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Il gretto spirito di casta dei professori universitari ha acceso il rogo di Giovanna d’Arco

di Francesco Lamendola - 02/03/2009


 

Strano destino, quello di chi giunge alla notorietà grazie a un clamoroso insuccesso: la sua fama negativa diviene un fatto stabile e definitivo; mentre le cose positive che egli può aver condotto a termine, nel corso della sua vita, passano completamente nel dimenticatoio, quando non assumono, addirittura, una sgradevole luce d'irrisione. E, senza andare troppo a scomodare Pirandello e la sua teoria delle «maschere» che imprigionano il vero io di ciascun essere umano, resta il fatto che la celebrità negativa getta un'ombra incancellabile non solo su colui che l'ha acquisita, ma anche sulla memoria che egli lascia di sé alle generazioni successive.
Tale è stato il caso di Sebastiano Visconti Prasca, poliedrico e controverso personaggio della vita culturale e politica italiana della prima metà del Novecento, rampollo di una famiglia estremamente illustre, e brillante militare di carriera che coltivava - un po' come il «vizio» di Italo Svevo - una segreta, ma autentica passione letteraria.
Nato nel 1883 e morto nel 1961, il suo nome è rimasto indissolubilmente legato all'esito disastroso dell'invasione della Grecia dell'ottobre 1940, voluta da Mussolini per ragioni puramente politiche; la quale, frettolosamente preparata e mal condotta, per giunta nel colmo delle precipitazioni autunnali su di un difficile terreno montuoso, si concluse con una drammatica ritirata fin dentro l'Albania e con una durissima campagna invernale che si sarebbe conclusa solo nell'aprile successivo, in conseguenza dell'invasione tedesca della Jugoslavia e dell'aggiramento, sempre da parte della Wehrmacht, della indifendibile frontiera macedone verso la Bulgaria, con la conseguente invasione e capitolazione della Grecia stessa. E quella campagna, pur concludendosi con la totale occupazione dei Balcani da parte dell'Asse, segnò la fine della «guerra parallela» italiana rispetto alla Germania e, sommandosi con gli insuccessi in Africa, distrusse le speranze del regime fascista di conservare margini di autonomia nei confronti dello strapotente alleato germanico.
Ironia della sorte, non solo il Visconti Prasca era a capo dell'XI Armata italiana che condusse quella infelicissima operazione (prima di essere sostituito, per volere di Mussolini, dal generale Umberto Soddu), ma aveva anche calorosamente rassicurato il Duce circa la bontà del suo piano di attacco alla Grecia, fino a pochi giorni prima che esso venisse lanciato, il 28 ottobre del 1940. Non solo: un ulteriore elemento di ironia consiste nel fatto che sei anni prima, nel 1934, Visconti Prasca aveva pubblicato un libro di strategia militare intitolato «Guerra decisiva», nel quale aveva teorizzato la necessità di realizzare una guerra-lampo sul tipo di quella che poi, nel 1939-40, l'esercito tedesco avrebbe realizzato nelle campagne di Polonia, Norvegia e Francia.
Fin qui, la fama negativa del Visconti Prasca; né si può dire che la pubblicazione da parte sua, nel dopoguerra, di una sorta di memoriale difensivo, dal titolo «Ho attaccato la Grecia», penosamente goffo nel tentativo di minimizzare le proprie responsabilità nel disastro della campagna greco-albanese, sia valso a modificarla o a diminuirla, suonando  - anzi - come un pervicace sforzo di sottrarsi a una doverosa autocritica.
Non che il Visconti Prasca sia stato l'unico a giungere a quella forma assai sgradita di notorietà che consiste nel fallimento, o che essa si limiti a pochissimi casi.
