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La rinascita del Ruanda

di Bartholomäus Grill, Andrea Jeska - 18/02/2009

    
 
 

 
Nel 1992 il Ruanda conobbe uno dei genocidi più gravi della storia dell’umanità: più di un milione di civili furono trucidati negli scontri tra hutu e tutsi prima che i guerriglieri di questi ultimi, guidati dal generale Kagame, riuscissero a liberare il paese dalle milizie hutu.
Oggi Kagame è il presidente di un Ruanda apparentemente riconciliato, ma ancora profondamente segnato da un genocidio su base etnica che il mondo occidentale e l’Onu fecero finta di non vedere.
Il settimanale tedesco “Die Zeit” ha intervistato Kagame. Ne scaturisce un’inchiesta sia sui crimini di guerra, sia sul presente della nazione del centro Africa.

Cominciare questo articolo con lo scarafaggio nella cripta di Nyamata significherebbe far trionfare il passato sul futuro e l’orrore sulla speranza. Significherebbe descrivere il Ruanda come un paese che non vuole più esistere: un teatro di stragi, un luogo dove carnefici e vittime sono costretti a vivere gli uni accanto agli altri, dove la paura non vuole scomparire. Inyenzi, scarafaggi: così gli hutu chiamavano i tutsi. I nemici dovevano essere sterminati come parassiti. Anche questo scarafaggio, qui nel sepolcro, lotta per la sopravvivenza. Cerca di arrampicarsi sulle piastrelle lisce per uscire alla luce, ma scivola continuamente, ripiombando nel locale buio e umido dove sono custodite le ossa delle diecimila persone assassinate quindici anni fa nella chiesa di Nyamata. Raccontare solo questo Ruanda, però, signifiicherebbe dimenticare che questo piccolo paese ha dato vita a un miracolo economico nel cuore dell’Africa. Signifiicherebbe dimenticare la grande forza di volontà dei suoi abitanti, che stanno cercando di lasciarsi alle spalle un passato pieno di terrore. Uno di loro è Credo Nabayo, un allampanato ragazzone di 18 anni. Credo ci porta in giro nella cittadina dov’è nato, Ntarama, e ci mostra la chiesa dove si trovano i resti di suo padre. “Non possiamo continuare a guardarci indietro, altrimenti resteremo paralizzati”, dice. Credo vuole aprire un’officina quando avrà finito gli studi al Nelson Mandela educational centre, il nuovo istituto professionale costruito dall’organizzazione umanitaria tedesca Grünhelme. Il ragazzo aspetta con ansia la cerimonia dell’inaugurazione, che sta per cominciare. Da ore circa duemila persone si sono riunite nella calura soffocante di mezzogiorno, cantando e ballando. Rupert Neudeck, fondatore di Grünhelme, è arrivato dalla Germania e tra poco terrà un discorso. Alfred Biolek, un conduttore di talk show che Neudeck si è portato dietro, sta preparando una zuppa di fagioli per gli ospiti d’onore. Tutti aspettano il presidente Paul Kagame, che inaugurerà personalmente l’istituto. Credo ammira il capo di stato: dalla capitale Kigali, Kagame pianiica su vasta scala le stesse cose che lo studente vuole realizzare nel suo piccolo mondo di Ntarama. Il governo, infatti, ha annunciato un progetto che spera di realizzare entro il 2020: costruire un paese stabile ed economicamente florido. Il Ruanda, in altre parole, dovrebbe diventare uno stato modello, che non ha più bisogno di aiuti dall’estero e che si sviluppa con le proprie forze. Un giorno tutti i suoi cittadini, hutu o tutsi, dovrebbero stare abbastanza bene da superare i loro conflitti etnici. Nel paese delle mille colline Kagame vuole modernizzare la vita, portare istruzione, lavoro e benessere, e sconfiggere la miseria quotidiana. Ma il piccolo Ruanda può davvero raggiungere questi obiettivi? Con i suoi nove milioni di abitanti è il paese africano con la più alta densità di popolazione. Questa pressione demografica riduce sempre più le superfici coltivabili: le derrate alimentari scarseggiano in diversi distretti e nessuno sa come risolvere il problema. Inoltre il Ruanda è uno dei paesi africani più poveri di materie prime. Il pil pro capite è di 334 euro all’anno e il 60 per cento dei suoi abitanti vive in condizioni di estrema povertà. Nella