, in essa, era solo implicita, potenziale. E tale svolgimento assicura a colui, che nel generale interscambio mercantile ha mantenuto il possesso e controllo dei mezzi di produzione, il pluslavoro/plusvalore (soprattutto nella figura di profitto, principale “reddito da capitale”, da cui dipendono gli altri) derivante dall'attuazione della forza lavoro nel processo produttivo; mentre chi dispone di quest'ultima (lavoro in potenza) resta soltanto proprietario d'essa, la cui sussistenza è assicurata e riprodotta assieme alla riproduzione della vita del suo possessore, che a tal fine spende il ricavato della vendita di quella sua merce particolare.

  Tuttavia, si può spiegare ad ogni individuo, e in tutte le salse, questa “realtà”; resterà sempre ben impressa nella sua coscienza, di membro della società capitalistica, la consapevolezza di un'altra “realtà” ben tangibile: nessuno lo obbliga ad avere soltanto il possesso di un dato tipo di merce, la titolarità del diritto di proprietà dei mezzi di produzione o invece della forza lavoro non è nominativa, non è stabilita una volta per tutte. Non a caso, è elevata nel capitalismo la cosiddetta mobilità sociale. Ogni volta che le anarchiche leggi del mercato si fanno valere tramite crisi e sconvolgimenti che assumono l'aspetto dell'oggettività di una “legge di natura”, muta, per molti individui e per interi settori di attività, la collocazione e distribuzione delle funzioni di capitalista e operaio, di queste figure che sono soltanto “maschere di rapporti sociali”, non concrete personalità esistenti con nome e cognome.

  Per questo motivo, la lotta tra “capitale e lavoro” ha sempre assunto, man mano che si sviluppava il capitalismo, l'andamento tradunionistico denunciato da Lenin con riferimento, errato, alla sola “classe” operaia (classe di funzioni di quella data “maschera sociale”) inglese. Per questo motivo, quando il comunismo (che tale si presumeva) è riuscito a vincere in formazioni sociali in transizione da forme precapitalistiche a capitalistiche - dalle “maschere sociali” inerenti alle funzioni contadine a quelle di tipologia operaia - il socialismo che si pretendeva di stare “costruendo” ha assunto la forma del più autoritario degli statalismi (la cui reale strutturazione deve ancora essere spiegata, ma comunque mai più contrabbandata per socialismo e comunismo). Nel capitalismo pienamente compiuto, l'ideologia della libertà ed eguaglianza di tutti i possessori di merci, della casualità ma anche del merito individuale nel mutamento delle proprie funzioni in società, ha la forza del senso comune; è una mascheratura ideologica, ma nello stesso tempo una realtà di fatto, del tutto concreta, empirica.

  Se uno vive, e anzi tutti vivono, dentro una loro “stanza” e conoscono solo questa, essi non vedono (perché non possono vedere) quel che accade al di fuori d'essa; si può allora ben dire che hanno una conoscenza e visione limitate del mondo, ma non errate in radice. Chi è uscito dalla “stanza” predicherà ciò che ha visto a quelli che sono dentro, lo farà magari per 24 ore al giorno e per 10.000 giorni; non convincerà che pochissimi, gli “esaltati” e poco sani di mente. Occorre una pratica diretta. Tuttavia, se chi ha fatto tale pratica, uscendo dalla “stanza”, ha confuso una realtà per un'altra (e per oltre un secolo), se chi pensava di esserne realmente uscito ha preso “fischi per fiaschi”, creandosi un'altra ideologia creduta ormai per fede ma assolutamente fantasiosa; allora si può essere sicuri che la “stanza” continuerà ad essere l'orizzonte anche di chi vi sta male, e tuttavia si rende conto che i presunti “conoscitori” dell'esterno sono solo dei visionari o degli imbroglioni.

  Tuttavia, almeno un risultato dovrebbe restare acquisito: il carattere di feticcio della merce - questo suo aver creato un mondo che appare (ma è proprio così nella “stanza”) ergersi con le sue “leggi” al di sopra delle decisioni dei singoli - dipende fondamentalmente dal fatto che, con il generalizzarsi di tale forma, si crea effettivamente una realtà in cui ognuno è titolare di diritti di disposizione su una qualche cosa e la vende liberamente per realizzare il godimento di questo suo diritto. La generalizzazione della forma di merce si verifica però soltanto laddove diviene merce - quindi cosa liberamente disponibile da parte del suo proprietario - la potenzialità di lavoro; il che implica la scissione tra quest'ultima, la cosa realmente posseduta dal titolare del diritto proprietario, e la sua attuazione (nel processo lavorativo) che entra nella disponibilità di chi possiede e controlla i mezzi produttivi, con la conseguenza dello “sfruttamento” (estrazione di pluslavoro/plusvalore nella principale figura del profitto).