Solo restando nell'ambito delle forze armate italiane, si potrebbe citare il caso del generale della Regia aeronautica Umberto Nobile e del disastro del dirigibile «Italia» (1928), con tutta la lunga scia di velenose polemiche relative al fatto che egli si mise in salvo, per primo, a bordo di un velivolo svedese, lasciando sui ghiacci del Polo Nord i suoi uomini nella «tenda rossa», in una situazione estremamente difficile (ne abbiamo già parlato nell'articolo «Un film al giorno: « La tenda rossa » di Michail Konstantinovic Kalatozov (1969), consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Tuttavia, nel caso di Nobile - come in altri casi analoghi - l'insuccesso materiale non implica automaticamente un giudizio negativo e senza appello sull'intera opera e sulla stessa personalità del protagonista; mentre questo sembra essere accaduto nel caso di Sebastiano Visconti Prasca; complice anche, forse - perché non dirlo? - una guerra perduta e una ventennale dittatura caduta nel modo più inglorioso, dopo che la nazione le aveva tributato un consenso massiccio e, in apparenza, convinto.
Meglio dimenticare in fretta, dunque, tutto ciò che aveva avuto a che fare con quella duplice esperienza fallimentare, il fascismo e la guerra; e, scaricando sulle spalle di singole personalità, come quella del Visconti Prasca, tutta la responsabilità di quanto, allora, era andato in modo assai peggiore del previsto, assolvere automaticamente, per converso, il popolo italiano dalle sue pur gravi ed evidenti responsabilità complessive.
Insomma, una grandiosa opera di rimozione collettiva, addossando su pochi capri espiatori il peso di ogni iniquità e di ogni errore che avevano, di fatto, provocato la fine del sogno italiano di grande potenza e l'inizio di una più modesta esistenza da potenza di serie "B", all'ombra del «rock and roll», della N. A. T. O., della mafia, della Massoneria e del cinquantennio democristiano.

E tuttavia, Sebastiano Visconti Prasca non è stato solo l'uomo che, dopo aver teorizzato la guerra-lampo italiana e dopo aver persuaso Mussolini che in pochi giorni avrebbe «spezzato le reni alla Grecia», ha provocato una cocente sconfitta del nostro esercito e arrecato al fascismo stesso un terribile danno d'immagine a livello mondiale; è stato anche un brillante saggista, sia dentro che fuori il ristretto ambito diplomatico-militare.
Addetto militare a Belgrado dal 1924 al 1930, nel 1938 aveva pubblicato, con la casa Editrice Fratelli Treves di Milano, il libro «La Jugoslavia e gli Jugoslavi», non privo di interesse per la conoscenza del nostro vicino orientale, col quale i rapporti politici erano, in quell'epoca, così tesi e difficili (con la sola eccezione del governo Stojadinovic), fin dal momento della nascita, nel primo dopoguerra, del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.
Tuttavia, l'opera sulla quale vogliamo fermare qui la nostra attenzione non ha a che fare, se non indirettamente, con la storia politica e militare. Si tratta di una biografia dedicata a «Giovanna d'Arco», edita a Milano nel 1937, sempre per i tipi dei Fratelli Treves: opera pregevole, schietta, ben scritta e  di piacevole lettura, quantunque non priva di puntate anglofobe le quali, peraltro, visto l'argomento e visto il periodo di pubblicazione, erano quasi inevitabili.
Un aspetto notevole di questa biografia - che, per ragioni a nostro parere misteriose, non è più stata ristampata, mentre crediamo che lo meriterebbe - è l'acutezza con cui l'Autore ha saputo individuare le radici del meccanismo perverso del processo e della condanna di Giovanna d'Arco non tanto, come tradizionalmente si fa, nel fanatismo dell'Inquisizione e neppure nelle pur evidenti e innegabili implicazioni politiche di esso.
L'originalità dell'interpretazione di Visconti Prasca sta, dunque, nell'aver identificato nell'ambiente universitario di Parigi, e più in particolare nella rinomata e universalmente celebrata Facoltà di Teologia, il cuore di quel perverso meccanismo, che aveva giurato sin dall'inizio di condurre il processo alla condanna capitale della giovane contadina francese, simbolo del riscatto nazionale contro gli Inglesi invasori ed i loro partigiani Borgognoni. Più ancora, nell'aver individuato nella psicologia professorale - astiosa, presuntuosa, libresca, pedante e formalistica - il nemico giurato delle azioni e delle parole della giovinetta che si diceva ispirata da Dio per liberare la sua Patria dagli stranieri, ma che i suoi giudici sostenevano, invece, essere ispirata direttamente dal Diavolo, in quanto ella sarebbe stata una strega fin da prima di mettersi alla testa della riscossa militare del Delfino.

