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Come provare a censurare la rete con la scusa dell'allarme sicurezza

di Cristina Petrucci - 23/02/2009



Era il 27 giugno del 1998 quando la Polizia Postale di Bologna, su ordine del Pubblico Ministero della Procura di Vicenza, Paolo Pecori, si presenta nel locali dall'Internet Service Provider che ospita i computer dell'associazione Isola nella rete. Si trattò di un sequestro preventivo ipotizzante il reato di diffamazione continuata ai danni di un'agenzia di viaggi. Motivo del sequestro sarebbe stata la pubblicazione sul web di un messaggio, fedele trascrizione di un volantino stampato su carta e normalmente distribuito in pubblico. Tuttavia l'ordine non viene convalidato dal Giudice per le Indagini Preliminari (GIP) e il server viene restituito all'associazione la mattina del 2 luglio. Ma c'è un problema. Durante il sequestro il computer rimane diversi giorni nei locali della polizia. Sul disco fisso sono memorizzati dati e mail che riguardano centinaia di persone e collettivi. Dati, formalmente tutelati dalla legge sulla privacy, che potrebbero invece essere stati letti e copiati da estranei. Nessuno lo saprà mai. Gli anni passano e il 21 giugno del 2005 il collettivo Autistici/Inventati si accorge che da più di un anno i computer che teneva alla webfarm di Aruba SPA sono controllati dalla Polizia. Il motivo? Un'indagine su una singola casella di posta. Il controllo anche qui è a tappeto su centinaia di migliaia di mail. Da allora sono passati quattro anni e il collettivo di Autistici/Inventati ha provato in tutte le maniere ad inserire nei contratti con i fornitori di rete delle clausole che potessero proteggere gli utenti e garantire l'accesso ai server almeno in presenza dei proprietari. Ma da allora nessun risultato è stati raggiunto tanto che i server vengono spostati all'estero.

Ma veniamo ad oggi, anzi al 5 febbraio scorso, quando il Governo Italiano all'interno del controverso Pacchetto Sicurezza fa passare l'articolo 50bis in cui si legge: «Quando si procede per delitti di istigazione a delinquere o a disobbedire alle leggi, ovvero per delitti di apologia di reato, previsti dal codice penale o da altre disposizioni penali, e sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che alcuno compia detta attività di apologia o di istigazione in via telematica sulla rete internet, il ministro dell'Interno, in seguito a comunicazione dell'autorità giudiziaria, può disporre con proprio decreto l'interruzione della attività indicata, ordinando ai fornitori di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine». In poche parole da oggi in poi sarà direttamente il Ministro Maroni a decidere se i contenuti web sono idonei o no alla pubblicazione, senza passare più per un provvedimento giudiziario.
La misura è stata inserita all'ultimo momento grazie ad un emendamento del senatore Gianpiero D'Alia (UDC) che, prendendo ispirazione dalle recentissime polemiche sui gruppi di Facebook a favore di Riina, dichiara al giornalista Alessandro Gilioni: «Facebook e Youtube? O obbediscono o li oscuro». Debbie Frost, portavoce di Facebook, sulla televisione Bloomberg paragona quanto previsto nel disegno legge «alla chiusura di un'intera stazione ferroviaria a causa della pubblicazione di graffiti offensivi sulle mura della struttura».

Puntuali le condanne anche degli addetti al settore, quali PuntoInformatico , Apogeonline , ZeusNews e di blogger, in particolare graffio.noblogs , che intitola un articolo sull'argomento, "La Cina è vicina!". Ebbene si, d'ora in poi le libertà degli utenti verranno particolarmente compromesse e i contenuti vagliati dallo stesso ministro Maroni o più verosimilmente da una commissione che dovrà fra poco essere istituita. «Ci sono i presupposti perché il ministro agisca in modo discrezionale» spiega l'avvocato Daniele Minotti, contattato da Punto Informatico . I provider avranno 24 ore per isolare dalla rete la pagina indicata dal decreto del Ministro: in caso contrario le sanzioni oscilleranno dai 50mila ai 250mila euro e addirittura potranno rischiare il concorso di reato punito da uno a cinque anni. Va ricordato poi che è quantomeno impossibile isolare una singola pagina, il rischio è l'oscuramente dell'intero blog o dell'intero progetto.
Ad urlare alla censura è soprattutto il rappresentante di Google Italia/Youtube Marco Pancini che interpellato da Vittorio Zambardino dichiara: «Se chiedessero a noi di togliere una certa pagina, noi lo faremmo subito, come facciamo con ogni contenuto segnalato come criminoso dall'autorità. Invece con questo emendamento lo chiederanno ai provider, ai fornitori di accesso cioè alle aziende telefoniche. Si crea una nuova filiera, si parla di controlli preventivi, qualcosa che da noi non è mai esistito». I contenziosi che Youtube ha aperti sono noti a tutti gli organi di stampa. Sono 500 i milioni che, per esempio Mediaset ha chiesto allo sharing dei video più famoso del mondo per «illecita diffusione e sfruttamento commerciale di file audio-video di proprietà delle società del Gruppo». Dall'inizio dell'anno ad oggi sia Mediaset che la Rai stanno lanciando i nuovi portali della web tv, un altro possibile introito di pubblicità che potrebbe però essere rovinata proprio da siti come Youtube o Google Video che della condivisione libera e gratuita delle immagini e soprattutto dei contenuti hanno fatto la loro forza economica e commerciale. Ecco che allora pochi giorni fa il disegno di legge 2195, presentato dalla Carlucci, la benemerita soubrette, volto ad istituire un Comitato per assicurare la tutela della legalità in internet in particolare contro l'anonimato e con l'applicazione al web del diritto di copyright e per quanto riguarda i reati di diffamazione all'applicazione, senza alcuna eccezione, di tutte le norme relative alla Stampa. Occhio d'ora in poi a quelle che penserete e trascriverete sui vostri blog.
Ma cosa succede su questo tema in Europa?

Il 22 gennaio scorso la polizia inglese sequestra per la secondo volta nella sua storia il server di Indymedia UK. Il motivo? Tra i commenti qualcuno ha inserito anche i dati personali (tra cui l'indirizzo) di Neil Butterfield, il giudice che ha presieduto il processo nei confronti di attivisti animalisti. Così la polizia sequestra il server di Indymedia avanzando due richieste: che i dati personali del giudice venissero rimossi e che fossero consegnante le informazioni sull'autore del commento. Indymedia, coerentemente con la propria policy sulla privacy, rimuove le informazioni sul giudice Butterfield ma non può consegnare i dati relativi all'autore del commento (come l'indirizzo Ip) semplicemente perché non li registra, garantendo così l'anonimato agli utenti ma contravvenendo in teoria alla direttiva dell'Unione Europea circa la conservazione dei dati, emanata nel 2006, che obbliga i siti a registrare ogni visitatore e a tenerli per ben 12 mesi. La direttiva europea sulla Data Retention, in realtà in Inghilterrà così come in Italia, entrerà in vigore solo il 15 marzo prossimo ma la polizia, anzichè restituire il server dovrebbe sarà restituito subito e con tante scuse, lunedi scorso arresta un uomo a Sheffield. Irrompe nella sua casa, sequestrando tutte le attrezzature informatiche e i documenti correlati. Verrà liberato solo dopo otto ore. La persona non aveva implicazioni né tecniche, né amministrative, né editoriali con il sito Indymedia UK. Ma forniva loro solo l'hosting, cioè alloca sul proprio server web le pagine di Indymedia UK.