classifica dell’indice di sviluppo umano, un parametro di misurazione dello sviluppo dei paesi del mondo, il Ruanda è agli ultimi posti, appena prima dell’Afghanistan. Ma ha un presidente che vuole realizzare un sogno. Le automobili di stato – un corteo nero accompagnato dalle guardie del corpo – arrivano una dopo l’altra. Da un suv blindato scende un uomo alto, magro e dal volto affilato. Indossa un completo grigio gessato e una camicia celeste, ma è senza cravatta. Ha un andamento marziale, da generale. Passa accanto allo spazio riservato agli spettatori, mantenendo una distanza di sicurezza: non tenta neanche una volta di avvicinarsi alla folla. La gente saluta, ma senza passione, quasi per dovere. Non come si saluterebbe il liberatore che nel 1994, alla testa della sua milizia ribelle, il Fronte patriottico ruandese, è arrivato dall’Uganda per rovesciare il regime dei genocidi. Kagame sale sul podio e già dopo le prime parole si capisce che non è un grande oratore. Le sue frasi sono brevi e hanno un suono metallico. Ogni tanto la sua voce resta sospesa, come se volesse aggiungere qualcosa ma non sapesse bene cosa. Resta impassibile quando la gente applaude. Gli spettatori dovrebbero essere felici di sentir parlare il loro presidente di pace, di riconciliazione e di ricostruzione comune, ma sembra che applaudano solo per buona educazione. Sono tutti pigiati dietro un cordone di protezione largo una ventina di metri. Alle loro spalle si vedono folti bananeti e colline verdi. Kagame sembra uno straniero in patria.

Occhiali da professore
Forse teme che qualcuno sia lì per ucciderlo? Magari i complici del genocidio, a cui oggi tende la mano? Anche loro facevano parte della maggioranza schiacciante che lo ha eletto presidente, ma Kagame non sembra fidarsi troppo. L’espressione dura e impenetrabile del suo volto non si allenta neanche dopo, durante la visita alle officine. Ogni tanto fa una domanda, ascolta, annuisce, elogia, stringe la mano agli studenti. [...] Ma chi è Kagame? Chi è quest’uomo capace, secondo alcuni, di vagare nella foresta per cinque giorni senza mangiare né bere né riposare? Questo politico che con il suo volto ascetico, i baffetti e gli occhiali da professore sembra un freddo intellettuale? E che alcuni considerano una nuova figura di leader panafricano, mentre altri un criminale di guerra? Kagame è nato in Ruanda nel 1957, ma è dovuto fuggire nel vicino Uganda all’età di dieci anni a causa dei pogrom scatenati contro il suo gruppo etnico, i tutsi. Al giornalista statunitense Stephen Kinzer, autore di una sua biografia, il presidente ruandese ha raccontato le ingiustizie e le umiliazioni subite in esilio. “Quella vita”, ha detto, “mi ha fatto venire voglia di ribellarmi. Provavo una grande rabbia, perché in esilio trovavano sempre il modo di ricordarti che non eri di lì e che avresti dovuto essere altrove. Ma io non avevo nessun posto che potessi considerare davvero mio”. Scacciato dalla patria e indesiderato in esilio: in quella situazione senza via d’uscita, Kagame ha maturato il progetto di riconquistare il Ruanda e liberarlo dalla tirannia degli hutu. Nonostante le discriminazioni, Kagame è riuscito a diventare ufficiale delle forze armate ugandesi e nel 1990 ha perfezionato la sua formazione militare in Kansas, a Fort Leavenworth, l’accademia d’élite dell’esercito statunitense. Tornato in Africa, ha costituito la milizia ribelle con cui ha attaccato il Ruanda e nel 1994 ha rovesciato il regime degli hutu ponendo fine al genocidio. Kagame è presidente del Ruanda da nove anni: i suoi poteri sono praticamente illimitati e la sua voce è molto ascoltata nell’Unione africana. è considerato uno dei leader più influenti del continente. In Ruanda molte persone ne parlano bene: professori, sacerdoti, medici, operai, piccoli agricoltori, operatori delle ong. Ha la fama di politico responsabile e di ampie vedute, capace di garantire la fragile pace, la crescita e la sicurezza del paese. Molti politici statunitensi e dell’Europa occidentale ammirano la decisione con cui fissa