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L’illusione della politica: la solitudine di Cicerone

di Luciano Canfora - 18/02/2009

      
 
 

 
Cicerone lasciò un ampio epistolario privato che Augusto volle rendere pubblico per ridimensionare la scomoda figura dell’oratore romano. In occasione della pubblicazione di un saggio di Emanuele Narducci, lo storico Luciano Canfora rievoca l’alterna ricezione di quelle lettere presso i posteri fino a giungere agli anni Quaranta del Novecento.
Canfora rilegge nell’epistolario di Cicerone l’ambiguità a cui è sempre costretto l’uomo politico, diviso fra fedeltà ai propri principi e necessità di scendere a compromessi, per poi spesso affrontare la costrizione del ritiro dalla scena politica mascherato da volontaria scelta autoconsolatoria.

Cicerone è uno dei pilastri della nostra conoscenza del mondo antico. Se non avessimo la sua imponente opera, le nostre conoscenze sarebbero assai più povere. Cicerone è anche l’uomo antico che conosciamo meglio, poiché è l’unico personaggio di tutta l’antichità sia greca che romana di cui ci siano giunte — in quantità imponente — le lettere [...]. Questa inopinata fonte, che comprende quasi un migliaio di lettere, copre un ventennio, dal consolato (63 a.C.) alla morte (43 a.C.): essa ci consente di conoscere quel decisivo periodo storico meglio di qualunque altro della storia antica. Ma ha anche l’effetto di renderci talmente «familiare » Cicerone, di «svelarlo» in modo talmente indiscreto, da pregiudicare per sempre la sua reputazione presso i moderni. Questo fu l’effetto che si produsse già quando Francesco Petrarca mise le mani sul manoscritto delle Lettere ad Attico, le più intime, le meno «controllate». Talmente si turbò Petrarca nel vedere Cicerone messo a nudo da indirizzargli una lettera durissima, e profondamente delusa, che incluse nella raccolta delle Familiari, una lettera che voleva essere una sconfessione, una rottura di rapporti col personaggio fino a quel momento venerato. (Successivamente però gliene scrisse un’altra, di riconciliazione).
Al di là della stravaganza di queste lettere a trapassati così remoti, l’episodio è sintomatico. Esso aiuta a meglio intendere il massiccio anti-ciceronismo di tanti moderni [...].
A ulteriore riprova però del più generale fenomeno detto «eterogenesi dei fini», va qui rilevato che, almeno in parte, un freno alla demolizione di Cicerone fondata sul suo epistolario lo pose proprio il libro che maggiormente pareva proteso a tale demolizione: I segreti della corrispondenza di Cicerone di Jérôme Carcopino, pubblicato a Parigi subito dopo la guerra (1947). Un libro pieno di forzature e di troppo sistematici teoremi, ma che ebbe il merito di contribuire validamente a spiegare come mai proprio di Cicerone si fosse salvata non già solo quella parte di elaboratissime lettere che egli destinava ai posteri, ma anche l’amplissima silloge di lettere private, privatissime ed occasionali che tanto gli hanno postumamente nociuto. Carcopino intuì e documentò che la decisione di rendere pubbliche quelle centinaia di lettere era maturata nell’entourage augusteo (del quale faceva ormai parte anche Attico): appunto col fine di ridimensionare la figura dell’imbarazzante «martire», vittima delle proscrizioni triumvirali, macchia non facilmente estinguibile del princeps. Che l’operazione fosse consapevole e ben meditata non può sfuggire, se solo si considera la cura quasi maniacale di Augusto per la censura: dalla conservazione in archivio riservato delle lettere di Cesare al divieto di consentire la lettura delle opere poetiche giovanili di quel suo grande congiunto. Un accorto regista della censura quale fu Augusto sapeva quel che faceva se avallava (e forse promuoveva) la pubblicazione delle lettere del «martire» Cicerone. Quantunque definito, non a torto, da Piganiol, «un nemico di Cicerone», Carcopino [...] ottenne, con la sua torrenziale ricerca, un risultato durevole: quello di individuare il punto di partenza della storia testuale delle lettere ciceroniane, nonché la matrice politica dell’operazione. Operazione che mise in salvo, pubblicandolo, quel formidabile e inquietante archivio privato di un protagonista del declino della Repubblica.
La suggestione derivante dalla propria esperienza biografica aveva mobilitato, in questo caso più che in altri, la luciferina intelligenza di Carcopino. Ministro a Vichy, ma anche amico dell’Italia fascista ai tempi della sua lunga permanenza ufficiale a Roma, e però via via sempre più urtato dalla campagna mussoliniana antifrancese, in grave imbarazzo (fortunosamente superato) nel dopoguerra, in tempi di epurazione e di drastiche rese dei conti, Carcopino era particolarmente attratto dalla strutturale doppiezza della politica. Trascinare nel fango Cicerone grazie alle sue lettere—celebre la pagina dedicata all’«urlo» di entusiasmo per l’uccisione di Cesare racchiuso, forse, nel telegrafico biglietto indirizzato da Cicerone a Basilo (Familiari, VI,15) — era anche un modo di autoassolversi squadernando davanti ai moderni le doppiezze, le contraddizioni, le bassezze e le viltà di un «grande». Ma cosa sarebbe la storiografia dei moderni senza questo incoercibile corto circuito, analogico e catartico, con la materia presa ad oggetto della ricostruzione storica? Uomini come Cicerone, così trasparenti (per le ragioni dette prima!) da esporsi ogni volta all’esame spietato dei moderni interpreti (alla lor volta alle prese con la loro propria vicenda biografica) finiscono, anche per questo, con l’essere punti di riferimento ritornante e, in verità, inesauribile. In lui si vedono le contraddizioni — che sono di ogni epoca — del politico che è però anche portatore di un universo di pensieri ai quali si illude di poter restare ancorato pur tra i marosi della politica. In lui si vede, meglio che in altri, l’illusione di «guidare», mentre di fatto si è «guidati». (Sono i due «poli» della politica evocati da Tucidide nientemeno che a proposito di Pericle). In lui si coglie da vicino e quotidianamente il logoramento del politico sospinto verso il compromesso e insidiato dalla domanda costante: fino a che punto ci si può spingere sulla via del compromesso senza snaturarsi o addirittura rinnegarsi? In lui si vede anche lo scatto di ribellione — che talora ci prende — che si traduce poi nel ritiro in se stessi, nella scelta (in realtà coatta) di tornare a pensare e a scrivere perché la politica è diventata impraticabile. E per l’élite dirigente romana — per la quale la politica era tutto, vertice gratificante e totalizzante dell’agire umano — una tale rinuncia, un tale ritiro (per noi posteri così fecondo di risultati) era una rinuncia dolorosissima: sanabile solo con qualche sofisma autoconsolatorio [...].