Ha scritto Sebastiano Visconti Prasca nella sua biografia «Giovanna d’Arco» (Milano, Fratelli Treves Editori,  1937, pp. 168-73):

«Il re d’Inghilterra, o in buona fede o per abilità politica,  aveva presentato alla Cristianità la sua azione di oltremare come una specie di crociata in cui egli era incaricato dal Cielo di punire i peccati della Francia e di abbattere il Delfino, personificazioni di quegli “enormi” delitti. Enrico V d’Inghilterra aveva detto che la disfatta di Azincourt era stata una punizione per le “voluttà, i peccati e i mali vizi dei Francesi” e lo stesso tema aveva sviluppato in prigionia Carlo d’Orléans nel suo “compianto di Francia”. Giovanna, sullo stesso argomento, disse ai suoi giudici che Dio lasciò battere i Francesi per i loro peccati. Però aggiunse: “… se ne avevano”. Lo stato di disgrazia celeste dei Francesi era cessato con le vittorie di Giovanna. In un’epoca in cui il giudizio di Dio era ancora in uso, appariva agli occhi dei popoli che se la vittoria aleggiante per tanto tempo sugli stendardi inglesi aveva cambiato campo, anche la grazia divina era passata dalla parte del Delfino. Ma secondo gli Inglesi e i loro partigiani, poiché Dio doveva difendere il re legittimo, quello di Francia e d’Inghilterra, le vittorie di Giovanna erano evidentemente dovute ad arti diaboliche, a stregoneria e l’onta ne ricadeva sul Delfino.
Ecco il nocciolo della questione sorta nelle menti inglesi e anglofile fin dall’inizio della missione di Giovanna d’Arco e ribadita nei documenti ufficiali nel corso della Missione. Per quella tesi Giovanna non fu considerata come prigioniera di guerra riscattabile mediante compenso e fu portata dinanzi ad un tribunale ecclesiastico la cui azione servì da velo al carattere politico del processo.  L’Università di Parigi era allora borgognona e anglofila. I suoi membri professanti idee contrarie se ne erano allontanati e vivevano in provincia o alla Corte del Delfino e tra essi erano parecchi di quelli che avevano esaminato Giovanna a Poitiers.
L’Università era anglo-borgognona per convinzione, per quieto vivere a anche per opportunismo dato che a Parigi gli Anglo-Borgognoni dominavano e da loro dipendeva il conferimento delle dignità e l’assegnazione delle prebende. La psicologia dell’Università era, sotto certi aspetti, europea e internazionalista perché vi appartenevano numerosi stranieri. La comune lingua latina e la comune dottrina ne facevano un ambiente alquanto estraneo al sentimento nazionale non ancora ben definito. L’Università fu la grande ispiratrice del processo. Ne derivò che un ambiente dallo spirito internazionale come dottrina e anglofilo come interesse, giudicò una causa nazionale e, perciò, con evidente sentimenti aprioristici di incomprensione e animadversione. L’Università di Parigi, federazione delle Facoltà di Teologia, Diritto, Medicina e Arti, era cresciuta d’importanza e d’orgoglio durante il grande scisma, specialmente la Facoltà di Teologia che si attribuiva il potere di giudicare se una dottrina religiosa fosse vera o falsa. Il suo potere, spesso in contrasto coi re di Francia, era andato sempre aumentando. Nella lotta tra Francia e Borgogna aveva preso le parti di Jean Petit, il teologo apologista dell’assassinio del duca d’Orléans, e aveva aderito al Trattato di Troyes delegandovi il vescovo Pierre Cauchon. Ad ogni vittoria inglese l’Università faceva offerte di riconoscenza al tempio e quando, nel dicembre 1431, il giovane Re d’Inghilterra fece il suo ingresso in Parigi, il teologo Nicolas Midi, che fu uno dei giudici di Giovanna d’Arco, venne incaricato di dargli il benvenuto in nome dell’Università.