gli obiettivi economici, la sua autodisciplina, la sua abilità diplomatica. I suoi critici, invece, lo considerano un dittatore che vuole imporre il dominio incontrastato dei tutsi. A queste persone bisogna promettere di non scrivere neanche una parola che possa far risalire alla loro identità. L’elenco dei crimini attribuiti a Kagame è lungo. Leave none to tell the story. Genocide in Rwanda, il libro scritto nel 1999 da Alison Des Forges su incarico di Human rights watch, contiene un capitolo molto dettagliato sulle sanguinose rappresaglie dei ribelli di Kagame contro gli hutu. Nell’aprile del 1995 lo scrittore Hans Christoph Buch è stato testimone oculare del fuoco indiscriminato che i soldati di Kagame hanno aperto sui profughi del campo di Kibeho. L’organizzazione Reporter senza frontiere ha inserito il Ruanda tra gli stati canaglia che reprimono la libertà di stampa e perseguitano chi critica il regime. Di tutte queste accuse nel paese si parla solo sottovoce, quando se ne parla. A Kigali, intanto, si vedono i primi segni del progetto di Kagame. La luce del sole si rilette sulle torri in vetro e cemento delle banche, dei grattacieli e degli alberghi. Ci sono negozi di computer, boutique eleganti e un centro commerciale aperto 24 ore su 24. Nei caffè si beve latte macchiato come ovunque nel mondo globalizzato. L’abbondanza di Internet point, telefonini e suv conferma che Kigali si trova sulla strada della modernità. I semafori che funzionano, i marciapiedi, i canali di scolo, gli spazi verdi: tutto è impeccabile. Kigali è la prima città africana ad aver ricevuto il premio World habitat, un riconoscimento riservato allo sviluppo sostenibile. In centro c’è Galette, che è allo stesso tempo panetteria, macelleria, supermercato, ristorante e agenzia di viaggi. Il negozio è stato aperto dal tedesco Mike Fietzek. “Kigali è più pulita di Colonia”, dice mentre una cameriera ci serve una salsiccia al curry. Fino a pochi mesi fa, sulle colline che circondano la città, si vedevano ancora le tradizionali capanne di fango con il tetto di lamiera ondulata e un fazzoletto di terra dove crescevano alberi da frutto, mais e patate dolci. Ora non c’è più niente: sono stati progettati nuovi quartieri, e gli abitanti delle capanne hanno dovuto accettare un indennizzo e tornare nei villaggi d’origine. La città respinge chi non riesce a stare al passo con i nuovi tempi. Sui terreni ormai incolti sorgono case di mattoni con sistemi d’allarme, garage e alloggi per i domestici. Presto qui si stabiliranno le famiglie della nuova media e alta borghesia. Sono i beneficiari del boom economico: quelli che per aver servito fedelmente il governo sono stati ricompensati con incarichi dirigenziali ben retribuiti nelle imprese private e nell’amministrazione pubblica. L’élite del nuovo Ruanda guarda all’Occidente, soprattutto agli Stati Uniti. Ma girando per le imprese e i ministeri saltano fuori modelli molto diversi: Singapore, la Cina, le dittature del mondo in via di sviluppo, dove le forze di mercato liberate dalle pastoie hanno avuto la meglio sulla democrazia. Spesso le metropoli africane ingannano il visitatore. E se anche dietro la facciata rimessa a nuovo di Kigali si nascondesse una realtà completamente diversa? Questo scetticismo, però, scompare appena si entra in uno dei nuovi palazzi di uffici, per esempio quello della Banque rwandaise de développement. Anche qui tutto è pulito e ordinato. In completo grigio, il direttore Theogène Turatsinze sembra un elegante consulente finanziario. Alle sue spalle è appesa una foto di Kagame. “Secondo la Banca mondiale, il Ruanda è tra i paesi africani più avanzati sulla via delle riforme”, annuncia orgoglioso. “E l’agenzia di rating Fitch, che valuta il clima per gli investimenti, ci ha appena alzato il voto”. Servizi, agricoltura, turismo: tutti i settori fanno ben sperare. Il Ruanda, spiega Turatsinze, vuole sviluppare una propria industria alimentare ed esportare prodotti come caffè, tè, fiori e piante medicinali. “Vogliamo gestire il nostro paese come un’impresa”, conclude.