  Lo sfruttamento non ha però alcuna effettiva evidenza empiricamente concreta; ciò che si vive sulla propria pelle è soltanto se si è ben venduta o meno questa particolare merce liberamente posseduta, e sulla base della quale esiste il mercato generalizzato. La merce in questione si vende bene o male non solo in base alla sua contrattazione e alla lotta che in questa si sviluppa, ma anche in conseguenza di eventi oggettivi che riguardano il mercato in generale, quello dell'insieme dei prodotti che sono ormai merci in seguito al divenire merce della forza lavoro. E' questo divenire, cioè la formazione del rapporto sociale caratterizzante il modo di produzione capitalistico, a rendere opaco il mondo delle merci, a renderlo “padrone” dei destini di coloro che vi vivono. L'anarchia del mercato, che è un necessario e ineludibile portato della formazione del rapporto capitalistico, non dipende minimamente dalle dimensioni d'impresa e dalla forma di mercato. Questo modo economicistico di ragionare, tipico pure di certo “marxismo” (degenerato), è tanto ideologico quanto il più bieco dei liberismi. La “mano” del mercato è sempre “invisibile”, con buona pace degli “empirici” alla Chandler.

  L'ideologia dei dominanti capitalistici, che fa vedere solo l'eguaglianza di diritti di tutti i possessori di merci, non garantisce soltanto lo “sfruttamento” dei dominati, impedendo loro di essere consapevoli del ruolo realmente assunto nell'ambito del rapporto sociale del modo produzione capitalistico, bensì inganna pure i dominanti stessi, impedisce loro di percepire correttamente il mondo in cui essi sono appunto i dominanti; e anch'essi pagano quindi lo scotto dell'impossibilità di controllare e regolare l'anarchia mercantile. Il proprietario dei mezzi di produzione esce senz'altro dallo sconvolgimento della crisi in condizioni migliori, e talvolta perfino rafforzato, rispetto al semplice possessore di forza lavoro. Tuttavia, ciò non concerne questo o quel capitalista, ma la funzione capitalistica, essendo casuale quale individualità concreta, empirica, la svolgerà durante e dopo la crisi.

  Chi è convinto di poter uscire, ideologicamente intanto, dalla “stanza capitalistica” deve fare sfoggio del massimo realismo - che non è per nulla sinonimo della presunta conoscenza del mondo così com'esso è in realtà, giacché quest'ultima sarà sempre filtrata dai diversi gradi della conoscenza solo teorica (della pratica teorica), sempre permeata da una specifica visione ideologica - smettendo di raccontare che è capace di svelare agli “sfruttati” questa loro condizione, smettendo di cortocircuitare il suo (allora solo presunto) realismo, esistente nella mera teoria, quasi fosse immediatamente traducibile in pratica politica rivoluzionaria. Quando qualcuno pensa di poter operare questa traduzione senza mediazioni - di una complessità senza pari e legate al presentarsi di condizioni storiche particolari e oggettive (indipendenti dalla sua semplice volontà) - egli resta puramente schiavo di un'altra ideologia, non compie nessun passo di avvicinamento al suddetto realismo nella pratica teorica. Alla larga da simili ineffabili personaggi, che ci portano al disastro.          

  7. Sia pure sintetizzando al massimo le argomentazioni, ho voluto affrontare uno dei punti chiave del marxismo - che ha fatto scrivere fiumi e fiumi di parole - per mettere in luce tutti i possibili vantaggi di tale teoria, ma anche gli ormai insuperabili suoi limiti. Il merito di Marx è di aver svelato alcuni decisivi nascondimenti operati dall'ideologia dei dominanti. Dietro la strombazzata eguaglianza di tutti gli individui, in quanto possessori di merci, sta la diseguaglianza inerente alla differente funzione svolta dalle diverse merci nel processo produttivo: chi possiede i mezzi di produzione assume una posizione preminente in tale processo rispetto a chi vi apporta solo la potenzialità di lavoro, la cui realizzazione (erogazione di lavoro) resterà subordinata alle finalità imposte dal primo personaggio (dal titolare di quella data funzione di capitalista).

