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Globalismo e sinistra radicale

di Raffaele Ragni - 19/02/2009

Fonte: rinascitacampania

 
La globalizzazione, intesa come paradigma epocale, può essere esaltata o contestata da diversi punti di vista. L’approccio tipico dei critici radicali di sinistra consiste nel darle valore descrittivo, ma non autonomia concettuale. Il termine può rivelarsi efficace - essi dicono - per caratterizzare la dinamica espansiva del capitale in un certo momento storico, ma è privo di rigore scientifico.

 

 

Lo scenario in cui andrebbe a collocarsi una presunta fenomenologia della globalizzazione - in termini economici, sociali, culturali - rimane uno scenario da scontro imperialista tra sistemi nazionali (Stati Uniti, Giappone, Unione Europea, Israele, Paesi arabi) o al massimo macroregionali (occidente e mondo islamico, nord e sud).

Secondo la sinistra radicale, non è configurabile l’esistenza di un’economia mondiale realmente integrata perché la mobilità di beni e fattori produttivi non è totale. Solo i capitali sembrano muoversi liberamente tra i confini degli Stati. Viceversa, i flussi di merci e servizi sarebbero ostacolati dalla persistenza di barriere protezioniste, mentre la libertà di circolazione delle persone sarebbe limitata da politiche sempre più restrittive in materia di immigrazione. A dispetto del cosmopolitismo indotto dallo sviluppo delle comunicazioni, riemergono dovunque nel mondo il razzismo e l’integralismo religioso. Col pretesto della lotta al terrorismo e dell’ingerenza umanitaria, prospera l’industria bellica e si rafforzano gli apparati repressivi. Periodicamente viene intrapresa una nuova guerra imperialista per scongiurare la recessione. 

Un autorevole studio di Paul Hirst e Grahame Thompson (1996) sembra avvalorare questa tesi. Essi analizzano i principali indicatori utilizzati per quantificare il processo di globalizzazione, e cioè i flussi finanziari e commerciali, per dimostrare che la crescente internazionalizzazione di settori e processi non basta a dimostrare l’esistenza di un’economia mondiale realmente integrata. Ne emerge che gli attuali livelli di interdipendenza non sono senza precedenti. Anzi, per certi aspetti, le relazioni tra sistemi sono attualmente meno aperte di quanto lo siano state in passato. La circolazione di beni e fattori produttivi, dalla rivoluzione commerciale ad oggi, si è progressivamente estesa a territori sempre più vasti, ma ciò è avvenuto in modo ciclico e irregolare. Pertanto, ad una maggiore apertura riscontrabile in un certi periodi, segue sempre una restrizione dei flussi imputabile a ragioni di natura congiunturale. Sebbene negli ultimi anni sembrano prevalere le spinte liberiste, tale tendenza non è affatto irreversibile e, soprattutto, non è di intensità tale da giustificare la teorizzazione di un nuovo concetto di capitalismo. L’inconsistenza della globalizzazione come nuovo paradigma, inteso in una prospettiva sia apologetica che critica, viene avvalorata da molteplici esempi e da statistiche più o meno significative.

Se oltre ai capitali ed alle merci si considera il fattore lavoro, risulta che i flussi migratori, in rapporto alla popolazione mondiale, sono stati più intensi in epoche passate, escludendo naturalmente le deportazioni di schiavi, che avevano natura coatta. Pare che la migrazione di manodopera, secondo le stime riportate, sia stata quantitativamente maggiore tra il 1815 e la prima guerra mondiale che nel secolo successivo. Di certo mutata è la natura del fenomeno. In passato si migrava dal centro alla periferia del mondo capitalista, dove c’erano terre disponibili e le grandi città erano più vivibili. Dopo il 1945, i flussi hanno assunto direzione contraria. Oggi i poveri si dirigono dalla periferia al centro, dove i problemi sono tanti e la densità di popolazione è già elevata. L’intolleranza verso i nuovi arrivati è più forte e l’integrazione diventa più difficile. Paradossalmente, malgrado lo sviluppo dei trasporti, le opportunità di trasferire altrove la propria residenza, per gran parte della popolazione mondiale, erano maggiori in passato.

Hirst e Thompson concludono affermando che - in un sistema economico che non può essere definito globale, e che pertanto rimane internazionale - gli operatori conservano un legame essenziale col territorio di riferimento. Le famiglie, purché abbiano il reddito necessario, non possono realmente acquistare i prodotti migliori che offre il mercato mondiale, perché residui di protezionismo e disarmonie normative fungono da barriere all’entrata. Se un parente è emigrato, difficilmente possono raggiungerlo perché le leggi sull’immigrazione tendono a limitare il ricongiungimento. Gli Stati nazionali, attraverso l’attività di produzione normativa, disciplinano la vita degli individui e le attività delle imprese, costituiscono organizzazioni internazionali e ne attuano o meno le iniziative. Le imprese che delocalizzano la produzione attuano prevalentemente strategie multinazionali e, anche quando giungono a ridistribuire la catena del valore in Paesi diversi, conservano la mentalità da casamadre e commercializzano i prodotti finali prevalentemente nel mercato d’origine. Investimenti ed occupazione restano concentrati nei Paesi industrialmente avanzati.

Altri autori sottolineano la minore consistenza dei flussi migratori rispetto al passato, la persistente supremazia dei governi nazionali nell’allocazione delle risorse, il ruolo del negoziato multilaterale tra i governi per risolvere i conflitti d’interesse tra i Paesi economicamente più forti, la rilevanza competitiva dei sistemi nazionali d’innovazione produttiva e la concentrazione macroregionale delle vendite. La globalizzazione è dunque un mito - inventato con la fine del sistema di Bretton Woods e quanto mai necessario dopo il crollo dei regimi socialisti - per alimentare negli individui un senso di impotenza, e quindi di assuefazione, alle forze incontrollabili che dominano l’economia di mercato.