Multinazionali
L’economia ruandese è in forte crescita da cinque anni: per il 2008 è previsto un aumento del pil pari al 6 per cento. In Africa solo paesi esportatori di materie prime, come l’Angola, registrano tassi superiori. Il Ruanda ha cominciato ad attirare l’interesse delle grandi multinazionali. Qui tutti sono i benvenuti: cinesi, arabi, statunitensi, tedeschi, britannici. [...] Il più grande investitore privato è il gruppo tedesco Altira. Il suo fondo African Development Corporation ha investito nel settore bancario, immobiliare e informatico del Ruanda. Un alto dirigente di Altira, Christian Angermayer, è un grande fan di Kagame. “Sa come attirare gli investimenti”, dice, “ed è riuscito a eliminare quasi del tutto la corruzione. Vuole davvero promuovere il suo paese e lavora duramente per raggiungere l’obiettivo. I politici tedeschi hanno molto da imparare da Kagame e dalla sua disciplina”. Angermayer va a Kigali ogni sei settimane. è entrato nella cerchia dei consiglieri del presidente, insieme a Tony Blair, Bill Clinton, Paul Wolfowitz, l’ex capo della Banca mondiale, e Joseph J. Ritchie, un esuberante uomo d’affari statunitense che coordina la strategia di sviluppo nel Rwanda development board, un’agenzia del governo creata nel 2008, e cura i suoi rapporti con l’élite economica americana. Ritchie mi aspetta nella hall del Serena, un nuovo albergo a cinque stelle dove si incontrano tutti quelli che contano in Ruanda. “Chiamami Joe”, dice, e attacca subito – come tutti i lobbisti – con un elogio sperticato del presidente. “Normalmente i governi africani non apprezzano i consigli degli stranieri. Ma quello di Kagame è completamente diverso”. Le lodi al presidente sembrano dettate dalla gioia di aver finalmente trovato una luce in Africa: un leader lungimirante che, a differenza di molti politici corrotti del continente, si assume le sue responsabilità e fa quello che l’occidente si aspetta da un partner. Ma in Africa bisogna essere prudenti di fronte a tanto entusiasmo. Molti capi di stato, tra Dakar e Dar es Salaam, hanno suscitato grandi speranze, per poi rivelarsi tiranni e cleptocrati: per esempio Nicéphore Soglo nel Benin, Frederick Chiluba in Zambia, Robert Mugabe in Zimbabwe, Mwai Kibaki in Kenya. È proprio escluso che succeda lo stesso con Kagame? “Sì”, risponde categorico Ritchie. I nuovi investitori sono entusiasti del loro rifugio, un ediicio su cui svetta una gigantesca brocca di terracotta: il One Stop Shop. “È un paradiso”, dice Rahim Manji, manager dell’impresa keniana SteelRwa, che sta aprendo una filiale in Ruanda. A Kigali non è costretto a distribuire inchini e bustarelle: qui è accolto con amicizia, fiducia e disponibilità. “È un paese unico in Africa. Noi siamo attivi anche nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc1) e in Angola. E lì è un incubo, gliel’assicuro”. In Ruanda tutte le formalità vengono sbrigate a un ritmo impensabile fino a poco tempo fa. I visti per i lavoratori specializzati? Trenta minuti. La dichiarazione per le dogane? Massimo tre ore. La licenza per aprire un’attività? Non più di tre giorni.