Nicolas Midi salutò e incensò Enrico VI fanciullo quale “padre, patrono, tutore e rifugio particolare dell’Università sua figlia primogenita, orfana, o piuttosto vedova, durante l’assenza del Re, poiché essa non aveva più il suo protettore per guidarla.”
Pietro Cauchon, vescovo profugo di Bauvais, fu incaricato di comporre il tribunale e di istruire il processo. La direzione e l’organizzazione del processo gli appartenevano per competenza poiché Compiégne, ove era stata catturata Giovanna, dipendeva dalla giurisdizione vescovile di Beauvais da cui la marcia vittoriosa di Giovanna l’aveva allontanata. Possedeva tutti i rancori partigiani, universitari e personali,  per odiare Giovanna d’Arco e forse anche fondate e sincere convinzioni sulla legittima sovranità del Re d’Inghilterra in Francia. Era profondamente interessato  ad inscenare un “bel processo”, “un processo insigne” che aumenterebbe la sua fama di teologo, di giurista e le sue benemerenze verso gi Inglesi. L’Inquisizione non si mise molto in evidenza e non comparve se non reiteratamente richiesta. L’Inquisitore non intervenne e fu rappresentato da un sostenitore che rimase in ombra e fece difficoltà per intervenire al processo. Il vescovo Cauchon ebbe la parte predominante, poté far brillare la sua grande intelligenza, la sua cultura, la sua astuzia e le sue arti diplomatiche già provate e affinate in difficili missioni. (…)
Pietro Cauchon chiamò come suoi collaboratori e nominò membri del Tribunale alcuni dottori dell’Università scelti tra i più fanatici. L'Università di Parigi aveva dato in quei giorni una misura del suo zelo e della sua parzialità intervenendo nei processi di due donne:  la prima, avendo dichiarato nel corso del processo che la Pulzella era stata ispirata dal diavolo ("per angelum Satanae seductam", fu assolta e messa in libertà; la seconda sostenne invece che Giovanna era buona e aveva agito secondo Dio ("selon Dieu", fu condannata e bruciata. L'Università incalzava perché il giudizio di Giovanna si svolgesse con celerità  lagnandosi e accusando lo stesso Cauchon di lentezza procedurale: "Noi siamo stupiti - gli scriveva il Rettore dell'Università -  che una così lunga attesa intervenga  nella causa di quella donna, che viene volgarmente chiamata la Pulzella, dato che essa è nelle mani del nostro Re… E se aveste spiegato una diligenza più attiva nello svolgimento dell'affare, la causa di quella donna sarebbe già stata portata in tribunale."  Analoghe premure venivano rivolte dall'Università ad Enrico Vi, re di Francia e d'Inghilterra. L'Università avrebbe voluto che il processo si svolgesse a Parigi, poiché ivi, scriveva il Rettore, "si trovano riuniti i dottori più saggi, più eruditi e più numerosi". Gli Inglesi giudicarono, a ragione, che Parigi era infida, poiché v'erano ancora, troppo numerosi, i partigiani del Delfino e che la capitale era minacciata da u colpo di mano. Perciò ritennero che Rouen offrisse migliori garanzie di sicurezza. L'Università intervenne ugualmente in modo diretto nel processo, oltre che con i suoi membri giudici, anche come organo consulente. Alla formazione del tribunale, Pierre Cauchon fece partecipare i canonici del capitolo di Rouen, ente che aveva alcune caratteristiche politiche. Dopo la caduta della città in mano degli Inglesi, il Capitolo era stato ricostituito con alcuni elementi devoti ala causa del vincitore. Basti ricordare che vi sedeva il duca di Bedford,  reggente di Francia, zio del Re. Egli vi interveniva spesso e quando morì (1435)  volle essere seppellito nella Cattedrale di Rouen sotto una epigrafe semplice ed orgogliosa" Johannes dux Betfordi Normandiae prorex".