Gli interessi del capitale finanziario sono ancora garantiti da un sistema di Stati nazionali aggregati in blocchi geoeconomici. In tale contesto, il mito della globalizzazione viene offerto come riedizione del wilsonismo - il programma riformista lanciato dal presidente americano Wilson dopo la prima guerra mondiale - e del superimperialismo - l’astrazione sostenuta del socialdemocratico Klaus Kautsky. Entrambe le teorie, già a suo tempo sconfessate da Lenin, esprimono l’illusione che l’internazionalizzazione del capitale, superata la fase dello scontro imperialista, garantirebbe pace e benessere per tutti.

La globalizzazione è quindi un capitolo nuovo della grande narrazione borghese circa la natura pacifica, armoniosa, spontanea del sistema capitalista. Serve a legittimare, con argomentazioni nuove, una logica espansiva da sempre finalizzata a scongiurare la caduta tendenziale del tasso di profitto. Questa caratteristica del capitalismo - sua fase estrema secondo Lenin, o sua costante secondo Rosa Luxemburg - è spiegata scientificamente dal concetto di imperialismo, anche se può rivelarsi politicamente utile utilizzare altre parole - tra cui globalizzazione, neocolonialismo, triadizzazione - per descrivere la sua dinamica epocale. Tuttavia è la nozione di imperialismo l’unica ad avere valore scientifico. Ne rappresenta la verità della globalizzazione. Ne svela l’origine, ne spiega la dinamica.

L’importante, secondo i marxisti-leninisti, è interpretare i processi in atto coerentemente all’ortodossia. A suo tempo Lenin scriveva che il capitalismo andava evolvendosi verso la creazione di un unico trust mondiale che avrebbe assorbito Stati ed imprese ma, prima che potesse concretizzarsi questo scenario ultraimperialista, sarebbero emerse le contraddizioni dello sviluppo imperialista ed il capitalismo si sarebbe trasformato nel suo opposto. Nell’ottica contemporanea si potrebbe affermare, avvalorando l’ipotesi di Lenin, che il processo di globalizzazione, ancor prima di condurre all’istituzione di un governo mondiale che esprima gli interessi delle grandi holding, porterà alla nascita del comunismo.  

Malgrado i suoi contenuti sovversivi, l’analisi dei critici radicali di sinistra incontra due limiti principali. Il primo inificia la solidità delle conclusioni. Il tentativo di smitizzare la globalizzazione appare debole, non tanto perché essa rappresenti un fenomeno inconfutabile ed inarrestabile, quanto per la pretesa di dare un fondamento scientifico alla sua negazione. Ad esempio, quando Hirst e Thompson cercano di fornire dati statistici a sostegno della tesi secondo cui la crescente internazionalizzazione di settori e processi non ha ancora portato ad un’economia realmente globale, lo sforzo è lodevole ma il risultato è davvero effimero. Sia perché altre statistiche potrebbero evidenziare il contrario, sia perché quanto viene provato con riferimento ad un certo lasso di tempo può non trovare conferma per i periodi successivi. In tal caso non si potrebbe fare a meno di confermare che la globalizzazione abbia fatto progressi, anche seguendo un andamento ciclico, ma pur sempre nella direzione di una sempre maggiore interdipendenza tra le economie.

Il secondo limite riguarda la limpidezza dei contenuti e desta forti interrogativi circa la collocazione politica dei critici radicali di sinistra rispetto all’oligarchia mondialista. Quando si comincia ad affermare che il grado di armonizzazione legislativa è ancora irrilevante, che la liberalizzazione dei flussi commerciali incontra ancora molti ostacoli, che gli Stati nazionali conservano ancora molte delle loro prerogative sovrane, che i flussi migratori sono ancora esigui - anche se tutto ciò viene detto nell’ambito di una critica radicale al paradigma dominante - si finisce col rafforzare, con tanto di statistiche, le istanze mondialiste più estreme. Il che equivale a affermare che, se finora non si è globalizzato abbastanza, allora bisogna accelerare il processo. Quindi - si dirà - eliminiamo le ultime barriere protezioniste alla libera circolazione di merci e capitali, favoriamo le migrazioni e lo sradicamento culturale per consolidare la società multirazziale, trasferiamo gli ultimi residui di sovranità statale alle istituzioni internazionali oppure a nuovi organismi sovranazionali più efficaci di quelli esistenti. Tali istanze verrebbero sostenute proprio come soluzioni ai problemi evidenziati dal pensiero critico.

Ciò spiega il percorso ideologico attraverso cui molti marxisti si convertano in critici moderati e vengano cooptati dalla burocrazia internazionale andando ad ingrossare le fila dei mondialisti buoni. Nel loro nuovo posizionamento strategico, assunto con la speranza iniziale di poter condizionare dall’interno il meccanismo di produzione di significati socialmente rilevanti, coloro che negavano perfino una legittimità ideologica al globalismo finiscono col diventare i sostenitori di una vera globalizzazione - quella dei diritti, apparentemente diversa da quella dei profitti - e giungono a propugnare un governo mondiale che legiferi nell’interesse dei poveri, che imponga tasse ai governi nazionali ed alle imprese devolvendone il gettito ad iniziative umanitarie, che attui politiche keynesiane a sostegno della domanda e dell’occupazione nelle aree più depresse del mercato mondiale. Istanze che, tutto sommato, piacciono all’oligarchia, ed anche ai padri comboniani.