L’intervista
Finalmente otteniamo un appuntamento con Kagame: alle 11 nell’ufficio del presidente. Ma prima veniamo avvertiti: se accenneremo alle accuse degli oppositori, il presidente interromperà l’intervista. Inoltre, siamo costretti a sottoporgli le domande in anticipo. Kagame ci riceve in una sala spoglia. È rilassato e di buon umore. Mezz’ora prima il consiglio dei ministri ha deciso che la lingua ufficiale nelle scuole e nelle università ruandesi non sarà più il francese: oltre al kinyaruanda, si parlerà solo l’inglese. Una rottura radicale con la tradizione postcoloniale. I rapporti tra Kigali e Parigi sono pessimi. Il regime responsabile del genocidio era sostenuto dalla Francia, mentre la giustizia francese ha emesso mandati di cattura internazionali contro Kagame e nove suoi fedelissimi. Il giudice istruttore JeanLouis Bruguière accusa gli ex ribelli di Kagame di aver abbattuto il 6 aprile 1994 l’aereo del presidente Juvénal Habyarimana, scatenando deliberatamente il genocidio. “Lei è sotto accusa, presidente”. Sul volto di Kagame compare per un attimo un sorriso sprezzante. “I francesi”, dice, “vogliono sottrarsi alle loro responsabilità nel genocidio, sostenendo che loro non c’entrano niente con questa storia: sono gli africani che si massacrano tra loro. Un giudice francese crede di poter estendere la propria giurisdizione su un paese sovrano. S’immagini cosa succederebbe se un giudice ruandese mettesse in stato d’accusa un presidente europeo”. Kagame ride per dissimulare la rabbia, ma sul contenuto dell’atto d’accusa tace. “Noi africani non tolleriamo più quest’arroganza. Ci opponiamo”. “E il coinvolgimento del suo paese nella guerra dell’Rdc? Il presidente congolese Joseph Kabila accusa il suo governo di pianificare un’invasione”. “La comunità internazionale tratta Kabila come un bambino viziato. Ma se lui non riesce a governare il suo paese, la colpa non è mia. Gli autori del genocidio del 1994 sono fuggiti nell’Rdc. La comunità internazionale lo sa benissimo, ma non fa niente. Kabila ha firmato un accordo per disarmarli, ma fa esattamente il contrario: li rifornisce di armi”. Poi riprende a parlare del futuro luminoso, come se il suo pensiero dovesse imboccare una nuova direzione. E quando gli torna in mente il genocidio, accusa il mondo di essere stato a guardare senza fare niente: “A noi africani si attribuisce una dignità umana minore”. Kagame ha accettato di parlare con noi per un’ora. Ascolta attentamente e risponde con precisione. Ogni tanto avvertiamo una strana vicinanza, un senso di familiarità, come se il presidente si sentisse in compagnia di amici. Ma un istante dopo torna a balenare l’altro Kagame, l’ufficiale dall’aria arrogante e sinistra che non sopporta nessuna contestazione al suo programma di governo. “Signor presidente, ha paura che si possa ripetere il genocidio?”. “Non deve succedere”, risponde. “Non bisogna ripetere gli errori del passato”. “Ma nel suo paese è vietato parlare di hutu e tutsi”. “No. Io sono un tutsi. Ma se dico che per la mia appartenenza etnica mi spettano più diritti, cioè se faccio distinzioni discriminatorie, commetto un reato”. Gli odi etnici non devono riesplodere: è questa la prima massima della politica di Kagame. Il Tribunale penale internazionale per il Ruanda delle Nazioni Unite, che ha sede ad Arusha, in Tanzania, ha emesso 40 condanne contro i principali organizzatori del genocidio. Intanto, però, molti dei carnefici processati in Ruanda continuano a uscire dal carcere. Come continuano ad agire gli irriducibili, che uccidono testimoni, e le milizie hutu, che nelle foreste dell’Rdc terrorizzano la popolazione civile congolese e vogliono riconquistare il Ruanda. Insieme alle milizie tribali, ai signori della guerra e ai bambini soldato, i génocidaires ruandesi spadroneggiano in un paese ingovernabile come l’Rdc. Il caos che imperversa oltreconfine minaccia il Ruanda, i suoi progetti ambiziosi e la minoranza tutsi. Per questo Kagame teme che il conflitto etnico si riaccenda non appena il paese sarà contagiato dal pensiero della libertà. Democrazia? Stato di diritto? Prima il Ruanda deve svilupparsi economicamente, poi si vedrà. Kagame scommette sul miracolo economico per scacciare i fantasmi della storia.