Pietro Cauchon chiamò a far parte del tribunale vari vescovi e alcuni alti prelati, tra i quali Robert Jolivet, già abate del Mont Saint Michel, colui che aveva voluto consegnare agli Inglesi la inespugnabile fortezza. Per questo suo divisato tradimento 'abate aveva provocato la rivolta  dei monaci fedeli al Re di Francia che lo avevano cacciato. La massima parte dei giudici e consultori che fecero parte, continuamente o saltuariamente, del tribunale erano stati professori o studenti dell'Università di Parigi.»

Vale qui la pena di ricapitolare brevemente la folgorante vicenda della «pulzella d'Orléans» (beatificata nel 1909 e canonizzata nel 1920), per meglio comprendere il contesto storico-culturale in cui ebbe luogo il processo a suo carico.
Nel 1337 era incominciata, di fatto, la Guerra dei Cento Anni, resa «ufficiale» dalla rivendicazione di Edoardo III (sino ad allora vassallo della monarchia francese), a Gand, nel 1340, del titolo di «re di Francia e d'Inghilterra» (che i suoi successori avrebbero conservato, anacronisticamente, fino al 1803). La guerra si può dividere in due fasi: nella prima (1337-1420) era prevalso l'aspetto feudale e dinastico; nella seconda (1420-53) essa si era caratterizzata sempre più come guerra nazionale del popolo francese per la liberazione dal dominio inglese.
Giovanna d'Arco era apparsa nel momento più buio per le sorti dell'indipendenza francese, quando il Delfino Carlo, derisoriamente chiamato dai nemici «il re di Bruges», si era trovato a controllare ormai solo una parte delle regioni a mezzogiorno della Loira, mentre il duca di Bedford aveva intrapreso una campagna volta a metterlo definitivamente fuori gioco, ponendo l'assedio alla città-chiave di Orléans, nel 1428.
Nata il 6 gennaio del 1412 nel villaggio di Domrémy, nei Vosgi, da una famiglia di modesti contadini, e poi guidata da arcane voci che la spingevano a farsi strumento della salvezza della Francia, il 6 marzo 1429 - ella non aveva che diciassette anni, portava i capelli tagliati corti e indossava abiti maschili - si era presentata, a Chinon, allo sfiduciato ed esitante Delfino Carlo: il quale ne era rimasto colpito e l'aveva fatta a lungo esaminare da dottori e prelati. Ottenuto il permesso di mettersi a capo delle truppe regie, Giovanna aveva marciato su Orléans - che, assediata da otto mesi, era giunta allo stremo - e aveva costretto gli Inglesi a ritirarsi, l'8 maggio, con una prontezza che era parsa inspiegabile, se non miracolosa.
Il 18 giugno ella aveva riportato una nuova, decisiva vittoria a Patay; e il 17 luglio, per suo impulso, il Delfino si era recato a Reims e vi era stato solennemente unto e incoronato re di Francia, col nome di Carlo VII. Ha commentato lapidariamente lo storico Georges Duby: «Prima tutto sembrava perduto, ormai tutto sembrava possibile».
Questi avvenimenti erano stati così improvvisi e sorprendenti, per entrambe le parti in lotta, da lasciare letteralmente sbalorditi; e subito si era pensato che Giovanna - come, del resto, lei stessa affermava sin dall'inizio - agisse sotto l'influsso di potenze ultraterrene. Potenze angeliche, forse divine, secondo i Francesi; potenze diaboliche, al contrario, secondo gli Inglesi ed i loro sostenitori del partito borgognone.
