I padri tornano in scena. Un papà molto determinato ha guidato in prima persona, con sconcertante certezza, il dramma di sua figlia Eluana. Padri meno ascoltati, separati o in famiglia, stanno organizzando incontri e dibattiti in decine di località italiane per il 19 marzo, festa del papà. Altri ancora si affacciano alle cronache, dal tredicenne inglese Alfie, ai padri tedeschi che protestano per non aver potuto salvare i loro figli dall’aborto. La paternità torna visibile. Non senza inquietudini.
Al padre come personaggio sociale non eravamo, infatti, più abituati. Almeno dagli anni 70 e dagli slogan «antipatriarcali» del femminismo, i padri non si erano più esposti in quanto tali come protagonisti di vicende pubbliche: temendo deplorazioni, si erano zittiti. La paternità era così progressivamente diventata un fantasma, di cui si sapeva poco, e cui si attribuivano di volta in volta qualità contraddittorie: l’autoritarismo, oppure la sdolcinatezza del «mammo», o anche il menefreghismo del metrosexual, nella cui vita il figlio sta tra la palestra e una conquista.

Gli uomini, del resto, lasciavano fare, evitando di dire la loro.
Il vero laboratorio del cambiamento, dal padre che sa già al padre che scopre la vita, sono stati i reietti, i padri che nei tribunali venivano separati dai figli, vedendoli poche ore alla settimana. Quei padri appresero, spesso per la prima volta e sulla pelle loro e dei figli, la ricchezza e il mistero della paternità. Un rapporto carico di responsabilità, e oggi quasi privo di potere, che rende la vita completamente diversa da prima.
Diventando padre, o accorgendoti di esserlo, come questi padri che non stavano più con i loro figli, e soffrivano, scopri che devi loro qualcosa che c’entra con la vita.
Come ha detto Alfie, tredici anni, neo-padre stupefatto: «Non so come faremo a mantenere la bambina, non prendo nemmeno la paghetta. Mio padre mi dà dieci sterline ogni tanto».
Diventare padri accelera la tua uscita dall’infanzia, reale o presunta, ti fa crescere, scoprire l’altro: il figlio, la donna, i genitori, il mondo. In un modello culturale come il nostro, dove si insegnano soprattutto i consumi, le loro qualità e costo, o i princìpi in astratto (valori, libertà, diritti), la paternità (specie se negata o contrastata) è una scuola di vita, autentica, ingloriosa, ma concreta.
I padri separati, appendendosi a campanili e torri, dalla cattedrale di Lecce al Big Ben per vedere i loro figli, battendosi per avere l’affido condiviso, dormendo nei cartoni o nei dormitori pubblici, hanno ridato alla figura del padre un contenuto più corrispondente a ciò che il padre è oggi. Quindi non l’influenza sociale, ma l’emarginazione («gettatelo per la strada e tirategli dietro i suoi vestiti», raccomandava negli anni 80 il potente giudice americano Richard Russell agli operatori da lui formati), non la ricchezza, ma la perdita di casa, donna e figli insieme, non il possesso dei «princìpi» (quali?), ma la scoperta quotidiana, difficile e inedita, del come fare a vivere, per sé e per i propri figli.
I padri privati della possibilità di dire la loro sul figlio che avevano generato e che le loro compagne avevano deciso di non fare nascere ridiedero poi voce (fino alla recente prima pagina del Die Zeit) al grido di Giasone nella Medea di Euripide: «Vorrei non averli generati, per non vederli ora da te uccisi». Anche questo un grido di amore, e di impotenza.
Ecco la nuova (ma già conosciuta nel tempo) dignità paterna. È scoprendo con sentimento l’amore per ogni vita che il padre può dare ancora un contributo alla storia dell’uomo.