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Un mito chiamato Geronimo

di Vittorio Zucconi - 18/02/2009

     
 



 
Vittorio Zucconi ripercorre la storia coraggiosa e tragica di Geronimo, il grande capo Apache che, nella seconda metà del XIX secolo, tenne testa all’esercito americano lanciato alla conquista della “frontiera” del West. Geronimo fu l’ultimo di una serie di capi indiani, quali Toro Seduto e Cavallo Pazzo, che combatterono per l’indipendenza degli indiani dall’“uomo bianco”. Iniziò a lottare intorno al 1850 e, dopo la fine della guerra civile (1861), si trovò a fronteggiare gli stessi generali che avevano sconfitto dapprima i sudisti, poi le tribù indiane delle grandi praterie. Ma solo nel 1886 Geronimo si arrese ai soldati americani e dopo diverse fughe dalle riserve in cui fu rinchiuso morì nel 1909. Dopo alcuni decenni il nome Geronimo divenne un grido di battaglia proprio dei soldati statunitensi che lo avevano sconfitto.

Se “Colui che Sbadiglia” potesse vedere il proprio nome cucito oggi, cento anni dopo la sua morte, sulla manica di un reggimento di parà americani, il 501esimo, potrebbe sorridere, forse di amarezza e forse di orgoglio. Proprio lui, “Colui che Sbadiglia” soprannominato Geronimo, l’ultimo dei guerrieri Apache, il più indomito capo delle bande degli indiani del Sud Ovest che cinquemila giubbe blu a cavallo e cinquecento mercenari con artiglieria dovettero inseguire per cinque mesi e per tremila chilometri tra i canyon dell’Arizona e del Messico prima di catturarlo con appena trentacinque guerrieri superstiti, è divenuto il grido di battaglia dell’esercito che lo annientò. “Geronimo”, era l’urlo lanciato dai parà per darsi coraggio quando si lanciavano sulla Normandia, non potendo gridare, o pronunciare, il suo vero nome, “Goyathlay”, colui che sbadiglia, scelto dalla madre quando lo mise al mondo nel canyon di No-dohyon, alle foci del fiume Gila, e notò quanto quel neonato sbadigliasse.
Neppure la mamma, pur donna di una nazione di guerrieri come erano i suoi Bedohonke, una tribù della nazione Apache, che cullava e avvolgeva nelle pelli di lupo quell’infante sonnacchioso, avrebbe potuto immaginare che lui sarebbe divenuto appena sedici anni più tardi, quando fu ammesso nel circolo dei guerrieri, uno di quegli “spartani” del West, di quegli eroi irriducibili e votati al massacro il cui nome avrebbe risuonato per sempre nell’ammirazione e nel terrore dell’invasore europeo. Soltanto pochissimi uomini lontani, sparpagliati nell’immensità del continente che i soldati blu implacabilmente conquistavano [...] avrebbero raggiunto la statura superstiziosa e storica di Geronimo: Toro Seduto e Cavallo Pazzo dei Lakota Sioux, Osceola dei Seminole della Florida, l’unica nazione indiana a non essersi mai arresa, Tecumseh degli Shawnee, uno dei primi martiri dell’invasione, caduto nelle prime “guerre indiane” del 1812, dopo che gli inglesi avevano già ucciso suo padre.
Ma anche “Goyathlay” Geronimo, come tutti gli altri eroi della vana resistenza indiana, fu un eroe involontario, un guerriero qualsiasi, come tutti i maschi abili delle tribù diventavano a diciassette anni, convinto di dover dedicare la propria esistenza alla caccia, perché gli Apache, come i Sioux, gli Cheyenne, i Corvi, erano nomadi, dedicati alle reciproche, spesso simboliche schermaglie con le bande vicine, per rubarsi cavalli, per commerciare, per estendere il territorio di caccia, per semplice ambizione e voglia di farsi belli con le donne e gli anziani. Come tutti loro, anche “Colui che Sbadiglia” fu scosso brutalmente dal sogno della tradizione che durava da diecimila anni, da quando i primi di loro avevano raggiunto dall’Asia le terre che oggi sono al confine tra l’Arizona e il Messico, dall’incontro con la ferocia, la ingordigia e la doppiezza di uomini dalla pelle rosea e dagli occhi chiari che non aveva mai visto prima e non capiva che cosa volessero. La storia delle “guerre indiane”, la saga che anni dopo il cinema avrebbe raccontato per invertire la storia illustrando bande feroci di “pellerossa” accaniti contro inermi carovane circondate a Fort Apache e destinate allo scotennamento senza l’arrivo della cavalleria, è esattamente quello che accadde, ma al contrario.