Fu a quel punto, quando la presa di Parigi sembrava a portata di mano e, con essa, la svolta decisiva della guerra, che Carlo VII, inspiegabilmente, interruppe l'offensiva, congedò l'esercito e aprì segrete trattative di pace con gli Inglesi, all'insaputa di Giovanna. Temeva forse di apparire sempre più come un semplice strumento nelle mani della prodigiosa pastorella diciassettenne, con grave scapito del prestigio della sua regalità? Sia come sia, Giovanna dovette mordere il freno per tutto l'inverno, tormentata dai postumi di una ferita alla coscia riportata in battaglia; finché, esasperata da quella inspiegabile inerzia dell'esercito regio, con pochi seguaci aveva cercato dapprima di avanzare su Parigi; respinta, aveva tentato di portare soccorso a Compiégne assediata. Catturata dai Borgognoni il 24 maggio 1430, a novembre era stata venduta agli Inglesi, dietro pagamento della somma di 10.000 scudi.
Gli Inglesi l'avevano condotta nella loro tana più sicura, il castello di Rouen, dove il vescovo e conte di Beauvais, Pierre Cauchon - competente per territorio - aveva istruito contro di lei il processo per eresia e per la pratica degli incantesimi, mediante i quali avrebbe stregato il Delfino (che il collegio giudicante, fedele agli Inglesi, non riconosceva quale legittimo re di Francia). Giovanna, pertanto, era stata giudicata da un tribunale ecclesiastico e per un reato di tipo religioso, almeno formalmente; ma, di fatto, a nessuno sfuggiva che la sostanza del processo era politica, poiché esso si svolgeva sotto la giurisdizione inglese, nel corso di una guerra secolare tra le due nazioni, e che la sua condanna era fortemente voluta dagli Inglesi.
I professori dell'Università di Parigi si prestarono pienamente al gioco inglese, parte per interesse - come ha fatto notare il Visconti Prasca -, dato che erano in ballo le loro cattedre ed i loro emolumenti; parte per vanità e orgoglio di casta, essendo essi abituati a considerarsi l'ultima e infallibile parola in fatto di verità umane e divine. E la Facoltà di Teologia, cuore e vanto della Sorbona, non poteva non sentirsi lusingata dalla evidente considerazione in cui il giudice Cauchon mostrava di tenerne i responsi, nel tempo stesso in cui il recente scampato «pericolo» della caduta della capitale in mano a Giovanna, aveva rinfocolato tutto il loro livore partigiano, la loro paura e il loro implacabile spirito di vendetta.
L'Inquisizione ebbe, in questo processo - contrariamente a quel che si sarebbe portati a credere, e a quello che ancor oggi molti pensano - un ruolo del tutto marginale e, tutto sommato, ininfluente: fu, in tutto e per tutto, il processo dell'Università di Parigi. Si trattava di stabilire se le «voci» udite da Giovanna fossero di provenienza divina o diabolica: e, date le evidenti implicazioni politiche della risposta a un tale interrogativo, la corte non dubitò mai, neppure per un momento, che fosse vera la seconda ipotesi. Diversamente, essa avrebbe dovuto ammettere che Dio stava dalla parte di Carlo VII e non da quella del duca di Bedford e del suo sovrano Enrico VI, «re di Francia e d'Inghilterra», sotto l'egida del quale si svolgeva il processo medesimo.
I professori di Parigi, gonfi di orgoglio non solo per la loro posizione sociale, ma anche perché, in quanto teologi universalmente stimati e rispettati, erano convinti di possedere in tasca le chiavi del Cielo e dell'Inferno, giocarono un ruolo decisivo, sia come giurati e che come consulenti, nel dibattimento e nella condanna finale.
Non solo: prima ancora che di convincere Giovanna di eresia, essi si posero l'obiettivo - che perseguirono lucidamente per tutto il dibattimento -, di screditarla, di disonorarla, di distruggerla moralmente. Solo così avrebbero potuto scalzarne la popolarità e predisporre l'opinione pubblica ad accettare la sua condanna.
Può essere che alcuni di loro fossero, in certo qual modo, in buona fede; ma bisogna intendersi bene sul significato di quest'ultima espressione. Anche le SS naziste erano «in buona fede» quando, conquistato un villaggio russo, passavano per le armi vecchi, donne e bambini, durante la seconda guerra mondiale; o quando deportavano ad Auschwitz, Maidanek e Buchenwald le vittime destinate alla «soluzione finale».