  Inoltre, l'equivalenza realizzatasi, in media, nello scambio delle diverse merci nasconde lo “sfruttamento”: l'estrazione di pluslavoro/plusvalore nel passaggio del “lavoro” dalla potenza (forza lavoro venduta come merce) all'atto (prestazione nel processo produttivo). Questo di più entra ovviamente nella piena disponibilità del funzionario capitalista; e anche qui si produce una distorsione di significato poiché il profitto si presenta quale semplice remunerazione della capacità organizzativa e direzionale che spetta, per diritto, all'imprenditore, dove il diritto riguarda in realtà il potere di disposizione sui mezzi di produzione, all'apparenza semplici altre merci acquistate con moneta, alla stessa stregua delle merci di consumo acquistate con il salario dal possessore della forza lavoro.

  Tutti questi disvelamenti, a circa un secolo e mezzo di distanza da quando sono stati messi in luce, non hanno avvicinato di un solo passo la sedicente rivoluzione comunista, non hanno quindi avuto l'effetto pratico-politico voluto, pur se ne hanno provocati altri (non però compresi perché nemmeno interessava comprenderli), e di quale rilevanza. Trattati in sé e per sé, senza alcuno degli interessi reali per cui Marx li aveva “scoperti” ed elaborati, i disvelamenti in questione hanno solo consentito agli intellettuali di fare “belle” ciance con linguaggio forbito e complesso - di cui ho cercato di dare una solo vaga idea nelle pagine precedenti - senza che fossero raggiunti altri risultati se non la vincita di qualche cattedra universitaria. Certamente, si sono verificati fenomeni rivoluzionari, anche grandiosi, ma che non hanno avuto neanche per un grammo il carattere comunista preteso da chi ne ha fatto mezzo di presa del potere allo scopo di dominare la società tutta, indirizzandola a finalità che di comunistico avevano soltanto la terminologia ideologica. Oggi mi appare di evidenza solare il perché tutto ciò è accaduto.

  Ho mostrato, nei miei scritti degli ultimi anni soprattutto, con una chiarezza che ritengo definitiva come per Marx il comunismo fosse veramente “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. Il comunismo era cioè considerato un processo già in marcia nei grandiosi processi di socializzazione dei processi produttivi - con formazione dell'operaio combinato: lavoro intellettuale e manuale, direttivo ed esecutivo, in crescente ed oggettivamente ineludibile cooperazione obbligata - in pieno svolgimento mentre Marx scriveva la sua opera, viveva il suo tempo e praticava l'attività politica nell'Internazionale “operaia”. Quando - dopo anni e anni di rigorosa opera teorica in base a osservazione e raccolta di una quantità enorme di dati sullo sviluppo capitalistico, il tutto sfociato nella sua massima opera - Marx, alla fine di circa un decennio di assai più scarsa attività dello stesso tipo, scrive la lettera a Vera Zasulič, cavallo di battaglia dei nuovi utopisti, egli è un uomo disilluso, ormai al termine della sua vita (morirà due anni dopo), che si è reso conto dell'allontanarsi, per lui sorprendente, della prospettiva comunista. Si concede così l'autentica sciocchezza, malgrado il suo genio, di prendere sul serio la comunità contadina feudale russa, come se si potesse saltare lo sviluppo capitalistico con quell'enorme socializzazione della produzione da esso indotta, che gli aveva fatto credere al comunismo quale processo già in gestazione nelle viscere del modo di produzione capitalistico.

  A 128 anni da quella lettera, piccoli residui “comunisti” - ancora in attesa solo messianica del (da Marx creduto) “parto necessario” dal “grembo” della società capitalistica - hanno ormai abdicato alla razionalità, dedicandosi al misero “Principio Speranza” di visionari, che di Marx hanno fatto un “profeta minore”, veramente piccolo piccolo. D'altronde, a fronte di questi cultori del suddetto “Principio”, assolutamente religioso, stanno i grevi ripetitori delle ferree leggi economiche che dimostrerebbero l'ineluttabile crollo dell'attuale società. Per cui, siamo stretti tra autentiche “teste di cemento”, tetragone ad ogni minima flessibilità e revisione scientifica, e credenti in un “genere” umano che infine farà prevalere la sua “naturale” bontà; piccoli gruppetti comunque in lento ma inesorabile esaurimento, ormai ridotti a qualche enclave universitaria o a qualche gruppetto di “giapponesi” a guardia dell'ultima isoletta, del tutto ignari che la “loro guerra” è ormai finita da tempo immemorabile.