Mentre Cavallo Pazzo nel Grande Nord assisteva al massacro sistematico dei villaggi Lakota e Cheyenne, mentre Tecumseh vedeva il padre e la madre cacciati e abbattuti come selvaggina in quello che oggi è l’Ohio dai mercenari tedeschi di Lord Dunmore nel 1774, Geronimo si preparava all’evento che avrebbe cambiato la sua vita, negli anni attorno al 1850. Fu allora che rientrando al proprio villaggio dopo una giornata trascorsa lontano a contrattare commerci e accordi con un altro villaggio, Geronimo trovò la madre, la moglie, i tre figli piccoli massacrati. Erano state le truppe messicane, non i “soldati blu”, a compiere la strage, ma anche i federales messicani erano al servizio del colonialismo bianco. Da quel giorno di disperazione, colui che sbadiglia divenne colui che ruggisce. Si unì a una banda di Apache votati alla resistenza armata contro tutti gli estranei nelle proprie terre, i Chiricauas, e fu guerra senza quartiere, interrotta da trattati solenni che i bianchi ignoravano e tradivano prima che l’inchiostro si seccasse.
Per più di trent’anni, giocando al gatto e al topo nel terreno selvaggio e duro dei canyon, dei deserti, della polvere, della sete, a cavallo tra i territori senza frontiera del Messico e degli Stati Uniti, inseguito ora dai federales messicani, ora dai dragoni della cavalleria Usa, Geronimo divenne, prima che un formidabile “bandido”, un implacabile “desesperado” [...], un mito destinato a sopravvivere per secoli. Dopo la guerra civile del 1861, Washington gli mandò contro il meglio e il peggio del proprio arsenale, i generali reduci dal massacro dei Lakota Sioux nel Nord, quelli che avevano soppresso le grandi tribù dei cacciatori di bufali senza mai davvero sconfiggerle sul campo, ma soffocandone i territori vitali, pagando e facendo pagare prezzi terribili, al Little Big Horn, con la strage del settimo cavalleria guidato dall’incosciente Custer.
Fu il generale Crook, che come colonnello aveva subito una sonora sconfitta da Cavallo Pazzo presso il fiume Rosebud anni prima, a condurre la spedizione punitiva finale. Inseguì Geronimo, ridotto a guidare una miserabile banda di trentacinque guerrieri macilenti accompagnati da centonove vecchi, donne, bambini, per quasi tremila miglia, con un’armata per i tempi imponente, cinquemila soldati regolari, centinaia di ausiliari indiani, pezzi di artiglieria e le prime mitragliatrici Gatling sperimentate vent’anni prima nella guerra civile. Geronimo fu circondato tra i Monti di Sonora, in Messico, e si arrese. Era il 1886. L’Italia era un regno unificato da venticinque anni, Roma la capitale da ormai sedici, mentre l’Ultimo Apache si arrendeva. Fu chiuso in un campo di concentramento per indiani riottosi. Ne fuggì. Fu di nuovo inseguito e catturato. Lo rinchiusero nel forte militare di Fort Sill, in Oklahoma, ancora oggi sede della scuola di artiglieria dell’esercito, costretto a fare il contadino, a coltivare un orto, sotto i fucili dei soldati. Addomesticato e vecchio, a settantasei anni, fu trascinato a Washington, nel 1905, per sfilare, come i sovrani barbari nei trionfi imperiali romani, nella parata inaugurale dietro a Theodore Roosevelt, tra gli uh, ah, oh del pubblico che finalmente vedeva, sdentato e inoffensivo, l’Apache del terrore, il “feroce” Geronimo. Tirò il suo ultimo sbadiglio nel 1909, soffocato dalla polmonite. [...]