Ecco perché le argomentazioni con cui Georges Duby ha cercato di ridimensionare le responsabilità del Cachon e dei teologi della Sorbona ci sembrano viziate all'origine da un grave equivoco; perché, se è verissimo che la storia non è, né deve trasformarsi, in una sorta di processo al passato, essa non deve però, neppure, preoccuparsi di giustificare ed assolvere gli eventuali «imputati» (così come, e per la stessa ragione, non deve porsi aprioristicamente l'obiettivo di condannarli).
Nel suo libro «Il Medioevo. Da Ugo Capeto a Giovanna d'Arco» (titolo originale: «Le Moyen Âge. De Hughues Capet à Jeanned'Arc, 987-1460», Paris, Hachette, 1987; traduzione italiana di Giorgia Viano Marogna, Roma, Laterza, 1993, p. 427), egli così si esprime:

«Non prendiamocela con i giudici. Né Cauchon, né i suoi assessori ricercavano il vantaggio personale.  Avevano però paura. Di Warwick, che comandava la piazza, del diavolo, soprattutto, che vedevano ovunque. Non dobbiamo dimenticare che nel cristianesimo di quel tempo, diventato infine religione popolare grazie al successo dell'attività pastorale, le credenze degli umili, le effusioni ingenue, incontrollate della loro devozione, si erano profondamente insinuate nelle armature logiche edificate nel XIII secolo dalla scolastica; esse penetravano ora anche nello spiriti dei dottori. Questi uomini di studio, così fieri della loro capacità di ragionare, credevano molto fortemente - quanto l'accusata, se non di più, - alle irruzioni dell'invisibile, alle voci, alle fate. Nel groviglio fitto di ciò che, ai loro occhi, proveniva dal sovrannaturale, il loro compito consisteva proprio nel distinguere il benefico dal malefico. Svolsero il proprio mestiere nel modo migliore, utilizzando gli strumenti messi a punto dagli inquisitori, loro predecessori, che perseguitavano i catari, tutti gli strumenti in grado di spezzare la resistenza dell'accusato, di estorcere la sua confessione, facendo a meno in questo caso, tuttavia, della tortura fisica. Perché il caso che dovevano istruire era singolare. Giovanna non era una semplice pastorella. Aveva vissuto accanto ai grandi, ottenuto la loro fiducia, ricevuto il loro appoggio, ed era stata sostenuta dal fervore delle folle. Essa lo sapeva, e lo sapevano anche i giudici, tanto da aver paura di lei.  Se era davvero demoniaca, avevano paura di affrontare gli artifici del Maligno. Se non lo era affatto - ciò che molti di loro pensavano certamente, ciò che pensarono sicuramente Isembart de la Pierre, Augustin, Martin l'Advenu, frate predicatore - temevano, tremanti di fronte al potere militare, di dover condannare l'innocenza malgrado le loro convinzioni.»

Da questo quadro, invero forse  un po' troppo patetico, emerge l'immagine di una corte giudicante che tremava di paura davanti a tutto e a tutti: davanti agli Inglesi; davanti al Diavolo (ma Duby non sostiene che essa si appoggiava su una collaudata tradizione inquisitoriale?); davanti alla propria coscienza combattuta; davanti alla stessa Giovanna.
Inoltre, dal suo modo di presentare tutta la questione, si coglie l'aporia fondamentale dello storico moderno e razionalista, che non crede né agli angeli né ai diavoli, il quale è tuttavia chiamato ad esprimersi su un processo di cui tale credenza era il fulcro e il presupposto. Ed egli se la cava dicendo che quei giudici insigni erano spaventati dalla presenza del soprannaturale, nonostante tutto il loro sapere professorale, quanto e più della stessa imputata…
Quasi quasi ci si commuove davanti a tanta paura, a tanta eccitabilità: e si finisce per dimenticare che i processi alle streghe erano cosa purtroppo comunissima a quell'epoca; ma che proprio quel processo, più che con la stregoneria, aveva a che fare, e parecchio, con la politica e coi padroni Inglesi, di cui i giudici di Rouen erano, di fatto, al servizio…
Non si dimentichi, del resto, che i teologi della Sorbona era chiamati a fornire un parere scientifico e che si trovavano nella fortuna posizione di non essere direttamente parte in causa. Non risiedevano a Rouen e avrebbero potuto valutare le cose da un punto di vista più spassionato e obiettivo di quel che non fosse consentiti ai giudici.