  D'altra parte, l'altro grande personaggio che fu Lenin - autentico genio rivoluzionario - si servì del marxismo, e finalmente con giusto atteggiamento non reverenziale, quale semplice strumento per analizzare e valutare ogni data congiuntura, al fine di comprendere l'assommarsi o meno di condizioni del tutto specifiche atte a consentire l'esplodere di sommovimenti tali, in cui inserire l'azione rivoluzionaria. Egli apportò a tale strumento le necessarie revisioni: non pensò minimamente più al soggetto rivoluzionario marxiano, l'operaio combinato, il lavoratore collettivo cooperativo. Questo soggetto divenne l'alleanza tra operai (decisamente una minoranza) e contadini (soprattutto poveri, una sterminata maggioranza), senza la quale non sarebbe esistita alcuna rivoluzione nel '900. Si trattava di quella fondamentale e grandemente maggioritaria parte della società (misera e sfruttata non solo nel senso marxiano scientifico, ma ben più tangibilmente e orrendamente), esistente nell'incipiente fase di transizione dalle formazioni sociali precapitalistiche a quelle con assai modeste, ma significative, componenti capitalistiche (il rapporto sociale del capitale!).

  In nessuna delle formazioni particolari, arrivate alla loro piena caratterizzazione capitalistica - secondo l'indicazione marxiana della distinzione tra proprietà dei mezzi di produzione e proprietà di sola forza lavoro - si è verificato il benché minimo sussulto rivoluzionario: solo lotte sindacali, conflitti per conseguire migliori condizioni di lavoro e di benessere. Le organizzazioni “operaie” - in realtà del lavoro salariato, al cui interno gli operai in senso stretto sono costantemente diminuiti almeno come quota percentuale (ma ormai anche in numero assoluto) - sono state ben attente a non mettere mai in discussione l'organizzazione fondamentale del capitalismo, poiché avrebbero altrimenti soppresso la fonte del loro tendenziale aumento del tenore di vita. Essi - o meglio i loro opportunistici dirigenti, ma comunque con il loro convinto e maggioritario appoggio - hanno trasformato il comunismo di Marx in mero statalismo; quasi che il grande pensatore di Treviri (alla fine della sua vita obbligato per giorni a non uscire di casa perché la moglie gli aveva impegnato i pantaloni) fosse il volgare Lassalle, giunto anche ad osceni accordi con Bismarck.

  Come disse con estrema lucidità nel Che fare Lenin - mai stato un populista né un operaista - “l'aspirazione [spontanea, tradunionistica] di tutti [avete capito? Tutti, non qualcuno o una parte; nota mia] gli operai” è quella “di ottenere dallo Stato misure atte a rimediare ai mali che comporta la loro condizione, ma non ancora a sopprimere questa condizione, cioè a distruggere la sottomissione del lavoro al capitale”. Vogliamo, per favore, immaginare quali fossero le condizioni degli operai in Russia nel 1902, quando queste righe furono scritte? Vogliamo guardare alle condizioni esistenti, per tutti i gruppi sociali, nelle nostre società odierne ad alto sviluppo? Nemmeno se la crisi in corso assumesse caratteri da 1929 si tornerebbe a quelle condizioni. D'accordo, tutto è relativo; ognuno considera ormai indispensabili certi livelli di vita.