[...] Per Rainer Krischel, della Gtz (Gesellschaft für Technische Zusammenarbeit), la società che si occupa di cooperazione tecnica con i paesi in via di sviluppo per conto del governo federale [tedesco]. Secondo Krischel, lo sviluppo economico del Ruanda è insufficiente rispetto alla crescita demografica del paese: “Anche nella migliore delle ipotesi”, dice, “nel lungo periodo il Ruanda non raggiungerà comunque l’autosufficienza alimentare”. Krischel sostiene che il futuro del paese dipende da Kagame. “Anche gli hutu contano su di lui. Ma cosa succederà se Kagame fallisse? In quel caso non ci resterà che fare in fretta le valigie”. Il credo del presidente – rendersi indipendenti dalle elemosine – contraddice apertamente gli enormi aiuti che affluiscono in Ruanda. “Il 49 per cento del nostro bilancio nazionale è finanziato da donatori stranieri”, ammette John Rwangomgwa, segretario generale del ministero delle finanze. L’ufficio di Rwangomgwa, nel centro di Kigali, minaccia di scoppiare per le montagne di documenti. “Dipendiamo ancora dai soldi stranieri”, aggiunge. “Non siamo un paese sovrano al 100 per cento, perché i donatori vogliono mettere bocca nelle nostre decisioni”. Anche lui, naturalmente, si trova nelle stesse condizioni dei responsabili delle finanze di altri paesi: non è in grado di stimare le conseguenze della crisi economica globale per il suo paese. I ruandesi, spiega Rwangomgwa, devono aspettarsi un calo sia degli investimenti dall’estero sia degli aiuti. “Ma ce la faremo”, sottolinea con insistenza, come per darsi coraggio. “Le nostre élite non si vogliono arricchire, desiderano una vita migliore per tutti”. Belle parole. Ma suonano illusorie non appena ci si sposta in provincia. Basta puntare verso Nyamata, la capitale amministrativa del distretto di Bugesera, collegata con Kigali da una strada asfaltata di fresco. Qui la gente è ancora in attesa del grande sviluppo. “Arriverà”, promette il sindaco. “Tra cinque anni anche da noi sarà tutto diverso”. Ed elenca gli ambiziosi progetti avviati nel distretto. Sarà costruito un aeroporto internazionale. L’intenzione è investire nel turismo, spiega, “ma ci manca il personale qualificato”. Qui è ancora Africa, mentre a Kigali, che dista circa 30 chilometri, è già Cina o Dubai. Nel centro del paese la ruota del progresso gira così in fretta che la periferia non riesce più a tenere il passo. La maggioranza degli abitanti delle campagne è costretta a sopravvivere con quello che producono i piccoli campi coltivati. E molti agricoltori non sanno se domani avranno da mangiare.

Orgoglio africano
Nel salone da ballo dell’hotel Serena, a Kigali, è riunito un gruppo di giovani talenti del paese: 450 tra studenti di economia e imprenditori che studieranno con famosi accademici. Oggi il tema è lo spirito imprenditoriale. Sponsor della conferenza è la first lady del Ruanda, Jeannette Kagame. Quando suo marito sale sul podio per parlare, cala un silenzio reverenziale. Il suo discorso è una specie di trattato sull’orgoglio africano. “Quando istituzioni importanti discutono di economia, non parlano mai dell’Africa. E perché mai dovrebbero farlo, se non aspiriamo a essere influenti?”, dice. In Ruanda non c’è posto per la mediocrità: “Dobbiamo liberarci da questa condizione, che spinge il resto del mondo a stabilire cos’è bene per noi”. Chi sta parlando in questo momento? Il presidente che sprona i giovani ruandesi? Il comandante che guida i soldati durante un’esercitazione? L’imprenditore che comunica la strategia ai dipendenti? O il giovane profugo mortificato dall’esilio? “Guidare un governo non è il lavoro giusto per me”, ci ha detto Kagame alla fine dell’intervista. “Ho sempre la sensazione di trovarmi nel posto sbagliato. Credo di essere un semplice uomo d’affari”. Questa pubblica ammissione di Kagame è modesta e al tempo stesso arrogante. Kagame è l’uomo dell’ombra, ma anche il leader che ha portato la luce. La sua astuzia, la capacità decisionale, la lungimiranza, l’incorruttibilità e la frugalità fanno ben sperare. La sua volontà di potenza, la freddezza, la profonda diffidenza nei confronti di parte del suo stesso popolo, l’immagine di sé che confina con l’infallibilità potrebbero annunciare, dopo la speranza, la delusione. [...]

NOTE
1 Rdc: Repubblica Democratica del Congo, dove da anni vi sono sanguinosi scontri tra hutu e tutsi per il controllo dei giacimenti minerari nella regione al confine col Ruanda.