Eppure, la loro acrimonia professorale non conobbe esitazioni nello scagliarsi contro la contadinella di Domrémy: e ciò, psicologicamente, crediamo si spieghi benissimo con l'astio e la furibonda, meschina gelosia da parte dell'intellettuale di professione, che gode di un posto eminente nella società ed è largamente retribuito per dispensare agli studenti - o, come in questo caso, alle autorità ecclesiastiche e civili - il proprio sapere, nei confronti dei «sogni» di un veggente, di un mistico che si dice ispirato da Dio e che, nella fattispecie, è una giovanissima donna incolta che aveva, però (ecco il suo peccato imperdonabile!) 'stregato' le masse e gli stessi potenti.
Chi conosca l'astio e il livore con i quali il filosofo Kant ha perseguitato quella grande figura di scienziato, di pensatore e di mistico che è stato lo svedese Emanuel Swedenborg, potrà meglio comprendere questa notazione psicologica; con l'aggravante, nel caso della «pulzella d'Orléans», ch'ella non era una dotta, una studiosa, ma una ragazza del popolo, una contadina dei Vosgi. Come osava, quella creatura due volte inferiore - in quanto donna ed in quanto illetterata - ergersi a strumento della volontà divina e pretendere di conoscere quest'ultima meglio dei professori, che occupavano le cattedre della più rinomata università del mondo?
Il processo finì come doveva finire, come era inevitabile che finisse. 
Dopo aver ritrattato le proprie  affermazioni in un momento di debolezza, Giovanna si riprese, sconfessò la confessione e venne perciò condannata al rogo come eretica «relapsa» (ossia recidiva). La sentenza venne eseguita sulla piazza del Mercato Vecchio di Rouen, il 30 maggio del 1431.
Diciotto anni dopo, nel 1449, le truppe di Carlo VII riconquistarono la città e il sovrano francese ordinò di aprire un'inchiesta su quel processo: il suo scopo effettivo non era tanto la riabilitazione di Giovanna, quanto dimostrare che egli non era stato da lei stregato e che, quindi, l'origine del suo potere regale era pienamente legittima.
Poco dopo, tuttavia, anche la Chiesa francese volle aprire un'inchiesta sulle carte del processo del 1431, inchiesta che portò alla sua revisione e alla piena riabilitazione di Giovanna, proclamata il 7 luglio del 1456.
I verbali di entrambi i processi - quello di condanna e quello che portò alla riabilitazione - sono stati pubblicati nel corso del XIX secolo: in un'epoca, cioè, molto scaltrita sul piano filologico e storiografico. Ci si sarebbe potuto aspettare che la figura di Giovanna ne sarebbe uscita assai ridimensionata e che, forse, la sua leggenda si sarebbe irrimediabilmente appannata; invece non è stato affatto così. Quelle carte processuali ci hanno restituito una figura di giovane donna ardente, coraggiosa, ma anche molto intelligente, capace di tener testa con risposte impeccabili alle tendenziose domande dei suoi prevenuti accusatori e dei loro consulenti «tecnici»: i più bei nomi del collegio accademico dell'Università di Parigi.
Difficile credere che il livore e lo spietato accanimento con cui il processo a suo carico venne  condotto, dal principio alla fine, non abbiano avuto origine proprio da questo fatto: l'inaudita capacità di una ragazza di campagna di fronteggiare, forte della sua sola fede in Dio, tutta la loro sapienza libresca e a tutta la loro arroganza di casta.