  Tuttavia, i “lavoratori” seguiranno sempre più facilmente chi prometterà loro che lo Stato (ma che non è lo Stato in sé, bensì altri gruppi dominanti in quella formazione particolare, ecc.) troverà qualche via di uscita per riprendere il miglioramento (tendenziale) delle loro condizioni di vita. E chi può mantenere simili promesse non è colui che tenta di distruggere l'intero assetto capitalistico, bensì solo alcune sue forme, sostituite con altre. Ecco perché, in paesi a capitalismo già giunto a sviluppo tale da aver grandemente diminuito (oggi in pratica eliminato) la funzione (e cultura) contadina, vincono gruppi politici erroneamente definiti reazionari, addirittura ritenuti rappresentanti di un capitalismo presunto parassitario (agrario, finanziario, ecc.). Errore madornale, che ha impedito ai sedicenti comunisti, in “innaturale” alleanza con le sinistre autenticamente reazionarie, di capire alcunché, tanto per citare un solo esempio, delle rivoluzioni fascista e nazista, che hanno ridato slancio e nuova crescita - tramite mezzi certo drammatici: sviluppo ineguale e regolamento guerresco dei conti per la supremazia - alle loro formazioni particolari e agli stessi ceti a più bassi livelli di reddito (malgrado le grandi fanfaluche raccontate dai “liberali” e “antifascisti” circa la diminuzione dei salari reali negli anni trenta in Italia e Germania; qui si, almeno, è necessario un “revisionismo storico”).

  Se ci si vuole opporre a nuovi eventi drammatici, bisogna far piazza pulita al più presto di ogni ulteriore velleità di quel “comunismo” che non è più - ma perché non lo può più essere - quello pensato da Marx, che prese un grande abbaglio circa la gestazione d'esso nel grembo del capitalismo. Il “comunismo reale” è stato lo statalismo affermatosi in Urss e in altri paesi detti socialisti. Esso ha conseguito già, sia pure dopo giravolte storiche durate quasi un secolo, i suoi risultati, che sono, in ultima analisi, Russia e Cina come si presentano oggi: nuove potenze in crescita, che daranno vita con grande probabilità ad una fase storica policentrica (già oggi multipolare). Non so se esse devono considerarsi mere varianti della formazione sociale detta capitalistica o se ci si accorgerà un giorno - in cui fosse possibile una loro nuova analisi con lenti teoriche nettamente diverse da quelle, ormai sporchissime, del marxismo - che si tratta di formazioni particolari di una differente forma generale di società.

  Inutile arrovellarsi adesso sul problema. Ciò che è certo è che esse non hanno nulla a che vedere con il comunismo, con quell'embrione di società che Marx vedeva già in maturazione nel mentre scriveva del modo di produzione capitalistico e dei processi di tumultuosa socializzazione in esso all'opera. Basta con la cecità dei marxisti per ormai un secolo o giù di lì. Una storia è finita, è sepolta, sussistono solo i miasmi che a volte sfuggono anche dalle meglio sigillate tombe. Anche questo mio minimo saggio sul carattere di feticcio della merce vuol dimostrare che - se l'argomento è trattato con criterio di rigore e non con la pura fantasia, non con il “vuoto pensare per il puro pensare” tipico degli intellettuali “raffinati” - si è costretti a giungere alla conclusione di altri miei lavori: chiusura definitiva con quei “comunisti” che sono o puri statalisti o dediti a “principi speranza” (secondo me, nutriti solo da chi ha paura di ammettere il fallimento delle illusioni coltivate, in fondo nobilmente, per tutta una vita).

  D'altra parte, allo stato attuale della pratica teorica possibile - nel contesto ancora ingombro delle decrepite teorie dei secoli scorsi: non certo il solo marxismo, ma ancor peggio il liberalismo e tutte le altre varianti dell'ideologia dei dominanti - non possiamo inventarci un nuovo “ismo”. Dobbiamo procedere proprio con lo spirito pratico di chi pensa e genera ulteriori, per quanto ancora frammentarie, categorie teoriche muovendosi all'interno della fase storica presente; ma con la memoria del passato e dei fallimenti incorsi finora, utilizzando la propria teoria di riferimento. Mentre il discorso va chiuso senza remissione con “comunisti” (falsi) e “marxisti (ancora più falsi) che sono soltanto sclerosi o vano fantasticare circa speranze “millenaristiche”; va invece aperto con tutti coloro che - indipendentemente dai loro punti teorici di partenza, dagli autori che formano il loro background culturale - cercano nuovi percorsi in una situazione storica di forte mutamento e in piena ebollizione. Da diversi punti di partenza, e certamente con alcuni paletti indicatori (per evitare poi delusioni), cerchiamo sentieri, oggi forse appena tracciati, che si dimostrino sufficientemente convergenti in un lasso di tempo non secolare.